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Full text of "Poesie di Giuseppe Parini"

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A 



944,550 



Giuseppe Parini 



POESIE 




ass 



ULRICO HOEPU 

EOrrORE U8RAI0 DELLA REALCASA 




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POESIE 



DI 



GIUSEPPE PARINI 

SCELTE E ILLUSTRATE 

PER LE PERSONE COLTE E PER LE SCUOLE 

DA 

MICHELE SCHERILLO 




ULRICO HOEPLI 

EDITOHE-LIBKAJO DELLA KEAL CASA 

MILANO 



19 00 



PROPRIETÀ LETTERARIA 



TIR A. LOMBARDlDiM.BEl.LINZAGHI 
MILANO-7 FIORI OSCURI 7.-MILAN0 



17636 



A BONAVENTURA ZUMBINI 



Carissimo professore, 

Quando, or è poco più d'un anno, venni a rive- 
dervi nella quiete della vostra villetta posta " quasi 
al cominciar dell'erta „ vesuviana, il discorso cadde 
quasi subito - ricordate? - sul Leopardi, che il " fornii- 
dabil monte „ giganteggianteci alla vista sarebbe valso 
a richiamare alla nostra mente, pur se altre ragioni 
fossero mancate. Tra qualche mese a Recanati si sa- 
rebbe celebrato il centenario della nascita di quel 
grande; e voi, annuendo all'invito della Regia Ac- 
cademia di Archeologia Lettere e Belle Arti, vi ac- 
cingevate a commemorarne la dimora in Napoli. Avevo 
anche sentito dire che in quella occasione vi sareste 
finalmente indotto a raccogliere in volume i mirabili 
e tanto ammirati vostri studi intorno al poeta predi- 
letto della vostra giovinezza; e ve ne chiesi. Ma voi 
mi dichiaraste che del Leopardi non avreste oramai 
riparlato senza prima esaminare quei preziosi mano- 
scritti, con crudele ironia ancor denominati napole- 
tani , che, sottratti dopo lunghi sforzi alla gelosa 
custodia del mago Ranieri, erano stati affidati a quella, 
diversamente gelosa, d'alcuni egregi, che intanto li 
esaminavano per conto dello Stato e un pochino, 
s'è visto, anche per conto proprio. 

Del Leopardi m'ero, quell'anno, venuto occupando 
ancor io, nelle mie lezioni presso quest'Accademia 



VI LETTERA 

Scienti fico-Letteraria; e avevo preso accordi con Fe- 
dito re benemerito ed amico cortese comm. Ulrico 
Hoepli per ripubblicarne le poesie e qualcuna delle 
prose con illustrazioni e commenti. A codesto volume 
avevo vagheggiato nel pensiero — e ve n'avevo già 
toccato in una lettera — di porre in fronte il vostro 
nome illustre ; che, attestando l'immutato affetto e la 
gratitudine devota dell'antico discepolo, sarebbe al- 
tresì giovato a rassicurare i lettori sulla provenienza 
del carico. Ma potevan quelle considerazioni, che trat- 
tenevano e trattengono voi, non consigliare me pure 
di differire a miglior tempo la pubblicazione del mio 
commento ? 

Tuttavia mi parrebbe d'infliggermi una punizione 
non meritata ritardando ancora il piacere d'attestarvi 
pubblicamente la mia riconoscenza ed affezione; e 
vi prego perciò di gradire, in attesa della leopardiana, 
questa mia scelta dei capilavori pariniani. 

Ho io bisogno di richiamarvi alla memoria il pro- 
filo che con mano maestra il Recanatese schizzò della 
nobile ed austera figura dell'abate brianzuolo ? " Giu- 
seppe Parini „ egli scrisse proemiando a quel Dialogo 
della Gloria che intitolò da lui, " fu alla nostra me- 
moria uno dei pochissimi Italiani che all'eccellenza 
nelle lettere congiunsero la profondità dei pensieri, 
e molla notizia ed uso della filosofìa presente: cose 
oramai sì necessarie alle lettere amene, che non si 
comprenderebbe come queste se ne potessero scom- 
pagnare, se di ciò non si vedessero in Italia infiniti 
esempi. Fu eziandio, come è noto, di singolare inno- 
cenza, pietà verso gl'infelici e verso la patria, fede 
verso gli amici, nobiltà d'animo e costanza contro le 
avversità della natura e della fortuna, che travaglia- 
rono tutta la sua vita misera ed umile, finché la 
morte lo trasse dall'oscurità. Ebbe parecchi discepoli; 
ai quali prima insegnava a conoscere gli uomini e le 
cose loro, e quindi a dilettarli coll'eloquenza e colla 
poesia „. 

Ora, come sapete, c'è una ragione d'opportunità a 
rinfrescarne la fama, e a diffonder tra le persone 



A BONAVENTURA ZUMBINI. VII 

colte e nelle scuole la conoscenza e lo studio delle 
opere sue. Compirà tra pochi giorni (il 15 del prossimo 
agosto) il primo centenario della morte del magna- 
nimo scrittore che — vanto davvero singolare, ricono- 
sciutogli da Cesare Balbo— " aiutò T opera de'fatti e 
del secolo „; e qui, in una delle più belle piazze che la 
" città superba „, non più " lasciva d' evirati cantori 
allettatrice „, ha aperte al sole e all' " aria pura „ di 
tra il labirinto delle vecchie viuzze dove " al pie de' 
gran palagi „ o delle " sublimi case „ o dei " lari 
plebei,, fermentava il fimo alto ed ammorbante; in 
capo alla sontuosa ed ampia strada a cui la Milano, 
non più " dolente „, non più baluardo della potenza 
guelfa, ha imposto il fatidico nome di Dante; si la- 
vora ad elevargli un monumento che sia finalmente 
meno inadeguato al inerito di lui. Ed è ben degno del- 
l'Italia rinnovellata che v'abbian concorso, da ogni an- 
golo della Penisola, tutti gli ordini de'cittadini da Sua 
Maestà Umberto I agli scolaretti de' ginnasi; ed è con- 
forto a bene augurare e sperare. Giacché col Parini la let- 
teratura nostra, infrivolita dagli Arcadi o imbastardita 
dalle contaminazioni forestiere, si rifece umana ed 
italiana. Egli, com'ebbe a sentenziare il nostro De- 
Sanctis, " è il primo poeta della nuova letteratura che 
sia un uomo, cioè che abbia dentro di sé un conte- 
nuto vivace ed appassionato, religioso, politico e mo- 
rale. La sua virtù é pura di ogni ostentazione e di ogni 
esagerazione : non ci é posa, non mira all' effetto. Ha 
la pudicizia della sincera virtù, una contentezza piut- 
tosto che una vanità di sé stesso, e degli altri una 
estimazione giusta, pura di ogni falso zelo. Ond'é che 
ti riesce insieme nobile e semplice. Com'è naturale nel 
suo sentire, cosi é giusto nel suo concepire, e proprio 
nel suo parlare. L'uomo educa l'artista. Scrive quando 
ha alcuna cosa importante a dire. Apparisce il nuovo 
contenuto, l'idea moderna uscita da una lunga ela- 
borazione di secoli, e non nella sua generalità, e non 
nelle sue vesti d'accatto, ma cosi come é concepita 
e formata in uno spirito armonico. Base di questo 
contenuto è la libertà e l'uguaglianza civile, svilup- 



vili LETTERA 

pata in un ambiente puro e morale, naturalmente 
elevato. L'artista è d'accordo con l'uomo. La sua 
idea non è già una tesi che debba dimostrarsi o un'a- 
spirazione che si faccia via con la lotta, ma è come 
il sentimento di cosa a tutti nota e tranquilla nella 
sua espansione. Non ha energia o impazienza rivo- 
luzionaria; anzi ha l'intima persuasione che con la 
forza sola della ragione e della giustizia le condizioni 
dell'uomo possano divenire migliori. Perciò la sua 
esposizione è animata, ma tranquilla, e ha più la gra- 
vità dell'ode che i furori dell'inno. Lo diresti un ro- 
mano in toga, che non predica la virtù, ma bandisce 
la legge, sicuro che sarà da ciascuno riconosciuta 
giusta e ubbidita... 11 Parini non concepisce l'arte se 
non insieme con la patria, la libertà, l'umanità, l'a- 
more, la famiglia, l'amicizia, la natura, tutto un mondo 
religioso e morale. In quest'armonia universale, dove 
uomo, patriota, amico, amante, artista, poeta, letterato 
s'internano e s'immedesimano, è il verbo della nuova 
letteratura. L'Italia da gran tempo aveva artisti, non 
aveva poeti. Qui comincia a spuntare il poeta, perchè 
dietro all'artista c'è l'uomo „. 

Mi son lasciato vincere la mano, e ho citato più di 
quanto il freno dell'arte e della discrezione non avreb- 
bero permesso. Ma mi preme troppo che i nostri 
giovani abbiano del Parini, della sua arte, dei suoi 
intenti morali e politici, un concetto conforme al vero; 
che non lo scambino, confondendo uomini e tempi, per 
un demagogo, un rivoluzionario, un giacobino, un socia- 
lista; e che una voce così autorevole come quella del 
principe dei nostri critici li scuota e distolga dall'am- 
mirazione assonnata d' un' arte modernissima , vuota, 
frolla, malsana, moralmente e civilmente dannosa: 
un'arte " lubrica „ non meno di quella dell' antico 
" Fauno procace „, e da cui la " saggia matrona „ 
dovrèbbe pur ora partire " vergognando „. 

La forte generazione, che ridonò dignità e co- 
scienza di popolo agl'Italiani, si era educata coll'e- 
sempio " di lui, che nelle reggie primo l'orma stampò 
dell'Italo coturno „, e alla scuola " di quel che sul 



A BONAVENTURA ZUMBINI. IX 

plettro immacolato cantò Torna a fiorir la rosa „. Il 
quale,^allorchè il 6 dicembre del 1769 potè finalmente 
salire su quella cattedra che l'illuminato governo di 
Maria Teresa aveva istituita proprio per lui, vi pro- 
clamò solennemente che ufficio del suo insegnamento 
sarebbe stato " di formare, di promovere, di pro- 
pagare il bongusto nella nostra patria, e d'eccitare 
e di spingere al volo il genio nascente della gioventù, 
acciocché, dietro alla scorta de'grandi esempj, disde- 
gnando la infelice mediocrità ed elevandosi coi sen- 
timenti e coirimmaginazione, produca, sia nelle Let- 
tere, sia nelle Belle Arti, opere degne della grandezza 
di questo secolo, innalzi la sua patria al pari delle 
più colte nazioni, e formi la gloria di sé medesima... 
Difl^atti „, continuava, " finché non si giugne a rivol- 
ger l'affetto, l'ambizione e la venerazione de' cittadini 
ad oggetti più sublimi, che non sono la vana pompa 
del lusso o la falsa gloria delle ricchezze, mai non 
si destano gli animi loro, per accorgersi che ci é un 
merito , che ci é una gloria infinitamente superiore ; 
mai non si sollevano a tentar cose grandi, a segna- 
larsi nella lor patria, e ad aver la superbia di di- 
stinguersi, benché nudi, fra l'oro e le gemme che cir- 
condano gli altri „. 

Non occorre eh' io m' indugi qui a dichiararvi 
quale metodo abbia seguito in questa ristampa e in 
queste illustrazioni. Quanto all'ortografia del testo, il 
Parini medesimo fu sempre oscillante ; e se per le 
odi son potuto riuscire a darne una uniforme, non 
ho osato fare altrettanto pel poemetto. Vorrei però 
esortare i giovani a non volerla imitare quando si 
compiace " di scioglier nei loro elementi alcune ma- 
niere e forme che l'uso generale ha definitivamente uni- 
ficate „. Altro é scrivere in versi, altro in prosa; e a rav- 
vicinare le due ortografie, si mette " in i)ericolo la 
retta pronunzia „ e si ripristinano " grafìe di alcune 
delle quali la grammatica storica sa che nacquero da 
meri abbagli „. Dovremmo aver tutti , insegna un 
amico e collega vostro e maestro mio amatissimo, " un 
po' più di pietà per la nostra povera lingua, non ap- 



portarvi di continuo riforme inutili, rispettare quanto 
ormai v*era in essa di stabilito „. * 

Un' ultima parola devo dirvi circa il ritratto del 
Parini che è qui contro. Esso riproduce uno schizzo 
a mano, su carta brunella giallognola, con matita di 
graffite e con tocchi di bianchetto e di creta rossa, 
alto 42 cm. e largo 28, conservato in un grosso album 
presso l'Accademia di Brera, insieme con molti altri 
disegni dal raccoglitore (Giuseppe Vallardi (1820) as- 
seriti opera dell'Appiani. A me è stato indicato dalla 
cortesia del prof. G. Carotti; il quale anzi me n'ha 
altresì procurata, perchè se ne potesse cavare questa 
incisione, una bella fotografìa. Ma egli stesso ha vo- 
luto avvertirmi che nel museo di Como si conserva 
un ritratto del nostro poeta, sicuramente derivato da 
questo disegno che l'esplicita dichiarazione del Vallardi 
e qualche altro indizio (quale una figurina virile nuda, 
seduta, tracciata a semplice contorno sul rovescio 
del foglio, nel suo stile caratteristico) attribuiscono 
all'Appiani, con la scritta: " Vera e forse unica effigie 
di Parini fattagli per sorpresa dal prof. Mazzola nel 
luglio 1793 „. La cura onde il lavoro appar condotto 
non renderebbe verosimile codesta sorpresa. Ma la- 
sciando che i meglio competenti decidano a quale 
dei due artisti il disegno veramente appartenga, a 
me sembra opportuno di qui riferire il Frammento 
di un'ode ad Andrea Appiani il pittore^ salvatoci dal 
Reina; il quale seppe anche dirci che il poeta " com- 
piacevasi forte delle idee raccolte per quest'ode, che 
egli stava maturando negli ultimi tempi di sua vita „. 
Gli Appiani erano originari di Bosisio; ma Andrea 
era nato in Milano il 23 maggio del 1754. 

Te di stirpe gentile 
E me (li casa popolar, cred'io, 
Da l'Èupili natio, 
Come fortuna variò di stile, 
Guidaron gli avi nostri 
De la città fra i clamorosi chiostri. 

* D'Ovidio, Le correzioni ai Promessi Sposi e la quesiionc delia 
lingua; Napoli, Pierro, 1895, 4.* ediz., p. 238. 



A BONAVENTURA ZUMBINI. XI 

E noi da l'onde pure, 

Dal chiaro cielo e da quell'aere vivo 

Seme portammo attivo, 

Pronto a levarne da le genti oscure, 

Tu, Appiani, col pennello, 

Ed io col plettro seguitando il bello. 
Ma il novo inerte clima 

E il crasso cibo e le gran tempo immole 



Il Reina slesso, che col Parini visse in grande 
dimestichezza, ne abbozzò con le parole un ritratto, 
non meno pregevole ne meno per noi interessante 
di quello a matita. " Statura alta ,„ egli scrive, " fronte 
bella e spaziosa, vivacissimo grand'occhio nero, naso 
tendente all'aquilino, aperti lineamenti rilevati e gran- 
deggianti, muscoli del volto mobilissimi e fortemente 
scolpiti, mano maestra di bei moti, labbra modificate 
ad ogni affetto speziale, voce gagliarda pieghevole e 
sonora, discorso energico e risoluto, ed austerità di 
aspetto raddolcita spesso da un grazioso sorriso, in- 
dicavano in lui l'uomo di animo straordinariamente 
elevato, e conciliavangli una riverenza singolare „. 

Quale segreta commozione e quale compiacenza 
nelle parole di questo valentuomo che sente come 
gli sarà anche dai nipoti più lontani invidiata la for- 
tuna d'essere stato discepolo d'un tanto maestro! E 
con una compiacenza non dissimile, vi mando, mio 
carissimo professore, da questa cameretta donde veggo 
gli operai intenti a costruir la base del monumento 
pariniano, un saluto riverente ed affettuoso. 

Milano, 1.0 giugno 1899. 

// vostro 
M. SCHERILLO. 



CENNI BIOGRAFICI 



In Bosisio, amena borgata che si distende sul declivio meridio- 
nale d'un colle speccliiantesi a nord nel tranquillo laghetto 
eupilino ora detto di Pusiano, da Francesco Maria Parino (cosi 
veramente questo cognome si trova scritto nei documenti briau- 
zuoli), modesto negoziante di seta e " possessore di un solo po- 
deretto„( Op., I, v), e da Angela Maria Carpani, jw^a^i, nacquero, 
dal 1722 al '29, quattro figliuoli: un Giulio, una Caterina che 
fu maritata nei Corneo di Monastirolo, una Laura che entrò 
negli Appiani, e il nostro Giuseppe. Questi, l'ultimo dei quattro, 
vide la luce e fu battezzato, padrino un Carl'Andrea Appiano 
{8ÃŒc)y il 23 maggio del 1729. 

Di nove anni, il padre, che voleva "dare al vivacissimo ed 
ingegnoso figliuolo una diligente educazione,,, lo condusse a Mi- 
lano, in casa della prozia Anna Maria vedova Lattuada, e lo 
inscrisse alle classi inferiori del Ginnasio Arcimboldi tenuto 
dai Barnabiti: frequentavano allora le superiori Pietro Verri e 
Cesare Beccaria. "Addio, monti sorgenti dalle acque!,, avrebbe 
forse esclamato quel giovinetto pensoso, se avesse potuto pre- 
sentire l'acuto tormento della nostalgia, onde tutta la sua vita 
sarebbe stata poi travagliata ; che sempre gli rimasero dinanzi 
alla mente quei "colli ameni „ e quelle "pure linfe „. 

La prozia mori poco dopo, nel 1741, legando per testamento 
al nipotino dodicenne, con liberalità regale, " un matarazzo ad 
electione del medesimo pronipote „, e al padre di lui "la quarta 
parte di tutti li mobili e suppellettili, perchè potesse instruere 
la casa in Milano „. Si augurava che il piccolo Giuseppe volesse 
mettersi in grado di pregare ufficialmene per l'anima di lei; e 



XIV CENNI BIOGRAFICI. 

perciò, **se continuerà nel stato clericale e vorrà promoversi al 
sacerdotio„, grlì costituiva una rendita annua su beni immobili 
per una messa quotidiana. (Salveraglio, p. 6-7). 

C'era poco da stare allegri; e il giovinetto tirava sii alla meglio, 
facendo da ripetitore ai nipoti del canonico Agudio e copiando 
carte forensi. Lo sostenevano la coraggiosa spensieratezza degli 
anni e la vivacità della fantasia. Nei ritagli di tempo leggeva 
e studiava le poesie altrui e ne componeva di proprie, e intanto 
sospingeva lontano nell'avvenire lo sguardo avido di gloria. 

Di 23 anni, nel 1752, con la falsa data di Londra, mandò fuori, 
aiutato dagli amici, un primo volumetto di versi: Alcune poesie 
di Bipano EiipilÌ7io {Bipano ò anagramma di Parino). E pre- 
ludeva con questo baldanzoso sonetto: 

Io son nato in Parnaso, e Talrae Suore 

Tutte furon presenti al nascer mio; 

E mi lavàro in quel famoso rio, 

Mercè solo del quale altri non muore. 
Però mi scalda sì divin furore, 

Sebben giovine d'anni ancor son io, 

Che d'Icaro non temo il caso rio, 

Mentre compro co' versi eterno onore. 
So che turba di sciocchi invida e bieca 

Ognor mi guarda, e con grida e lamenti 

Sì bel valore a troppo ardir mi reca. 
Ma non per ciò mio corso avvien ch'allenti; 

Né l'età verde alcun timor m'arreca; 

Ch'anco Alcide fanciul vinse i serpenti. 

Erano 93 tra compoìiimenti sacri e profani, amorosi e satirici, 
pastorali e pescatorii; e in tempi in cui imperava l'Arcadia, eb- 
bero buona accoglienza e lodi. Per merito loro e pei buoni uffici 
del Passeroni (v. più avanci, p. 46-7, 64, 159), il Parini fu ricevuto 
nell'accademia dei Trasformati, che si radunava in casa del conte 
Giuseppe M.Imbonati (v. p. 19,26-7) e raccoglieva quanto di meglio 
potesse vantare Milano in fatto di cultura: dal conte diFirmian, 
ministro plenipotenziario dell'imperatrice Maria Teresa in Lom- 
bardia, e dal cardinale arcivescovo Pozzobonelli, a Pietro Verri, 
al dottor Bicetti. al Beccaria, al Balestrieri, al Baretti, al Tanzi, 
all'Agudio. Fu altresì ascritto alla Colonia Insubre dell'Arcadia, 
ove prese il nomignolo di Darisbo Elidonio; e lo vollero nella 
loro accademia anche gl'Ipocondriaci di Roggio, che lo ribattez- 
zaron Cataste. 



CENNI BIOGRAFICI. XV 

Raggianta l'età prescritta dei 24 anni, il 14 giugno del 1754 
il Parini fu ordinato sacerdote: non senza però prima superare 
gravi difficoltà per mettere insieme il così detto patrimonio sacro. 
L'esecutore testamentario della prozia gli era avverso; e sarebbe 
forse riuscito a defraudarlo di quel po' di rendita, se non fosse 
intervenuto il buon canonico Agudio a rendersi gai-ante pel chie- 
rico perseguitato. 

Certo, vocazione vera per uno stato che gì' impediva di for- 
marsi una famiglia egli non ebbe; "né si richiese meno della 
paterna autorità per istrascinarlo repugnante alla teologia ed al 
sacerdozio „, attesta il Reina. Ancora tra i 50 e i 55 anni, a chi 
lo invitava a scrivere un epitalamio l'amabile poeta rispondeva 
con inestinta malinconia {Op.^ Il, 250) : 

Chi noi già per l'undecimo 

Lustro scendente con l'età fugace 

Chiama fra 1 lieti giovani 

A cantar d'Imeneo l'accesa face, 

E trattar dolci premj e dolci affanni 

Con voce aspra da gli anni? 
Era gioconda immagine 

Di nostra mente un di fresca donzella 
, AUor che con la tenera 

Madre abbracciata o la minor sorella 

Sopra la soglia de' paterni tetti 

Divideva gli affetti : 
E rigando di lagrime 

Le gote che al color giugnean natio 

Bel color di modestia, 

Novo di sé facea nascer desio 

Nel troppo già per lei fervido petto 

Del caro giovinetto, 
Che con frequente tremito 

De la sua mano a lei la man premendo 

La guardava sollecito. 

Sin che poi vinta lo venia seguendo, 

Ben che volgesse ancor gli occhi dolenti 

A gli amati parenti. 



L'ode rimase incompiuta; forse quel vago fantasima d'una feli- 
cità per sempre perduta inaspriva troppo le ferite non mai ri- 
marginate. 

A un nato di plebe, se avesse voluto vivere dei suoi studi, 
non rimaneva altro modo che d'entrare in quella casta eguaglia- 
trico a cui si spalancavano le case patrizie o le Corti. L'abito ta- 



XVI CENNI BIOGRAFICI. 

lare era come il dominò nero, col quale si poteva essere am- 
messi, pur senza marsina, nel gran teatro della commedia umana. 
Il giovane Parini si trovò subito al bivio: o prete, o morir di 
fame: egli prescelse la via crucis, che avrebbe se non altro 
assicurato il pane alla sua povera madre. 

Fu assunto, l'anno stesso del l'ordinazione, nella casa ducale dei 
Serbelloni, come precettore di Gian Galeazzo e degli altri figliuoli 
nati nascituri dal duca Gabrio (spirito bizzarro e inconclu- 
dente, ma fratello del cardinal Fabrizio, eh' era stato nunzio 
apostolico presso l'Imperatore, e del conte Giambattista, niente- 
meno che feldmaresciallo di Maria Teresa e comandante in capo 
della Lombardia) e da donna Maria Vittoria duchessa di Fiano, 
nata Ottoboni Boncompagni. Questa signora, che rappresentò 
una parte cospicua nella vita del poeta, meritò, quando morì 
nel 1790, l'elogio di Pietro Verri. "Fu donna „, ci lasciò scritto, 
"di animo fermo e buono, e aveva lo spirito corredato da una 
assai vasta lettura. La storia sacra, la romana, la mitologia, queste 
tre classi le possedeva. Aveva una memoria eccellente, e ren- 
deva buon conto di tutte le produzioni teatrali e di romanzi. 
Era capace d'amicizia, d'animo disinteressato e benefico. Se non 
fosse stata d'una vivacità di sentimento che talvolta la rendeva 
imprudente nel parlare, se non avesse aderito con facilità a tutti 
i consigli di qualche persona incautamente prescelta, sarebbe 
stata donna senza difetti. Io Pietro Verri, che scrivo questa 
nota, vissi. frequentandola quattro anni; e fu la prima signora 
che frequentai, e le debbo d'aver conosciuta la bella letteratura 
francese, e d'aver conservato genio ai libri „. (V. più avanti, 
p. 191). 

Il Parini rimase in questa casa otto anni, tanto mal visto 
dal Duca quanto benaccetto alla Duchessa. Ma un bel giorno 
dell'autunno 1762, nella villa di Gorgonzola, avendo donna Vit- 
toria perduta la pazienza con la figliuola del maestro Sammartini 
sua ospite che voleva a tutt' i costi tornare in città e datole due 
schiaffi, il poeta di sangue popolano insorse contro il sopruso 
feudale, e, lasciando in asso la signora e i pupilli, ricondusse, 
com' un antico cavaliere, la donzella lagriniosa alla casa paterna. 
" Non ho altra consolazione che nei libri „, scrisse in quei giorni 
la Duchessa al figliuolo lontano. "Ho dovuto disfarmi dell'abate 
Parini, a cagione d'una scenata che mi fece a Gorgonzola „. 

A Milano il Parini si trovò sul lastrico. Dalla burrasca egli 



CENNI BIOGRAFICI. XVII 

usciva nudo com* un naufrago, ma portando alto sui marosi, come 
Cesare, l'opera immortale, sua gloria, e vendetta non solamente 
sua. Il Mattino era licenziato per le stampe sette mesi dopo. 

Che amari giorni quelli dall'autunno del '62 alla primavera 
del '63 ! Ce ne rimane un triste documento nel Capitolo al ca- 
nonico Agudio. Certo, esso, buttato giù in una notte, non ag- 
giunge multo alla fama dell'artista squisito; e la trovata me- 
desima né apparisce usata ed abusata dagl'imitatori del Borni 
(efr. E. Bertana, Il Favini tra i poeti giocosi del Settecento, 
Giorn. Stor. d, lett, ital., suppl. 1, 1898). Pure, c'è tanta ingenuità 
e tanto decoro, riesce così accorato l'accenno alla madre che ha 
fame (il padre gli era morto nel '60), ed è così vero e sangui- 
nante l'altro alle limosino di messe che veiigon mancando, che 
a leggerlo si sente una stretta al cuore. Tanto più se sappiamo 
della poscritta che il poeta appose al capitolo berniesco, e che 
suona con sincerità pur troppo insospettabile: "Canonico caris- 
simo, non lasciate di farmi oggi questa grazia per amor di Dio, 
perchè sono senza un quattrino e ho mille cose da pagare. Verso 
le 23 e mezzo io andrò in casa Riso, e spero che m'avrete con- 
solato. Non mostrate a nessuno la mia miseria descritta in questo 
foglio. Il vostro P. che vi è debitore di quanto ha„. (Salvera- 
GLio, p. 35-6). 

Pare che qualche utile il poeta ricavasse dalla pubblicazione 
del poemetto: dicono un 150 zecchini (circa 1800 delle nostre 
lire); ad ogni modo potè sentire meno acuti i morsi della miseria. 
Quel poemetto lo mise nelle grazie del conte di Firmian ; che,, 
narra il Reina, "sempre il voleva seco, e consigliavasi con lui 
sulle più gravi faccende, e su quelle spezialmente che riguarda- 
vano la letteraria restaurazione „. Sperando di poter creare per 
lui un ufficio più conveniente, ei gli affidò intanto la direzione 
della Gazzetta di Milano (v. più avanti, p. 36-7). 

Nel 1766 il Parini fu invitato ad andare a Parma, per inse- 
gnare Eloquenza e Logica in quelle nuove scuole della Paggeria 
Reale; ma non volle muoversi da Milano, aspettando che il Firmian 
e il Wilzeck riuscissero ad attuare il loro disegno, d'istituire 
qui una cattedra d'Eloquenza Superiore. Un insegnamento co- 
desto necessario ed utile dovunque, ma tanto più a Milano, 
scriveva il poeta al conte di Wilzeck [Op., IV, 161 ss.), "dove ad 
onta di tante recenti cure di S. M. non si può negare che regni 
ancora di molta barbarie. Senza far torto „, continuava, "a que- 



XVIII CENNI BIOGRAFICI. 

gl'individui che per lo solo impeto del loro talento si aprono 
una strada fra le tenebre, V. S. IH.™* ben vede quanto sì le 
pubbliche come le private scritture manchino per lo più d'ordine, 
di precisione, di chiarezza, di digrnità. Gli avvocati, gener.al mente 
parlando, non hanno idea del buono scrivere, non dico io già di 
quello che si riferisce semplicemente alla grammatica od allo 
stile, che pure ò molto importante, ma di quello che ha rapporto 
alle convenienze degli affari e delle persone, cosa che dovreb- 
b'essere tutta propria di loro. I predicatori (non parlo io de' frati, 
a' quali non s'appartiene naturalmente nò fondamentalmente *la 
predicazione della Chiosa Cattolica, e che oltre di ciò non si può 
sperar di correggere), i predicatori, dissi, per lasciar da parte 
tutto il resto di cui mancano, sono generalmente privi della prima 
facoltà, cioè di farsi sentir con piacere; e ciò più per difetto d'a- 
bilità in loro che di pietà ne' cittadini. Che dirò io a V. S. III.'»* 
di tanti giovani sonettanti, che infestano il nostro paese, per- 
suasi d'esser qualcosa d'importante; che dietro a questa vanità, 
estremamente nociva alle famiglie ed allo Stato, perdono i ta- 
lenti che dovrebbero esser meglio impiegati?,, Il Parini, s'in- 
tende, parlava degli avvocati, dei predicatori e dei sonettanti 
del tempo suo! 

Sullo scorcio del 1769, "a dispetto de' Gesuiti che malissimo 
il comportarono „ (Op., I, xviii; e cfr. più avanti, pag. 13 e 38), 
la cattedra fu finalmente cVeata nelle Scuole Palatine alla Ca- 
nobiana; e il Parini la inaugurò solennemente il 6 dicembre, alla 
presenza del ministro Frimian e del " rispettabile magistrato costi- 
tuito moderatore della parte più nobile e più importante del Go- 
verno, cioè gli studi dei cittadini,,. {Op., IV, 22: e v. dietro, p. ix). 

Rimase colà fino al 1773, quando, cacciati i Gesuiti, quelle 
scuole furono trasportate in Brera. Qui la sua cattedra mutò 
l'antico nome nell'altro di Magna Eloquenza e Belle Arti (cfr. 
Lettere di due amici^ p. 17); ma il titolo magniloquente non 
valse a render meno modesto lo stipendio, così che il poeta non 
riusciva a sgranchir le membra di sotto alla pressura della mi- 
seria. È vero: con indulto arcivescovile del 25 febbraio 1772 gli 
era stato concesso un beneficio ecclesiastico annesso alla chiesa 
dei SS. Colombano e Paolo in Vaprio; ma non si trattava che 
di sole 160 lire milanesi annue (circa 121 delle nostre)! E l'anno 
appresso quel poveretto, che non possedeva "altri beni che lo 
stipendio di professore „, dal letto in cui nuovamente giaceva 



CENNI BIOGRAFICI. XIX 

"malato di febbre terzana,, chiede al Governatore un qualche 
miglioramento. " La mia presente situazione, oltre l'ordinaria 
cagionevolezza della mia salute „, scriveva (Salverà glio, 38-9), 
**mi fa ora sentire il peso della mia ristretta fortuna, e ciò mi 
dà occasione di pensare con maggior cautela alla età già avanzata „. 

Parve questo un buon momento ad alcuni ladri por fargli una 
visita; anzi gliene fecero due, a poca distanza di tempo! "I ladri 
perseguitano il sig. ab. Parini,,, è notato, sotto la data del 24 
giugno 1776, in un diario conservato nell'Ambrosiana. "Fu 
per la seconda volta rubato, e per consimil modo, di tutta la 
biancheria. Ciò però ha dato motivo ad una nobil azione del 
sig. conte Greppi. Il quale accompagnò con graziosissimo bi- 
glietto un regalo di due pezze finissime di tela d'Olanda al me- 
desimo sig. abate,,. Il buon Passeroni "corse a recargli tutti 
i pochi quattrinelli che aveva „, narra il Tteina. 

Nel dicembre del 76 il Papa gli accordò una pensione di 50 
scudi romani sopra alcuni beni di Canigate e Chiara valle; e 
poco più di due anni dopo, nel maggio del '79, i proprietari dei 
palchi del t«5atro alla Scala gli donarono 50 gigliati, per aver 
fornito al pittore D. Riccardi il soggetto del nuovo telone. Eran 
proventi che lo salvavano a pena dalla fame. E nell'anno stesso 
della Caduta, il 1785, il poeta già glorioso fu costretto a nuova- 
mente supplicare S. A. R. perchè volesse conferirgli il beneficio 
di Saìita Maria Assunta in Leu tate; che ottenne. 

Ancora nel luglio del 1791 lo stipendio del maestro illustre 
non ammontava che a 2300 lire milanesi, pari a circa 1750 delle 
nostre! E dire che il Bramieri, il Cantò, il Salveraglio, il Car- 
ducci si son quasi seccati del continuo chiedere che l'uomo in- 
temerato era costretto a fare, e lo han quasi quasi gratificato 
del titolo di querulo! Oh caritatevole conte Greppi e ottimo 
professor Passeroni, il mondo o peggiora o va sempre a un modo! 

Qualche buona promessa gli era stata fatta; e nell'agosto quel 
poveretto pieno d'acciacchi ringraziava il Governo, persuaso che, 
"senza uscire dai limiti della moderazione,,, sarebbe stato "de- 
corosamente provveduto alle sue reali necessità fisiche ed eco- 
nomiche „. Difatto, nell'ottobre, l'Imperatore, su proposta della 
Consulta governativa, gli accordava, oltre alla cattedra, "anche 
la carica di Soprantendente superiore delle scuole pubbliche 
in Brera, coU'aumento di soldo, portandolo a lire annue 4000 „ 
(circa 3000 delle nostre: lo stipendio d'uno Straordinario!). In- 



XX CENNI BIOGRAFICI. 

sieme con l'assegno gli fu anche accresciuta e migliorata l'abi- 
tazione, che già prima gli era stata concessa nel palazzo di Brera. 
Essa, secondo risultò dalle ricerche di L. Dell'Acqua {Rendiconti 
delV Istituto Lombardo, 9 novembre 1865, p. '251-2), era "col- 
locata a mezzogiorno, colle finestre prospicienti l'orto botanico, e 
composta di una parte di quelle stanze che sono al presente oc- 
cupate dalla presidenza e segreteria del reale Istituto Lombardo 
di scienze e lettere „. Dopo la concessione del 1791, consistette 
"in una stanza per uso di anticamera, in un'altra stanza detta 
a panò (ossia a riquadratura, dipinta cioè a cornici quadrilunghe 
a uno o più doppj, e col fondo di un solo colore), nella stanza 
del cammino, nella stanza da letto, ed in un camerino, poste tutte 
a piano terreno e fiancheggiate da un portico; mentre prima 
del 1792 consisteva nelle sole due prime stanze sopraindicate „. 
L'aula dove il Parini insegnò (v. più avanti, p. 85-6 e 92) ò quella 
a pian terreno, a sinistra di chi entri nel palazzo di Brera, sotto 
il porticato, e a sinistra del busto del poeta, che Barnaba Oriani 
vi fece porre nel 1801. Ora è adibita per magazzino di vecchiumi. 

I tempi erano vìa via diventati grossi, e la bufera che imper- 
versava di là minacciava di passare di qua dalle Alpi. Al pro- 
fessore, che oramai viveva tranquillo "coltivando la sua lirica 
e l'amicizia do' buoni „, crebbe allora, narra il Reina, "il felice 
entusiasmo di libertà, e nacquegli la speranza di giorni migliori 
per l'Europa, e spezialmente per l'avvilita Italia, costante og- 
getto de' suoi voti; e parve che non conoscesse più incomodi 
di salute o di declinante età. La politica meditazione delle an- 
tiche e moderne cose libere paragonate colle giornaliere, e la 
lettura di tutti i famosi giornali parigini, divennero la delizia 
di lui; ma l'animo suo prudente versava in segreto su gli og- 
getti amati co' fidi amici, il dottor Vincenzo Dadda ed Alfonso 
Longo; nò si condusse mai ad azione veruna che offendere po- 
tesse la delicatezza de' suoi doveri qual suddito o qual precettore. 
La materiale lettura di giornali mal impressi gì' indebolì la vista, 
e gli si appannò da una cateratta l'occhio destro,,. 

Nel marzo 1798, il fulmine Napoleonico scoppiò in Italia: il 9 
maggio l'esercito repubblicano passò l'Adda, il 15 entrò in Milano, 
"trionfante ed applaudito da' repubblicani, o, come li chiama Botta, 
gli utopisti Italiani, esecrato dal grosso delle popolazioni che si 
sollevarono qua e là„ (Balbo). Il buon Parini n'esultò con in- 
"genuità giovanile ; e il 6 pratile con ordinanza del generale Bo- 



CENNI BIOGRAFICI. XXI 

naparte e del Commissario del Direttorio Saliceti veniva chia- 
mato a far parte della Municipalità di Milano, insieme con Pietro 
Verri ed altri ventinove cittadini che non valevano loro due. 
"Parini il poeta „, scriveva il Verri al fratello Alessandro 1*8 
giugno, ** è municipalista mio collega. È un uomo un po' pedante, 
ma illuminato sui principii della scienza sociale, e di molta pro- 
bità „. L'altero aristocratico era dunque convertito! (V. più avanti, 
p. 199 ss.). E quanti accoramenti e disinganni non ebbero oramai 
comuni quei due generosi ! Il 27 luglio il Verri riscrive: "Parini, 
il fermo ed energico Parini, talvolta piange. Io non piango, ma 
fremo, e lo amo come uomo di somma virtù „. E il 6 agosto: "La 
superiorità francese ha congedati sette municipalisti, tre dei quali 
erano veramente rapaci; gli altri sono dimessi per partito, e tra 
questi il nostro Parini, uomo deciso per la giustizia e fermo contro 
civium ardor prava jubentium. Mi duole e mi rallegro con lui„. 
Il Verri medesimo lasciò poi scritto nell'incompleta sua. Storia 
deirinvasione dei Francesi repubblicani nel Milanese: ''Alcuni 
pochi nomini onesti s'erano posti nella Municipalità ad oggetto 
di dare qualche apparenza a quella unione screditatissima. Fra 
questi l'abate Parini vi si trovò quasi collocatovi a tradimento : 
il pubblico conosce in lui il poeta; chi se gli accosta, conosce 
l'uomo decisamente virtuoso e fermo, e perciò il partito domi- 
nante poco dopo lo fece congedare „. 

Perchè lo sciancato abate potesse recarsi al Comune, il Governo 
aveva messi a sua disposizione due uomini che lo sorreggessero, 
specialmente nello scendere e salire le scale. Tuttavia gli acciacchi 
sempre crescenti l'obbligarono, il 14 messidoro, a scrivere al " cit- 
tadino ministro „ perchè volesse scusare la sua assenza dall'uf- 
ficio: "alle altre infermità della mia costituzione e dell'età mia„, 
gli diceva, "si è aggiunta una cateratta, che mi ha recentemente 
privato dell'uso d'un occhio, e minacciami anche l'altro „. Un 
decreto di tre giorni dopo, dei Commissari Saliceti e Garrau, lo 
tolse d'angustie, esonerando lui e altri sei colleghi dalla carica. 
Come indennizzo per i tre mesi che la tenne, gli furon pagate 
1026 lire; che la sdegnosa anima, racconta il Reina, "fece se- 
gretamente distribuire dal suo parroco a' poverelli „. 

Tornato alla quiete della sua scuola, pur seguitando "con pre- 
mura costante gli andamenti politici della giornata „ e "lodando 
e biasimando cogli amici a tenore delle circostanze „, egli "visse 
una libera vita privata in mezzo alle fazioni che miseramente 



XXII CENNI BIOGRAFICI. 

lacerarono questa bella contrada „. Pare che, nei momenti di ozio, 
venisse via via narrando le "principali vicende avvenute nel 
patrio municipio a' tempi suoi „ ; ma nei manoscritti non se ne 
trovò traccia, e le parti che già n'aveva distese "ragionevolmente 
suppongonsi cadute nelle mani de' Tedeschi „. Si narra che quando 
costoro ripresero Milano condotti dal Suwarow, e "sparsero il 
terrore e la desolazione fra i seguaci Sella libertà „, minacciarono 
altresì di toglier la cattedra all'abate liberale. Il quale a un a- 
mico che "gli offeriva al caso onesto ricovero „ sdegnosamente ri- 
spose: "Aìidrò più presto mendicando, per ammaestramento de' 
posteri ed infamia di costoro „. 

E una maledizione alle nequizie democratiche e una biblica 
profezia per gli eccessi reazionari degli Austro-Russi fu l'ultimo 
canto dcW Italo cigno, liberissimo ed imparziale. Il 15 agosto 
del 1799, levatosi alle 8 del mattino "per inquietudine e caldo 
eccessivo,,, egli dettò al collega professor Paolo Brambilla "con 
voce elevata un sonetto che si volle da lui sul ritorno de' Te- 
deschi; finitolo disse: Vi ho posto un buon ricordo per costoro I „ 
Il sonetto ò questo {Op., II, 44): 

Predàro i Filistei l'Arca di Dio. 

Tacquero i canti e Tarpe de' Leviti, 

E il Sacerdote innanzi a Dagon rio 

Fu costretto a celar gli antiqui riti. 
Ma al fin di Terebinto in sul pendio 

Vinse Davidde, e stimolò gli arditi ; 

E il popol sorse, e gli erapj al suol natio 

Fé' dell'orgoglio loro andar pentiti. 
Or Dio lodiamo. Il Tabernacol santo 

E l'Arca è salva, e si propone il Tempio 

Che di Gerusalem fia gloria e vanto. 
Ma splendan la giustizia e il retto esempio, 

Tal che Israel non torni a novo pianto, 

A novella rapina e a novo scempio. 

Poco dopo le due del pomeriggio egli placidamente si spegneva 
(v. più là, p. 111-12). "Privatissimi furono i funerali di lui„, 
conclude il Reina, " per lutto de' tempi e per ultima sua volontà, 
così espressa: Voglio, ordino, comando che le spese funebri mi 
siano fatte nel più semplice e mero necessario, ed all'uso che si 
costuma per il più infimo dei cittadini „. Fu anche troppo scru- 
polosamente obbedito; e appunto come se si fosse trattato del- 
l'infimo dei Milanesi, la salma ne fu modestamente trasportata, 



CENNI BIOGRAFICI. XXIII 

"con funerale privato di terza elasse „ notò il curato di S. Marco, 
al cimitero di Porta Oomasina. Cinque anni prima vi era stato 
sepolto il Beccaria. E colà la pietà d'un collega ed amico, Cali- 
mero Cattaneo, professore di rettorica, gli pose una pietra (cfr. 
Forcella, Iscrizioni delle chiese di Milano, VII, p. 7), che do- 
veva solo valere a ricordare che in quel cimitero orano seppel- 
lite, non a distinguere quelle illustri dalle volgari ossa che 
vi s'andavano accumulando. Non sono molti anni che il cimi- 
tero stesso fu trasformato in orto, e pur quella modesta memoria 
del poeta sottratta agli occhi dei visitatori devoti. 

Mi piace chiuder questi cenni d'uno scrittore magnanimo con 
le parole che scrisse di lui un altro magnanimo. Il Parini, notò 
Cesare Balbo, "non volle essere né degli adulatori nò dei copri- 
tori, non temette essere degli svelatori ed assalitori de' vizi pa- 
trii. Sono di quelli, anch'oggi [nel 1846, come, pur troppo, non 
mancano del tutto in quest'anno di grazia 1899!!, che si scan- 
dalizzano a queste rivelazioni, e si fanno autorità di quel detto 
di Napoleone, che bisogna far il bucato in famiglia. Ma Napo- 
leone disse questo del dividersi, nel pericolo, dinanzi agli stra- 
nieri; ed io sono, e fui, d'accordo con lui.... Certo che l'Italia 
non avrà mai Danti, Parini od Alfieri a centinaia e migliaia; 
ma quando le centinaia e migliaia de' suoi scrittori seguiranno 
questi uomini suoi quasi soli severi, invece di tener dietro alla 
turba dei nostri grandi adulatori, scusatori e copritori, allora 
solamente e finalmente l'Italia avrà una opinione sana e virile 
che la conduca a virili fatti.... Se ne persuada una volta la mi- 
sera Italia: ella fu perduta da' suoi adulatori, dagli accarezza- 
tori de' suoi vizi e delle sue passioni, dagli scusatori delle colpe 
sue. Finche ella darà retta a costoro ed ai successori di costoro, 
storici, politici, oratori di ogni sorta, ella non può riconoscere 
i suoi vizi; e finche ella non li abbia riconosciuti, ella non ò 
nemmen sulla via di correggerli; e finche ella non li abbia cor- 
retti, ella vizierà, ella perderà tutte le occasioni, tutte le imprese „. 



ODI 



ODI 



Avvertenza. — Le Odi vennero sparsamente pubblicate, a mano 
a mano che uscivan di mano deirautore ; il quale non consenti che 
si raccogliessero insieme, se non quando seppe che se ne prepa- 
rava un'edizione fuori di Milano. Solo allora egli accordò al suo 
scolaro ed amico Agostino Gambarelli la facoltà di ristamparle in 
un volumetto, che venne fuori a Milano^ coi tipi di Giuseppe Ma- 
relli, nel 1791. Questa edizione, dopo la morte del poeta, fu varie 
volte riprodotta, con l'aggiunta delle odi Per V inclita Nice, A Siluia, 
Alla Musa, scritte dopo il '91. 

Si dice che il Parini medesimo meditasse una completa ristampa 
delle sue poesie; ad ogni modo, tra i suoi manoscritti furon ritro- 
vate le Odi corrette di sua mano. E appunto attenendosi, per quanto 
gli era possibile, all'ultima volontà del poeta, l'avvocato Francesco 
Reina le ripubblicò nel II volume della sua bella edizione delle 
Opere di G. P. (1802). Le ristampe posteriori, comprese quelle di 
Giuseppe Beraardoni (Milano, 1814), di Giuseppe Giusti (Firenze, 
Le Mounier, 1846), di Giosuè Carducci (Firenze, Barbèra, 1858), non 
hanno, quanto al testo, una vera importanza. Per riuscire a qualche 
miglioramento notevole, bisognava " rifare sui manoscritti e sulle 
stampe il lavoro del Reina, cercando l'ultima lezione voluta dal 
poeta e porre tra le varianti tutte le lezioni anteriori , : e ciò si 
propose Filippo Salveraglio, nella sua edizione, per molti lati pre- 
gevole, delle Odi (Bologna, Zanichelli, 1881). 

Anche noi, come tutti quelli che hanno di recente curato ri- 
stampe commentate delle Odi pariuìane, abbiamo adottato il testo 
del Salveraglio: ma anche noi non abbiam creduto bene compren- 
dere tra esse le due canzonette Per nozze e 11 Brindisi (cfr. Novati, 
nel Giornale Storico d. lett. ital., I, 124-5), che releghiamo tra le 
Poesie varie; e qua e là abbiamo accolte le correzioni proposte 
da Alfonso Cerquetti (// testo più sicuro delle Odi di G. P.; Osimo, 
1892), dal Bertoldi (Firenze, Sansoni, 1890), dal Mazzoni (Firenze, Bar- 
bèra, 1897). Quanto ai titoli, siamo senz'altro tornati a quelli che, 
adottati dal Gambarelli e dal Reina, sono stati consacrati dall'uso, 
dando tra parentesi quelli che il Salveraglio credè conveniente 
sostituire; e quanto all'ordine, abbiam seguito quello che ci è 
parso più esattamente cronologico. 



LA YITA RUSTICA 

(Su la libertà campestre). 



Perché turbarmi Fani ma, 
O d'oro e d*onor brame, 
Se del mio viver Àtropo 
Presso è a troncar lo stame, 
E già per me si piega 
Sul remo il nocchier brun 
Colà donde si niega 
Che più ritorni alcun ? 

Queste che ancor ne avanzano 
Ore fugaci e mèste, 
Belle ci renda e amabili 
La libertade agreste. 
Qui Cerere ne manda 
Le biade, e Bacco il vin ; 
Qui di fior s'inghirlanda 
Bella Innocenza il crin. 

So che felice stimasi 
Il possessor d'un'arca. 
Che Plulo abbia propizio 
Di gran tesoro carca ; 
Ma so ancor che al potente 
Palpita oppresso il cor 
Sotto la man sovente 
Del gelato timor. 



ODI. 

Me non nato a percotere 
Le dure illustri porte 
Nudo accorrà, ma libero, 
Il regno de la morte. 
No, ricchezza né onore 
Con frode o con viltà 
Il secol venditore 
Mercar non mi vedrà. 

Colli beati e placidi 
Che il vago Èupili mio 
Cingete con dolcissimo 
Insensibil pendio, 
Dal bel rapirmi sento 
Che natura vi die. 
Ed esule contento 
A voi rivolgo il pie. 

Già la quiete, a gli uomini 
Si sconosciuta, in seno 
De le vostr' ombre apprestami 
Caro albergo sereno : 
E le cure e gli affanni 
Quindi lunge volar 
Scorgo, e gire i tiranni 
Superbi ad agitar. 

Qual porteranno invidia 
A me, che di fior cinto, 
Tra la famiglia rustica, 
A nessun giogo avvinto. 
Come solca in Anfriso 
Febo pastor, vivrò, 
E sempre con un viso 
La cetra sonerò! 

Inni dal petto supplice 
Alzerò spesso a i cieli. 
Si che lontan si volgano 
I turbini crudeli, 
E da noi lunge avvampi 
L'aspro sdegno guerrier. 
Né ci calpesti i campi 
L'inimico destrier. 



LA VITA BUSTIOA. 

E te, villan sollecito, ' 
Che per nov'orme il tralcio 
Saprai guidar, frenandolo 
Gol pieghevole salcio; 
E te, che steril parte 
Del tuo terren di più 
Render farai, con arte 
Che ignota al padre fu; 

Te co' miei carmi a i posteri 
Farò passar felice ; 
Di te parlar più secoli 
S'udirà la pendice. 
Sotto le meste piante 
Vedransi a riverir 
Le quete ossa compiante 
I posteri venir. 

Tale a me pur concedasi 
Chiuder, campi beati, 
Nel vostro almo ricovero 
I giorni fortunati. 
Ah quella é vera fama 
D'uom che lasciar può qui 
Lunga ancor di sé brama 
Dopo Tultimo di! 



Il GambarelU disse quest'ode composta * nel novembre del 1758 , 
o in quel torno, e * nel 1758 , la disse scritta U Reina; ma, con buone 
ragioni, il Salveraglio argomenta che si debba risalire all'estate 
del 1757. Ad ogni modo, essa non fu stampata se non il 1780, nel 
volume XllI delle Rime degli Arcadi (Roma, Giunchi, p. 146-9), col 
titolo, nell'indice: Su la libertà campestre. Il Reina riprodusse ap- 
punto questo testo a stampa, tenendo conio di " alcune correzioni , 
che II poeta stesso v'era venuto a mano a mano facendo ; il Gam- 
barelU ii^vece, e dopo di lui il Bernardoni, il Giusti ecc., ridiedero 
il testo quale correva manoscritto prima deUa pubblicazione ro- 
mana, e dov'eran tre strofe che dal poeta, asserisce U Reina, * erano 
state precedentemente rifiutate ,. 



LA SALUBRITÀ DELL'ARIA 



Oh beato terreno 
Del vago Èupili mio. 
Ecco al fin nel tuo seno 
M'accogli ; e del natio 
Aere mi circondi, 
E il petto avido inondi! 

Già nel polmon capace 
Urta sé stesso e scende 
Quest'etere vivace 
Che gli egri spirti accende, 
E le forze rintegra, 
E Tanimo rallegra. 

Però ch'Austro scortese 
Qui suoi vapor non mena : 
E guarda il bel paese 
Alta di monti schiena, 
Cui sormontar non vale 
Borea con rigid'ale. 

Né qui giaccion paludi 
Che da l'impuro letto 
Mandino a i capi ignudi 
Nuvol di morbi infetto: 
E il meriggio a' bei colli 
Asciuga i dorsi molli. 

Péra colui che primo 
A le triste oziose 



LA SALUBRITÀ DBLL*AIIIA. 

Acque e al fetido limo 

La mia cittade espose; 

E per lucro ebbe a vile 

La salute civile. 
Certo colui del fiume 

Di Stige ora s'impaccia 

Tra Torribil bitume, 

Onde alzando la faccia 

Bestemmia il fango e Tacque 

Che radunar gli piacque. 
Mira dipinti in viso 

Di iriortali pallori 

Entro al mal nato riso 

I languenti cultori; 

E trema, o cittadino, 

Che a te il soffri vicino. 
Io de' miei colli ameni 

Nel bel clima innocente 

Passerò i di sereni 

Tra la beata gente 

Che di fatiche onusta 

È vegeta e robusta. 
Qui con la mente sgombra. 

Di pure linfe asterso. 

Sotto ad una fresc'ombra 

Celebrerò col verso 

I villan vispi e sciolti 

Sparsi per li ricolti; 
E i membri non mai stanchi 

Dietro al crescente pane; 

E i baldanzosi fianchi 

De le ardite villane; 

E il bel volto giocondo 

Fra il bruno e il rubicondo; 
Dicendo: Oh fortunate 

Genti, che in dolci tempre 

Quest'aura respirate. 

Rotta e purgata sempre 

Da venti fuggitivi 

E da limpidi rivil 



ODI. 

Ben larga ancor natura 
Fu a la città superba 
Di cielo e d'aria pura; 
Ma chi i bei doni or serba 
Fra il lusso e Tavarizia 
E la stolta pigrizia ? 

Ahi I non bastò che intorno 
Putridi stagni avesse; 
Anzi a turbarne il giorno 
Sotto a le mura stesse 
Trasse gli scelerati 
Rivi a marcir su i prati. 

E la comun salute 
Sagri fìcossi al pasto 
D'ambiziose mute, 
Che poi con crudo fasto 
Galchin per Tampie strade 
11 popolo che cade. 

A voi il timo e il croco 
E la menta selvaggia 
L'aere per ogni loco 
De' varj atomi irraggia, 
Che con soavi e cari 
Sensi pungon le nari. 

Ma al pie de' gran palagi 
Là il fimo alto fermenta ; 
E di sali malvagi 
Ammorba l'aria lenta, 
Che a stagnar si rimase 
Tra le sublimi case. 

Quivi i lari pleblei 
Da le spregiate crete 
D'umor fracidi e rei 
Versan fonLi indiscrete. 
Onde il vapor s'aggira, 
E col fiato s'inspira. 

Spenti animai, ridotti 
Per le frequenti vie, 
De gli aliti corrotti 
Empion r estivo die : 



LA SALUBRITÀ DBLL*ABIA. 

Spettacolo deforme 
Del cittadin su Torme! 

Né a pena cadde il sole, 
Che vaganti latrine 
Con spalancate gole 
Lustran ogni confine 
De la città, che desta 
Beve Taura molesta. 

Gridan le leggi, è vero; 
E Temi bieco guata: 
Ma sol di sé pensiero 
Ha rinerzia privata. 
Stolto ! e mirar non vuoi 
Ne' comun danni i tuoi ? 

Ma dove ahi corro e vago 
Lontano da le belle 
Colline e dal bel lago 
E da le villanelle 
A cui si vivo e schietto 
Aere ondeggiar fa il petto ? 

Va per negletta via 
Ognor Tutil cercando 
La calda fantasia, 
Che sol felice è quando 
L'utile unir può al vanto 
Di lusinghevol canto. 



Fu scritta, dice il Reina, " verso il 1759 „; ■ nello stesso anno 
dell'ode precedente , o poco dopo, U Salveraglio. Stampata fu però 
solo nel 1791. 

Una delle solite gride del governatore spagnuolo proibiva, il 
19 luglio 1619, * tutti li risi dentro lo spatio di quattro migUa dalla 
città di MUano , ; ma, posta essa pure, come quelle contro i bravi, 
* in obblivione, ne segue „, diceva una nuova grida del 7 settembre 
1662, * che poi Tacque fatte stagnanti rendano, come mostra l'espe- 
rienza, l'aria insalubre, e causino infìrmità e danno considerabile 
alla publica salute ,. Onde nuove ingiunzioni perchè nessuno 'ar- 
disca di seminare, né far semina, né permettere che sia seminato 
riso in alcuna parte del dominio di Milano vicino aUe città, alle 
ville, edifitii e strade, per la distanza ... da Milano . . . per spatio 
e circonferenza di quattro migUa, misurate per aria e per retta 



10 ODI. 

linea, e non per le strade , ; ai trasgressori, confisca dei prodotti) 
multe, tratti di corda, galera. Il risultato vero di tanto rigore di 
leggi fu che, ai tempi del Parini, le marcite si stendevano al sole 
per fin " entro a le mura stesse , della città! 

Le leggi SOM, ma chi pon mano ad esse?v 

sembra che il Parini ripeta. 

Né si direbbe che ottenesse subito un grande effetto la grida ge- 
nerale del 30 aprile 1756, promulgata dal Maestrato della Sanità per 
" rimovere tutte quelle incidenze che pregiudicar potessero alla 
conservazione della pubblica salute, per togliere quegli abusi od 
inconvenienti che potessero nocere alla salubrità dell'aria, od anche 
ad una polizia che una tanta metropoli richiede ,. Essa coman- 
dava : • che si tenghi netto avanti le proprie abitazioni.... ; che 
niuno getti, o mandi,.. . in qualsiasi ora, acqua nelle strade e luoghi 
pubblici di questa città, che possa cagionare fango o fettore, molto 
meno alcun'altra cosa immonda o fetida, e specialmente alcun 
animai morto....; che tutti quelli che avranno navazze stercorarie 
per evacuar necessari, che soglionsi chiamar nauazzari, non pos- 
sino avere né adoperare né far adoperare navazze se non ben 
chiuse, di modo che non possino spandere, all'intorno né al di 
sotto, la materia che in esse si riporrà....; che.... quelle persone 
alle quali morissino cani, gatti, polli, ed altri animali...., si co- 
manda.... che non li ritengano scoperti nelle loro case, cortili, 
luoghi, o giardini, e molto più che non li gettino né lascino get- 
tare o mandare in alcun luogo pubblico della città, ma che subito 
o li sotterrino o li mandino fuori delle mura in parte remota, da 
non averne a ricevere offesa né il pubblico né il privato, ovvero 
a casa de' deputati ed obbligati a questa provvisione degli animali 
morti....; e proibiscono a qualsiasi persona.... il gettare o far get- 
tare cavallo, asino, mulo, o qualunque altro .quadrupede morto o 
moribondo nelli Navigli, cosi in vicinanza di questa città come in 
qualsiasi altra parte dove scorrono ,. 

Cfr. per tutto ciò la nota del Salveraglio, p. 192-6. 



LA IMPOSTURA 



Venerabile Impostura, 
Io nel tempio almo a te sacro 
Vo tenton per l'aria oscura; 
E al tuo santo simulacro, 
Cui gran folla urta di gente, 
Già mi prostro umilemente. 

Tu de gli uomini maestra 
Sola sei. Qualor tu détti 
Ne la comoda palestra 
I dolcissimi precetti, 
Tu il discorso volgi amico 
Al monarca ed al mendico. 

L' un per via piagato reggi ; 
E fai si che in gridi strani 
Sua miseria giganteggi;. 
Onde poi non culti pani 
A lui frutti la semenza 
De la flebile eloquenza. 

Tu de Taltro a lato al trono 
Con la Iperbole ti pósi : 
E fra i turbini e fra il tuono 
De' gran titoli fastosi 
Le vergogne a lui celate 
De la nuda umariitate. 

Già con Numa in sul Tarpeo 
Désti al Tebro i riti santi, 



1.2 ODI. 

Onde l'augure poteo 
Co' suoi voli e co' suoi canti 
Soggiogar le altere menti 
Domatrici de le genti. 

Del Macedone a te piacque 
Fare un dio, dinanzi a cui 
Paventando Torbe tacque : 
E ne TAsia i doni tui 
Fur che T arabo profeta 
Sollevaro a si gran meta. 

Ave, dea. Tu come il sole 
Giri e scaldi Tuniverso. 
Te suo nume onora e còle 
Oggi il popolo diverso: 
E Fortuna a te devota 
Diede a volger la sua rota. 

I suoi dritti il merto cede 
A la tua divinitade, 
E virtù la sua mercede. 
Or, se tanta potestade 
Hai qua giù, col tuo favore 
Che non fai pur me impostore ? 

Mente pronta e ognor ferace 
D' opportune utili fole 
Have il tuo degno seguace; 
Ha pieghevoli parole; 
Ma tenace e, quasi monte, 
incrollabile la fronte. 

Sopra tutto ei non oblia 
Che si fermo il tuo colosso 
Nel gran tempio non slaria. 
Se qual base ognor col dosso 
Non reggessegli il costante 
Verosimile le piante. 

Con quest'arte Gluvieno, 
Che al bel sesso ora è il più caro 
Fra i seguaci di Galeno, 
Si fa ricco e si fa chiaro; 
Ed amar fa, tanto ei vale, 
A le belle egre il lor male. 



LA IMPOSTURA. 13 

Ma Gluvien dal mio destino 

D'imitar non m'è concesso. 

De ripocrita Crispino 

Vo' seguir Torme da presso. 

Tu mi guida, o Dea cortese, 

Per io incognito paese. 
Di tua man tu il collo alquanto 

Sul manc'omero mi premi: 

Tu una stilla ognor di pianto 

Da mie luci aride spremi: 

E mi faccia casto ombrello 

Sopra il viso ampio cappello. 
Qual fia allor si intatto giglio 

Ch'io non macchi o ch'io non sfrondi. 

Da le forche e da l'esiglio 

Sempre salvo ? A me fecondi 

Di quant'oro fìen gli strilli 

De' clienti e de' pupilli ! 
Ma qual arde amabil lume? 

Ah ti veggio ancor lontano, 

Verità, mio solo nume, 

Che m'accenni con la mano, 

E m'inviti al latte schietto 

Ch' ognor bevvi al tuo bel petto. 
Deh perdona ! Errai seguendo 

Troppo il fervido pensiere. 

I tuoi rai del mostro orrendo 

Scopron or le zanne fiere. 

Tu per sempre a lui mi togli; 

E me nudo nuda accogli. 



Fu ■ recitata in una pubbUca adunanza de' Trasformati „ scri- 
veva nel 1791 il Gambarelli, â–  circa un trent'anni fa , : si deve 
dunque ritenere, ne conclude il Salveraglio, â–  scritta circa U 1761 ,. 
Non apparve però stampata se non nell'edizione del Gambarelli, 
e con qualche ritocco e soppressione. NotevoU queste: dopo il 
verso Che non fai pur me impostore? seguivano ancora tre strofe: 

Temerario menzognero 
Già su Plstro non vogl' io 
Al geografo Buffiero 



14 • ODI. 

Tórre un verso e farlo mio; 

E buscar gemine e fischiate, 

Falso conte e falso vate. 
Né me stesso od altri io voglio 

Por nel coro de* celesti, 
. Vana speme e pazzo orgoglio, 

Onde porta gli ocelli mesti ; . 

• 11 .Biografo beflato, 

Quel che il Bruni ha effeminato. 
Non invidio il losco ingegno 

Di si sciocchi mentitori. 

Dèa, costor nel tuo bel regno 

Abbiantitol d'impostori; • • . 

. Xa sian risi^ ed abbian pene. 

Poi che impor non sepper bene. 

Non s|itìtendè completamente a quali fatti il poeta alluda. Pare 
soltanto certo che il biografo- beffato sia il barna];)ita P. Bruni, al 
quale furon fatte credere opera d'una divota certe vecchie e già 
stampate Meditazioni; ond'egli ne ricercò e scrisse la vita, col pro- 
posito d'iniziarne il processo di beatificazione. 

Dopo il verso A le belle egre il lor male, continuava con partico- 
lari caratteristici: 

Ei non come i pari suoi 

Pompa fa di lingua argiva, 

Ma vezzoso i mali tuoi 

Chiama un'aura convulsiva; 

E la febbre ch'ei nutrica 

Chiama dolce e chiama antica. 
Ei primiero il varco aperse 

A un r»i/oro confidente; 

Egli a' medici scoperse 

Come l'utero si pente. 

Dea, ben dritto è se n'hai scolto 

Nel tuo tempio il nome e il volto. 

Credo anch' io che codesto medico delle dame fosse • un ritratto 
dal vivo „, come suppone il Carducci; ma non è facile, ora, iden- 
tificarlo. I nomi di Cluvieno e di Crispino il poeta prese a prestito 
da Giovenale (I, 80; IV, 1). 



L' EDUCAZIONE 

(Per la guarigione di Carlo I.mbonati). 



Torna a fiorir la rosa 
Che pur dianzi languia; 
E molle si riposa 
Sopra i gigli di pria* 
Brillano le pupille 
Di vivaci scintille. 

La guancia risorgente 
Tondeggia sul bel viso : 
E quasi^ lampo ardente, 
Va saltellando il riso 
Tra i muscoli del labro 
Ove riede il cinabro. 

I crin, che in rete accolti 
Lunga stagione ahi fòro, 
Su Fornero disciolti 
Qual ruscelletto d'oro, 
Forma attendon novèlla 
D'artificióse anella. 

Vigor novo conforta 
L'irrequieto piede: 
Natura ecco ecco il porta, 
Si che al vento non cede, 
Fra gli utili trastulli 
De' vezzosi fanciulli. 



16 ODI. 



O mio tenero verso, 
Di chi parlando vai, 
Che studj esser più terso 
E polito che mai? 
Parli del giovinetto 
Mia cura e mio diletto? 

Pur or cessò Taffanno 
Del morbo ond'ei fu grave: 
Oggi Tundecim'anno 
Gli porta il sol, soave 
Scaldando con sua teda 

I figliuoli di Leda. 
Simili or dunque a dolce 

Mèle di favi Iblei 
Che lento i petti molce, 
Scendete, o versi miei. 
Sopra Tali sonore 
Del giovinetto al core. 

O pianta di buon seme 
Al suolo al cielo amica, 
Che a coronar la speme 
Cresci di mia fatica, 
Salve in si fausto giorno 
Di pura luce adorno. 

Vorrei di gemali 
Doni gran pregio offrirti; 
Ma chi die liberali 
Essere a i sacri spirti? 
Fuor che la cetra, a loro 
Non venne altro tesoro. 

Deh perchè non somiglio 
Al Tèssalo maestro 
Che di Tetide il figlio 
Guidò sul cammin destro! 
Ben io ti farei doni 
Più che d'oro e canzoni. 

Già con medica mano 
Quel Centauro ingegnoso 
Rendea feroce e sano 

II suo alunno famoso; 



L* EDUCAZIONE. 17 

Ma non men che a la salma 

Porgea vigore a Talma. 
A lui, che gli sedea 

Sopra la irsuta schiena, 

Ghiron si rivolgea 

Con la fronte serena. 

Tentando in su la lira 

Suon che virtude inspira 
Scorrea con giovanile 

Man pel selvoso mento 

Del precettor gentile; 

E con l'orecchio intento 

D'Eàcide la prole 

Bevea queste parole: 
Garzon, nato al soccorso 

Di Grecia, or ti rimembra 

Perchè a la lotta e al corso 

10 t'educai le membra. 

Che non può un'alma ardita 
Se in forti membri ha vita? 
Ben sul robusto fianco 
Stai ; ben stendi de Tarco 

11 nervo al lato manco, 
Onde al segno ch'io marco 
Va stridendo lo strale 

Da la cocca fatale. 
Ma in van, se il resto oblio. 

Ti avrò possanza infuso. 

Non sai qual contro a Dio 

Fé' di sue forze abuso 

Con temeraria fronte 

Chi monte impose a monte? 
Di Teti, odi, o figliuolo, 

Il ver che a te si scopre. 

Da l'alma origin solo 

Han le lodevol'opre. 

Mal giova illustre sangue 

Ad animo che langue. 
D'Èaco e di Pelèo 

Col seme in te non scese 



IS ' ODI. 



Il valop che Teseo 
Chiari e Tirintio rese: 
Sol da noi si guadagna^ 
E con noi s'accompagna. 

Gran prole era di Giove 
Il magnanimo Alcide; 
Ma quante egli fa prove 
E quanti mostri ancide, 
Onde s'innalzi poi 
Al seggio de gli eroi? 

Altri le altere cune 
Lascia, o garzon, che pregi. 
Le superbe fortune 
Del vile- anco son fregi. 
Chi de la gloria è vago 
Sol di virtù sia pago. 

Onora, o figlio, il Nume 
Che da Talto ti guarda ; 
Ma solo a lui non fumé 
Incenso o vittim'arda: 
È d'uopo, Achille, alzare 
Ne Talma il primo altare. 

Giustizia entro al tuo seno 
Sieda e sul labbro il vero; 
E le tue mani siéno- 
Qual albero straniero 
Onde soavi unguenti 
Stillin sopra le genti.. 

Per che si pronti affetti 
Nel core il ciel ti pose? 
Questi a Ragion commetti, 
E tu vedrai gran cose: 
Quindi Talta r^ttrice 
Somma virtude elice. 

Si bei doni del cielo - 
No, non celar, garzone,. 
Con ipocrito velo ^ ^ 

Che a la virtù si oppone. 
Il marchio ond'è il cor scolto 
Lascia apparir nel volto. 



L* EDUCAZIONE. 19 

Da la lor mela hah lode, 

Figlio, gli affetti umani. 

Tu per la Grecia prode 

Insanguina le mani: 

Qua volgi, qua l'ardire 

De le magnanim' ire. 
Ma quel più dolce senso, 

Onde ad amar ti pieghi, 

Tra lo stuól d'armi denso 

Venga, e pietà non nieghi 

Al debole che cade 

É a te grida pietade. 
Te questo ognor costante 

Schermo renda al mendico; 

Fido ti faccia amante 

E indomabile amico. 

Cosi con legge alterna 

L'animo si governa. 
Tal cantava il Centauro. 

Baci il giovan gli offriva 

Con ghirlande di lauro. 

E Tètide che udiva 

A la fera divina 

Plaudia da la marina. 



Fu scritta nel maggio del 1764. Il 24 di quel mese ricorreva Tun- 
decimo compleanno del primogenito, anzi ' l'unico amato germe 
maschil deUa prosapia illustre „ del conte Giuseppe Maria Imbo- 
naU, fondatore e mecenate dell'Accademia dei Trasformati, e di 
Francesca Bicetti de' Buttinoni, soreUa del dottor Giammaria cui 
il Parini diresse Tanno dopo Tode suU'/n/ie«/o del vaiuolo. Il con- 
tino Carlo (' il mio ImbonaUno „, lo chiamava il Barelli, Scritti 
inediti, II, 51), la cui educazione aveva in cura il Parini, era stato, 
' colpa del secol pigro al fido innesto «, fieramente colpito dal 
' morbo fatai » ( Versi sciolti del dott. Bicetti, p. 71) ; ma per buona 
fortuna l'aveva vinto. Di ciò teneramente si compiace Tallo suo 
educatore; che, sano e forte il corpo, intende ora, come ' il gran 
Chirone U qual nudrl Achille », a dar precetti al suo alunno che 
valgano a rinvigorirgli anche Tanimo. 

Carlo Imbonati non si mostrò indegno d'un tanto maestro, che, 
divenuto poi suo amico, egU ammirò sempre con reverente affetto 
quale ' scola e palestra di virtù «. Anzi U Manzoni giovinetto potè 



20 ODI. 

immaginare di sentirgli ripetere a suo vantaggio, quasi scultoria- 
mente codificati, quegl' insegnamenti medesimi che già * con l'orec- 
chio intento , egli avea bevuti dal â–  precettor gentile , (cfr. il 
carme In morte di Carlo Imbottati): 

Sentir, riprese, e meditar; di poco. 
Esser contento; da la meta mai 
Non torcer gli occhi ;. conservar la mano 
Pura e la mente; de le umane cose 
Tanto sperimentar quanto ti basti 
Per non curarle; non ti far mai servo; 
Non far tregua coi vili; il santo Vero 
Mai non tradir; né profferir mai verbo 
Che plauda al vizio, o la virtù derida. 

L'ode non comparve stampata se non nel 1791. 



L'INNESTO D^L VAIUOLO 

(ÀI dottore Giammaria Bicetti de' Buttinoni). 



O Genovese, ove ne vai^ qual raggio 

Brilla di speme su le audaci antenne? 

Non temi, oimé, le penne 

Non anco esperte de gli ignoti venti? 

Qual ti affida coraggio 

A r intentato piano 

De lo immenso oceano? 

Senti le beffe de TEuropa, senti 

Come deride i tuoi sperati eventi. 
Ma tu il vulgo dispregia. Erra chi dice 

Che natura ponesse a Tuom confine 

Di vaste acque marine. 

Se gli die mente onde lor freno imporre; 

E da Talta pendice 

Insegnògli a guidare 

I gran tronchi sul mare, 

E in poderoso cànape raccórre 

I venti, onde su Tacque ardito scorre. 
Cosi Teroe nocchier pensa, ed abbatte 

1 paventati d'Ercole pilastri; 

Saluta novelli astri, 

E di nuove tempeste ode il ruggito. 

Veggon le stupefatte 



22 ODI. 

Genti de Torbe ascoso 

Lo stranier portentoso. 

Ei riede; e mostra i suoi tesori ardito 

A l'Europa che il beffa ancor sul lito. 
Più de Toro, Bicetti, a Tuomo è cara 

Questa del viver suo lunga speranza: 

Più de Toro possanza 

Sopra gli animi umani ha la bellezza. 

E pur la turba ignara 

Or condanna il cimento, 

Or resiste a l'evento 

Di chi '1 doppio tesor le reca; e sprezza 

I novi mondi al prisco mondo avvezza. 
Come biada orgogliosa in campo estivo, 

Cresce di santi abbracciamenti il frutto. 

Ringiovanisce tutto 

Ne raspetto de' figli il caro padre; 

E dentro al cor giulivo 

Contemplando la speme 

De le sue ore estreme, 

Già cultori apparecchia artieri e squadre 

A la patria, d'eroi famosa madre. 
Crescete, o pargoletti: un di sarete, 

Tu forte appoggio de le patrie mura, 

E tu soave cura 

E lusinghevol esca a i casti cori. 

Ma, oh Dio, qual falce miete 

De la ridente messe 

Le si dolci promesse? 

O guai d'atroce grandine furori 

Ne sfregiano il bel vérde e i primi fiori? 
Fra le tenere membra orribil siede 

Tacito seme; e d'improvviso il desta 

Una furia funesta, 

De la stirpe degli uomini flagello. 

Urta al di dentro e fiede 

Con lievito mortale; 

E la macchina frale 

O al tutto abbatte o le rapisce il bello. 

Quasi a statua d'eroe rivai scarpello. 



l'innesto del yaiuolo. 23 

Tutti la furia indomita vorace, 

Tutti una volta assale a i più verd'anni; 

E le strida e gli affanni 

Da i tugurj conduce a' regj tetti; 

E con la. man rapace 

Ne le tombe condensa 

Prole d'uomini immensa. 

Sfugge taluno, é vero, a i guardi infetti; 

Ma palpitando peggior fato aspetti. 
Oh miseri! che vai di medic'arte 

Né studj oprar né farmachi né mani ? 

Tutti i sudor son vani 

Quando il morbo nemico é su la porta; 

E vigor gli comparte 

De la sorpresa salma 

La non perfetta calma. 

Oh debil arte, oh mal secura scorta, 

Che il male attendi, e no '1 previeni accorta I 
Già non l'attende in Oriente il folto 

Popol che noi chiamiam barbaro e rude; 

Ma sagace delude 

Il fiero inevitabile demòne. 

Poi che il buon punto ha colto 

Onde il mostro conquida, 

Coraggioso lo sfida; 

E lo astrigne ad usar ne la tenzone 

L'armi che ottuse tra le man gli pone. 
Del regnante velen spontaneo elegge 

Quel ch'é men tristo; e macolar ne suole 

La ben amata prole, 

Che non più recidiva in salvo torna. 

Però d'umano gregge 

Va Pechino coperto; 

E di femmineo merto 

Tesoreggia il Circasso, e i chiostri adorna 

Ove la dea di Cipri orba soggiorna. 
O Montegù, qual peregrina nave, 

Barbare terre misurando e mari, 

E di popoli varj 

Diseppellendo antiqui regni e vasti, 



24 ODI. 

E a noi tornando grave 

Di strana gemma e d'auro, 

Portò si gran tesa uro, 

Che a pareggiare non che a vincer basti 

Quel che tu da l'Eussino a noi recasti ? 
Rise TAnglia, la Francia, Italia rise 

Al rammentar del favoloso Innesto; 

E il giudizio molesto 

De la falsa ragione incontro alzosse. 

In van Tefifetto arrise 

A le imprese tentate; 

Che la falsa pietate 

Contro al suo bene e contro al ver si mosse, 

É di lamento femminile armosse. 
Ben fur preste a raccór gl'infausti doni 

Che, attraversando Toccano aprico, 

Lor condusse Americo; 

E ad ambe man li trangugiaron pronte. 

De' lacerati troni 

Gli avanzi sanguinosi, 

E i frutti velenosi 

Strinser giojendo; e da lo stesso fonte 

De la vita succhiar spasimi ed onte. 
Tal del folle mortai, tale è la sorte: 

Centra ragione or di natura abusa; 

Or di ragion mal usa 

Centra natura che i suoi don gli porge. 

Questa a schifar la morte 

Insegnò madre amante 

A un popolo ignorante; 

E il popol cólto, che tropp'alto scorge. 

Contro a i consigli di tal madre insorge. 
Sempre il novo ch'è grande appar menzogna, 

Mio Bicetti, al volgar debile ingegno; 

Ma imperturbato il regno 

De' saggi dietro a l'utile s'ostina. 

Minaccia né vergogna 

No '1 frena, no '1 rimove; 

Prove accumula a prove; 

Del popolare error l'idol rovina, 

E la salute a i posteri destina. 



l'innesto del VAIUOLO. 25 

Cosi l'Anglia, la Francia, Italia vide 

Drappel di saggi contro al vulgo armarse. 

Lor zelo indomit'arse, 

E di popolo in popolo s'accese. 

Contro a Tarmi omicide 

Non più debole e nudo, 

Ma sotto a certo scudo 

Il tenero garzon cauto discese; 

E il fato inesorabile sorprese. 
Tu su Torme di quelli ardito corri, 

Tu pur, Bicetti; e di combatter tenta 

La pietà violenta 

Che a le insubriche madri il core implica. 

L'umanità soccorri; 

Spregia l'ingiusto soglio 

Ove s'arman d'orgoglio 

La superstizion, del ver nemica^ 

E Tostinata folle scola antica. 
Quanta parte maggior d'almi nipoti 

Coltiverà nostri felici campi! 

E quanta fìa che avvampi 

D'industria in pace o di coraggio in guerra! 

Quanta i soavi moti 

Propagherà d'amore, 

E desterà il languore 

Del pigro Imene, che infecondo or erra 

Contro a Tutil comun di terrà in terra! 
Le giovinette con le man di rosa 

Idalio mirto coglieranno un giorno: 

A l'alta quercia intorno 

I giovinetti fronde coglieranno; 
E a la tua chioma annosa, 
Cui per doppio decoro 

Già circonda Talloro, 
Intrecceran ghirlande, e canteranno: 
Questi a morte ne tolse o a lungo danno. 
Tale il nobile plettro in fra le dita 
Mi profeteggid armonioso e dolce, 
Nobil plettro che molce 

II duro sasso de Tumana mente; 



26 ODI. 

E da lurige lo invita 

Con lusinghevol suono 

Verso il ver, verso il buono; 

Né mai con laude bestemmiò nocente 

O il falso in trono o la viltà potente. 



Fu scritta nel 1765, e pubblicata nello stesso anno innanzi al vo- 
lume Osservazioni sopra alcuni innesti di vainolo di Gioyammaria. Bi- 
getti de' ButtinOni da Trevi in Ghiaradadda...., in Milano 1765, con 
l'intestazione: • Al signor dottore Giovammaria liicetU de* Butti- 
noni che con felice successo eseguisce e promulga l'innesto del 
vaiuolo, canzone di Giuseppe Parini ,. 

Il Ricetti, nato a Treviglio nel dicembre 1708, fu, col cognato 
Giuseppe Imbonati, dei principali ricostitutori dell'Accademia dei 
Trasformati; e, oltre che di medicina, s'occupò pure di grammatica 
italiana e dì poesia (perciò l'alloro circondava la sua fronte ■ per 
doppio decoro „ ). In dodici lettere a medici illustri descrisse alcuni 
casi di vaiuolo da lui felicemente curati coU' inoculazione; e queste, 
che videro prima parzialmente la luce nelle effemeridi, ei raccolse 
nel volume su indicato, scrivendo nell' /n/roduzzone: " Ignoro la 
cagione per la quale, essendosi ormai reso universale tal metodo 
in Europa, anzi in parte della nostra Penisola, quasi la sola Lom- 
bardia vada con pie' si cauto e guardingo, poco credula alle altrui 
affermazioni, o troppo paurosa di non egual riescita ,. Per codesto 
suo zelo umanitario meritò un premio dal Governo. (Cfr. D.' An- 
drea Verga, Della vita e degli scritti di G. M. Bicetti De-Buttinoni, 
Treviglio, 1887). 

Nell'ultimo numero del Caffé (1764), Pietro Verri cosi riassumeva 
la storia dell'innesto del vaiuolo: â–  Antico assai debb'essere il va- 
iuolo nel vasto Impero della China .. , e antico pure l'uso di co- 
municarlo per innesto In Europa U metodo d'innestare venuto 

dai Circassi, quindi chiamato pur Modus Circassicus, fu da una 
donna circassa portato a Costantinopoli circa l'anno 1670. Da Co- 
stantinopoli qualche notizia ne trapelò in Europa prima del 1713. 
Finalmente nell'anno 1713 due medici greci pubblicarono all'Eu- 
ropa l'innesto che avevan veduto praticato generalmente a Costan- 
tinopoli.... Poco o nessun effetto produssero i libri di que' due me- 
dici.... Un solo esperimento d'innesto si fece a Parigi dal celebre 
medico Eller „. Quel che meglio valse fu il coraggioso esempio di 
Maria Wortley Montagu, moglie dell'ambasciatore inglese a Co- 
stantinopoli. La quale nel 1717 scriveva a una sua amica da Adria- 
nopoli (riferisco anch'io, dal Salveraglio, la traduzione francese): 
* La petite vérole, si generale et si crucile parmi nous, n'est qu'une 
bagattelle dans ce pays par le moyen de l'inoculation qu'on a dé- 
couverte (c'est le terme dont on se sert): il y a una troupe de 
vieillcs femmes dont l'unique niéUcr est de faire cette opération ,. 



l'innesto del vaiuolo. 27 

E dopo d'averla minutamente descritta, soggiungeva : • On n'a vue 
lei mourir personne de l'inoculation ; et je suis si convaincue de 
la bonté de cette opération, que j'ai resolu de la faire à mon cher 
petit enfant. J'aime assez ma patrie pour tacher d'y ihtroduire 
cet usage, et je ne manquerois pas d'écrire exprès à nos méde- 
cins, si je les croyois assez zélés pour sacrifier leur interét parti- 
culier au bien du genre humain, et pour perdre une partie si 
considerable de leur revenue; mai je craindrois, au contraire, de 
m'exposer à tout leur ressentiment, qui est dangereux, si j'entre- 
prenais de leur fail-e un tort si considerable. Peut-élre qu'à mon 
retour en Angleterre j'aurai assez de courage pour leur déclarer 
la guerre ,. E nel 1718 fece difatto innestare a Costantinopoli il 
suo unico figliuolo. Essa mori nel 1762. 

â– Il vanto di avere introdotta questa salutare pratica in Lom- 
bardia, come anche nel Veneto, è tutto del dottor Giammaria Bi- 
cetti „ dice il Verga (pag. 26). * È vero che il dott. F. Berzi fin dal 
1758 l'aveva adoperata in Padova sopra una sua bambina, e ne 
aveva anche stesa pubblica relazione, ma fu un caso solo e nes« 
suno vi badò, tranne Barelli, che rimproverò a quel dottore d'a- 
verla narrata con si prolisse ciance, che era una seccaggine. Anche 
il cremasco Taddini, quattro anni prima del Bicetti, l'aveva felice- 
mente tentata in due suoi figli, ma non era andato più in là, e il 
nobile esempio era rimasto senza sèguito. Al dott. Bicetti era ri- 
servato di trionfare di tutti gli ostacoli e di segnare un'era impor- 
tante nella storia della medicina ,. 

Egli mori a Treviglio il 6 febbraio del 1778. A don Francesco 
Carcano che gliene dava notizia, il Barelli, ch'era stato intimo dei 
Bicetti, cosi rispondeva da Londra il 12 agosto (Scritti scelti ined. 
o rari, Milano, 1823, v. II, p. 293-4): " Dunque la morte m'ha privo 
del dottor Bicetti e del Segretario Fuentes? Oh dura cosa anche 
l'amicizia, che o tosto o tardi t'ha a cagionare di queste amaritudini! 
Quante belle ore non ho io passate nella compagnia di que' due 
degni uomini quando eravamo tutti e tre giovani, tutti e tre pieni 
di poesia e d'amore verso le buone lettere! E quando il mio Tanzi 
era vivo anch'esso, il bel quarto che faceva nella nostra congrega ! 
E il Soresi anch'esso, e quel re de' galantuomini Conte Imbonati! 
Dio ^11 abbia tutti nella sua santa gloria, e me con essi a suo 

tempo I Mi duole altresì della signora Cecca e de' suoi figliuoli, 

che, se il Songa mi dice vero, sono stati lasciati dal dottore in 
troppo piccole circostanze. Oh mondacelo pieno di guai! ,. 

E del Barelli è anche notevole, a proposito di quest'ode pariniana, 
un'altra lettera al Carcano, da Genova il 26 settembre 1770 (II, 176-7). 
L'amico milanese gli aveva il 22 settembre 1768 diretta " una lun- 
ghissima lettera „ nella quale gli dava " la brutta nuova della 
morte del Conte Imbonati „ gli parlava ' della Raccolta da farsi in 
tale occasione ,, gli menzionava " matrimoni, amici, versi, acca- 
demia, vajuolo. Bulla in Coena Domini, autori del Caffè fatti mi- 
nistri, e mill' altre cose ,; e alla lettera accompagnava * un regalo 
delle opere del Passeroni, del Parini, e di diversi altri „. Pare pro- 
babile che tra codeste ' opere , fosse pur l'ode al Bicetti ; ad ogni 



28 ODI. 

modo il Baretti, ringraziando di tutto, soggiunge : " E rispondendo 
a quella parte della lettera iu cui fate certe obbiezioni all'innesto 
del vajuolo, vi dirò in due parole che di quaranta o cinquantì^ 
mila bambini innestati in Inghilterra ogn'anno, è fatto verificato 
cento volte che non ne muore quasi uno ; né è punto vera l'asser- 
zione che il vajuolo venga due volte, vuoi innestato o vuoi naturale, 
parlando universalmente, comechè il caso abbia fatto che una 
o due persone in un milione l'abbiano avuto due volte ed anche 
tre. Avrete qualche volta veduto uomini e bestie nascere con due 
teste, ma questo non fa che gli uomini e le bestie non nascano 
che con una testa sola. Questi sono scherzi di natura che appena 
fanno eccezione alla regola. Il fatto sta, che dando il vajuolo arti- 
ficialmente alle creature, dopo d'aver preparato loro il corpo a 
dovere onde venga fuori benigno, si salva loro sovente la vita e la 
bellezza altresì, che io valuto poco meno della vita stessa; onde 
sempre considererò come deboli i genitori che non faranno fare 
questa operazione ai loro figliuoli, e come savj que' che. la fa- 
ranno lor fare. Ecco quello che ora posso dirvi in tal proposito ,. 
Per comprender bene i versi: Sfugge taluno, è vero, a i guardi 
infetti; Ma palpitando peggior fato aspetti, si tenga presente questo 
luogo dei Promessi Sposi (e. XXXIII): " I pochi guariti dalla peste 
erano, in mezzo al resto della popolazione, veramente come una 
classe privilegiata. Una gran parte dell'altra gente languiva o mo- 
riva; e quelli ch'erano stati fin allora illesi dal morbo, ne vivevano 
in continuo timore [palpitando] ; andavan riservati, guardinghi, con 
passi misurati, con visi sospettosi, con fretta ed esitazione insieme : 
che tutto poteva esser contro di loro arme di ferita mortale. Quegli 
altri all'opposto, sicuri a un di presso del fatto loro (giacché aver 
due volte la peste era caso piuttosto prodigioso che raro), giravano 
per mezzo al contagio franchi e risoluti ,. 



IL BISOGNO 

(AI signor Wirtz, Pretore per la Repubblica Elvetica). 



Oh tiranno signore 
De' miseri mortali; 
Oh male, oh persuasore 
Orribile di mali, 
Bisogno^ e che non spezza 
Tua indomita fierezza! 

Di valli adamantini 
Cinge i cor la virtude ; 
Ma tu gli urti e rovini; 
E tutto a te si schiude: 
Entri, e i nobili affetti 
O strozzi od assoggetti. 

Oltre corri, e fremente 
Strappi Ragion dal soglio; 
E il regno de la mente 
Occupi pien d'orgoglio, 
E ti poni a sedere 
Tiranno del pensiere. 

Con le folgori in mano 
La Legge alto minaccia ; 
Ma il periglio lontano 
Non scolora la faccia 
Di chi senza soccorso 
Ha il tuo peso sul dorso. 



30 ' ODI. 



Al misero mortale 
Ogni lume s'ammorza ; 
Vèr la scesa del male 
Tu lo strascini a forza: 
Ei di sé stesso in bando 
Va giù precipitando. 

Ahi ! rinfelice allora 
I comun patti rompe; 
Ogni confine ignora; 
Ne' beni altrui prorompe; 
Mangia i rapiti pani 
Con sanguinose mani. 

Ma quali odo lamenti 
E stridor di catene; 
E ingegnosi stromenti 
Veggo d'atroci pene 
Là per quegli antri oscuri 
Cinti d'orridi muri? 

Colà Tèmide armata 
Tien giudizj funesti 
Su la turba affannata 
Che tu persuadesti 
A romper gli altrui dritti, 
O padre di delitti. 

Meco vieni al cospetto 
Del nurtie che vi siede : 
No, non avrà dispetto 
Che tu v'innoltri il piede. 
Da lui con lieto vòlto 
Anco il Bisogno è accolto. 

O ministri di Temi, 
Le spade sospendete; 
Da i pulpiti supremi 
Qua l'orecchio volgete. 
Chi è che pietà niega ' 
Al Bisogno che prega ? 

Perdòn, die' ei, perdóno • 
A i iniseri cruciati. 
Io son l'autore, io sono 
De' lor primi peccati. 



IL BISOGNO. 31 

Sia contro a me dii*etta 

La pubblica vendetta. 
Ma quale a tai parole 

Giudice si commove? 

Qual de Fumana prole 

A pietade si move ? 

Tu, Wirtz, uom saggio e giusto, 

Ne dai Tesempio augusto : 
Tu cui si spesso vinse 

Dolor de gl'infelici 

Che il Bisogno sospinse 

A por le rapitrici 

Mani ne V altrui parte 

O per forza o per arte ; 
E il carcere temuto 

Lor lieto spalancasti ; 

E dando oro ed ajuto, 

Generoso insegnasti 

Come senza le pene 

Il fallo si previene. 



Fu stampata la prima volta in Milano nel 1765. Il pretore Wirtz, 
cui è diretta, ' s'acquistò ,, annota il Gambarelli, * una lode straor- 
dinaria nell'amministrazione specialmente del Criminale, ma so- 
prattutto per lo zelo ed attività sua in somministrare mezzi effi- 
caci alla emendazione de' malviventi ,. 

L'anno innanzi era apparso il famoso opuscolo del Beccaria, Dei 
delitti e delle pene^ dove son propugnate largamente e caldamente 
le medesime dottrine umanitarie che qui il poeta tocca appena. 
Cfr. p. es. il § XVI: * Ecco presso a poco il ragionamento che fa 
un ladro o un assassino, i quali non hanno altro contrappeso per 
non violare le leggi che la forca o la ruota....: Quali sono queste 
leggi che io devo rispettare, clic lasciano un cosi grande intervallo 
fra me e il ricco? Egli mi nega un soldo che gli cerco, e si scusa 
col comandarmi un travaglio che non conosce. Chi ha fatto queste 
leggi? uomini ricchi e potenU, che non si sono mai degnati visi- 
tare le squallide capanne del povero, che non hanno mai diviso 
un ammuffato pane fra le innocenti grida degli affamaU figliuoli 
e le lagrime deUa mogUe. Rompiamo questi legami, fatali alla 
maggior parte ed utili ad alcuni pochi ed indolenti tiranni; at- 
tacchiamo l'ingiustizia neUa sua sorgente.... Re d'un picciol nu- 
mero, correggerò gU errori della fortuna, e vedrò questi tiranni 



32 ODI. 

impallidire e palpitare alla presenza di colui che con un insul- 
tante fasto posponevano ai loro cavalli, ai loro cani .. 

E § XII: " Una crudeltà consacrata dall'uso nella maggior parte 
delle nazioni è la tortura del reo mentre si forma il processo, o 
per costringerlo a confessare un delitto, o per le contradizioni 
nelle quali incorre, o per la scoperta de* complici, o per non so 
quale metafisica ed incomprensibile purgazione d' infamia, o final- 
mente per altri delitti di cui potrebbe esser reo ma dei quali non 
è accusato.... ,. 

E finalmente § XX.I: * È meglio prevenire i delitti che punirli. 
Questo è il fine principale di ogni buona legislazione, che è l'arte 
di condurre gli uomini al massimo di felicità o al minimo d'infe- 
licità possibile.... Ma i mezzi impiegati finora sono per lo più falsi, 
ed opposti al fine proposto.... La maggior parte delle leggi non sono 
che privilegi, cioè un tributo di tulli al comodo di alcuni pochi.... 
Il più sicuro ma più difficil mezzo di prevenire i delitti si è di 
perfezionare l'educazione ,. (Cito dall'ediz. procuratane dal Cantù, 
in appendice al voi. Beccaria e il diritto penale^ Firenze, Barbèra, 
1S62, perchè oramai la più comune, non perchè essa possa parermi 
preferibile, specialmente nel nostro caso, alle più antiche). 

Codeste nuove idee non eran già proprie del Beccaria ; che anzi, 
come si sa, quella medesima opera, che gli fruttò tanti onori, nac- 
que e fu distesa e discussa nelle conversazioni amichevoli in casa 
di Pietro Verri. (Cfr. G. A. Venturi, C. Beccaria e le leti, di P. e A. 
Verri; Ancona, 1882, p. 7 e seg. — Novati, Otto lettere di Tito Pom- 
ponio Attico a Publio Cornelio Scipione, cioè del Beccaria al conte 
Giambattista Biffi; Ancona, 1887, p. 15 e seg. — Bouvy, Le e, P. Verri; 
Paris, 1889, p. 91 e seg.). 



LA MUSICA 

(La evirazione). 



Aborro in su la scena 
Un canoro elefante, 
Che si strascina a pena 
Su le adipose piante, 
E manda per gran foce 
Di bocca un fìl di voce. 

Ahi péra lo spietato 
Genitor che primiero 
Tentò di ferro armato 
L'esecrabile e fiero 
Misfatto onde si duole 
La mutilata prole! 

Tanto dunque de' grandi 
Può r ozioso udito, 
Che a' rei colpi nefandi 
Sen corra il padre ardito. 
Peggio che fera od angue 
Grudel contro al suo sangue ? 

O misero mortale, 
Ove cerchi il diletto ? 
Ei tra le placid'ale 
Di natura ha ricetto : 
Là con avida brama 
Susurrando li chiama. 



34 ODI. 



Ella femminea gola 
Ti diede, onde soave 
L'aere se ne vola 
Or acuto ora grave; 
E donò forza ad esso 
Di rapirti a te stesso. 

Tu non però contento 
De' suoi doni, prorompi 
Contro a lei violento, 
E le sue leggi rompi; 
Cangi gli uomini in mostri, 
E lor dignità prostri. 

Barbara gelosia 
Nel superbo Oriente 
So che pietade oblia 
Vèr la misera gente 
Che da lascivo inganno 
Assecura il tiranno : 

E folle rito al nudo 
Ultimo Caffro impone 
Il taglio atroce e crudo. 
Onde al molle garzone 
11 decimo funesto 
Anno sorge si presto. 

Ma a te in mano lo stile, 
Italo genitore, 
Pose cura più vile 
Del geloso furore: 
Te non error, ma vizio 
Spinge a Torrido ufizio. 

Arresta, empio! Che fai? 
Se tesoro ti preme, 
Nel tuo figlio non Thai? 
Con le sue membra insieme. 
Empio I il viver tu furi 
A i nipoti venturi. 

Oh Cielo 1 e tu consenti 
D' oro si cruda fame ? 
Né più il foco rammenti 
Di Pentapoli infame, 



LA MUSICA. 35 

Le cui orribiFopre 

11 nero asfalto copre? 
No. Del tesor che aperto 

Già ne la mente pingi 

Tu non andrai per certo 

Lieto come ti fingi. 

Padre crudeli Suo dritto 

De* avere il tuo delitto. 
L'oltraggio, ch'or gli è occulto, 

11 tuo tradito figlio 

Ricorderassi adulto, 

Con dispettoso ciglio 

Da la vista fuggendo 

Del carnefice orrendo. 
In vano, in van pietade 

Tu cercherai; che Talma 

In lui depressa cade 

Con la troncata salma. 

Ed impeto non trova 

Che a virtude la mova. 
Misero ! A lato a i regi 

Ei sederà cantando 

Fastoso d'aurei fregi; 

Mentre tu mendicando 

Andrai canuto e solo 

Per l'italico suolo: 
Per quel suolo che vanta 

Gran riti e leggi e studi, 

E nutre infamia tanta 

Che a gli Affricani ignudi, 

Ben che tant'alto saglia, 

E a i barbari lo agguaglia. 



11 Salveraglio la suppone scritta circa il 1770. 

Il 19 maggio dell'anno precedente era stato eletto papa il Ganga- 
nelli, Clemente XIV, U quale lasciava sperare molte riforme. Ma 
appunto perchè egli davvero vi pensava e intendeva riuscire, non 
faceva trasparir nulla dei suoi disegni; e i curiosi e i novellisti, 
com' allora si chiamavano i corrispondenti dei giornali, si perde- 
vano in congetture. 



36 ODI. 

Il Parini era stato chiamato in quei giorni dal Firmian a com- 
pilare l'ufficiosa Gazzetta di Milano. " Ne' giorni di posta Sua Ec- 
cellenza gì' inviava, coU'accordo di mandarli a riprendere la sera 
tardi, i giornali e le lettere, dì che era ben provveduto; e il Pa- 
rini, fatto lo spoglio, prima di dormire poneva sopra una rin- 
ghiera interna della casa Risi, dove abitava, l'originale della gaz- 
zetta, il quale era tolto alla mattina di buonissima ora dallo 
stampatore „. (Cfr. Salveraglio, p. 216). 

Ora una volta accadde (lo racconta in una lettera l'abate Alfonso 
Longo, amicissimo del poeta) " che, per un temporale con gran 
pioggia soi^ravvenuto la notte, il vento si portò via l'originale, pro- 
babilmente guastato dall'acqua. Lo stampatore cercò indarno que- 
st'originale la mattina, e fatto svegliare il Parini instò per potere 
stampare la Gazzetta. Parini compose in fretta una gazzetta di quel 
poco che si poteva ricordare; ma non arrivava a compiere il fo- 
glio quanto doveva esserlo per occupare la Gazzetta. Non sapendo 
più come supplire al bisogno di tante righe, pensò di supplirvi 
non colie nuove di ciò clie si fosse fatto, ma di ciò che si doveva 
fare „. Così, aiutato dalle reminiscenze delle letture già fatte e for- 
s'anclie di qualche smarrita corrispondenza autentica, mise in- 
sieme una lettera da Roma, con la data del 2 agosto, clie comparve 
nella Gazzetta del 16, in cui era detto: " Un silenzio che credesi 
tanto più attivo quanto è più esatto copre per anco in un alto se- 
greto la trattazione degli affari tra il Pontefice e le Corti... Tutto 
il mondo gioca a indovinare, e noi stiamo a vedere chi ci coglie. 
Tre cose sono ottime fra le altre per ben governare uno Stato, e 
il Papa a buon conto le fa tutl'e tre per la felicità de' suoi sud- 
diti. Queste tre cose sono: assicurare il pane al pubblico, impe- 
dire lo sciuijamento delle sostanze nei privati, allontanare il po- 
polo dalle macchinazioni e dai vizi.... Adunque il Papa ha permesso 
che si aprano i teatri anche in altre stagioni che le solite. A questo 
proposito si vuole che il i^rudentissimo Pontefice permetterà che 
recitino nei teatri di Roma anche le donne, i^revenendo con savie 
leggi l'abuso che ne può nascere. Si vuole ancora che sia per esclu- 
dere dalle sacre funzioni i musici castrati, impedendo così dal 
canto suo la maggiore e la più esecrabile depravazione che far si 
possa dell'umana natura, contraria alle leggi divine ed ecclesia- 
stiche. Quando si pretende d'indurre gli uomini a lasciare una 
co.sa malfatta, a cui sono chiamati dal loro interesse, non basta 
proibirla colle leggi sotto pene temporali o spirituali,bisogna fare 
in modo che non abbiano più interesse di farla. Crediamo che 
queste nuove, benché scarse, sieno qualche cosa più importanti 
di quelle che con lungo dettaglio s'inseriranno negli altri Avvisi 
di questo ordinario „. 

Quantunque con un editto del 24 gennaio 1770 si bandisse ancora 
un concorso per " quattro voci soprannumere nella Cappella ponti- 
ficia, cioè di un contralto naturale e di due soprani e di un te- 
nore „, pare che davvero il Papa riformatore mulinasse d'abolire 
quell'infamia; anzi, s'è da credere al suo primo biografo, egli avea 
pur dato " gli ordini opportuni per estirpar questa barbara costu- 



LA MUSICA. 37 

manza, che l'eccesso d'un lusso asiatico aveva introdotta ». (Cah.vc- 
ciOLi, Vita di Clemente XIV; Firenze, 1777). 

Il Reina (I, xvii-xviii), che racconta un po' diversamente l'aned- 
doto della dispersione del manoscritto, asserisce esser la notizia 
dell'abolizione una mera bizzarria del Parini, e soggiunge che essa, 
" riferita tosto dalla Gazzetta di Leida e da tutti gli altri giornali, 
si diffuse romorosamente in Europa: grandi elogi ne diedero al 
Pontefice i protestanti „, e Carlo Bordes di Lione " gl'indirizzo la 
bella pistola Sur ce qii'il ne veut plus de castrats. „ (Cfr. anche No- 
VATi, nel Giornale Storico d. lett. Hai., I, p. 121-3). 

Quale fosse per l'appunto il " canoro elefante „ che allora beava 
" la città, lasciva d'evirati cantori allettatrice „, e cui il poeta so- 
prattutto mirasse, non è facile indovinare. Sembra però certo che 
in colui, che " fastoso d'aurei fregi „ sedeva allora " cantando a 
lato a i regi „, egli volesse indicare il napoletano Carlo Broschi, 
soprannominato, per riguardo ai suoi primi mecenati Farina, il 
Farinelli, grande amico del Metastasio (che lo chiamava " gemello 
adorabile „ !) e lungamente favorito, consigliere segreto e ministro 
di Filippo V e di Ferdinando VI di Spagna. Nato in Andria nel 
1705, da un mugnaio, egli mori nel 1782 a Bologna, dove s'era ri- 
tratto fin dal 1762, dopo cioè la morte della regina di Spagna. (Cfr. 
FLomMO, fjtt scuola musicale di Napoli; Napoli, 1883, v. Ili, p. 455-62). 

Nel sermone // teatro (Opere, III, 165 e seg.), il Parini aveva già 
scritto a proposito dei musici: 



Qui sol. Musa, s'aspetta 
Un fracido castron che a* suoi belati 
11 folto stuol de' baccelloni alletta.... 

Che iraportan leggi al poeta meschino, 
Pur che quel poco al fin vada buscando 
Che avanza a Farinello e a Carestino ?... 

Piace a Cornelia vecchia il sucidume 
Del sopran floscio, e lodalo a la figlia 
Con quanta ella può mai forza ed acume; 

Ma la figlia vuol altro! 

Del Poeta ridiam 

Hi leva ambe le mani e '1 viso smunto 
Al ciel pietosamente, e cosi chiama: 
Odi, Apollo, il tuo servo ornai consunto. 

Dunque tu crei, per adempir la brama 
Sol de' canori sozzi avidi lupi. 
La tua possente ognor fulgida lama ? 

Per lor ne le montagne a gli antri cupi 
Fai forza col tuo caldo, e sol per loro 
V'indori co' tuoi raggi e massi e rupi? 

Sproposito ! gittar tanto tesoro 

In grembo a certa gente, Apollo mio, 
Ch'ogni sua gran virtù posta ha nel foro 

De la gola! 



38 ODI. 

Carestino sarà forse da identificare con Giovanni Caresini, che 
cantava sui teatri di Napoli tra il 1728 e il '36. (Cfr. Florimo, v. IV, 
p. 23-25). 

S'intende del resto facilmente come il Ganganelli dovesse pel 
Parini esser il Papa del cuore. Corse come suo un sonetto {Opere, 
II, 24) Sull'abolizione dei Gesuiti, che si chiude cosi: 

Bello il veder con pronte acceie brame 
L'alme Virtudi e il gran Pastor Romano 
I lor colpi alternar sul tronco infame. 

Il Reina annota: " Alcuno dubita se questo sonetto sia di Parini : 
la voce comune lo vuole suo ; uomini autorevoli amarono che si 
pubblicasse fra le cose di lui „. E difatto il Padre Pompilio Poz- 
zetti, cli'ebbe la ventura di conoscer da vicino il poeta, scriveva 
il 4 ottobre 1802 al Bramieri : " Cosi mi fosse dato regalarvi ora il 
sonetto da Parini composto per la soppressione dei Gesuiti, sotto 
l'allegoria d'una gran pianta, un de' più belli che abbiagli mal det- 
tato la Musa. Consolatevi colla sicura si^eranza di vederlo fregiare, 
insieme ad altri parecchi, la scelta raccolta che delle Opere Pari- 
niane ha preparato in Milano il valente ed accuratissimo avvocato 
Reina ,. (Cfr. Lettere di due amici, Milano, 1802, p. 215-6). 



LA LAUREA 

(Per la laurea di Maria Pellegrina Amoretti). 



Queirospite é gentil che tiene ascoso 

A i molti bevitori 

Entro a i dogli paterni il vino annoso, 

Frutto de' suoi sudori; 

E liberale allora 

Sul desco il reca di bei fiori adorno, 

Quando i Lari di lui ridenti intorno 

Degno straniere onora; 

E versata in cristalli empie la stanza 

Insolita di Bacco alma fragranza. 
Tal io la copia che de i versi accolgo 

Entro a la mente, sordo 

Niego a le brame dispensar del volgo 

Che vien di fama ingordo. 

In van Tuomo che splende 

Di beata ricchezza, in van mi tenta 

Si che il bel suono de le lodi ei senta, 

Che dolce al cor discende; 

E in van de' grandi la potenza e l'ombra 

Di facili speranze il sen m'ingombra. 



40 ODI. 

Ma quando poi sopra il cammin de i buoni 

Mi comparisce innanti 

Alma che ornata di suoi proprj doni 

Merta Tonor de i canti, 

Allor da le segrete 

Sedi del mio pensiero escono i versi, 

Atti a volar di viva gloria aspersi 

Del tempo oltra le mete; 

E donator di lode accorto e saggio 

Io ne rendo al valor debito omaggio. 
Ed or che la risorta insubre Atene, 

Con strana meraviglia, 

Le lunghe trecce a coronar ti viene, 

O di Pallade figlia, 

10 rapito al tuo merto 

Fra i portici solenni e l'alte menti 
M'innoltro e spargo di perenni unguenti 

11 nobile tuo serto: 

Né mi curo se a i plausi onde vai nota 

Finge ingenuo rossor tua casta gota. 
Ben so che donne valorose e belle 

A tutte l'altre esempio 

Veggon splender lor nomi a par di stelle 

D'eternità nel tempio: 

E so ben che il tuo sesso 

Tra gli ufizj a noi cari e l'umil arte 

Puote innalzarsi, e ne le dotte carte 

Immortalar sé stesso. 

Ma tu gisti colà, Vergin preclara, 

Ove di molle pie l'orma é più rara. 
Sovra salde colonne antica mole 

Sorge augusta e superba, 

Sacra a colei che de l'umana prole, 

Frenando, i dritti serba. 

Ivi la Dea si asside 

Custodendo del vero il puro foco; 

Ivi breve sul marmo in alto loco 

Il suo volere incide: 

E già da quello stile aureo, sincero 

Apprendea la giustizia il mondo intero. 



LA LAUREA. 41 

Ma d'ignari cultor turbe nemiche 

Con temerario piede 

Osaro entrar ne le campagne apriche 

Ove il gran tempio siede; 

E la serena piaggia 

Occuparon cosi di spini e bronchi, 

Che fra i rami intricati e i folti tronchi 

A pena il sol vi raggia; 

E Taere inerte per le fronde crebre 

V'alza dense a l'intorno atre tenèbre. 
Ben tu, di Saffo e di Corinna al pari 

donne altre famose, 

Per li colli di Pindo ameni e vari 

Potevi coglier rose; 

Ma tua virtù s'irrita 

Ove sforzo virile a pena basta; 

E ne l'aspro sentier che al pie contrasta 

Ti cimentasti ardita, 

Qual già vide a i perigli espor la fronte 

Fiere vergini armate il Termodonte. 
Or poi, tornando da l'eccelsa impresa, 

Qui sul dotto Tesino 

Scoti la face al sacro foco accesa 

Del bel tempio divino; 

E da l'arguta voce 

Tal di raro saper versi torrente, 

Che il corso a seguitar de la tua mente 

Vien l'applauso veloce, 

Abbagliando al fulgor de' raggi tui 

La invidia che suol sempre andar con lui. 
Chi può narrar qual dal soave aspetto 

E da' verginei labri 

Piove ignoto finora almo diletto 

Su i temi ingrati e scabri? 

Ecco la folta schiera 

De' giovani vivaci a te rivolta 

Vede sparger di fior, mentre t'ascolta. 

Sua nobile carriera; 

E al novo esempio de la tua tenzone 

Sente aggiugnersi al fianco acuto sprone. 



42 ODI. 

A i detti, al volto, a la grand'alma espressa 
Ne' fulgid'occhi tuoi, 
Ognun ti crederia Tèmide stessa 
Che rieda oggi fra noi: 
Se non che Oneglia, altrice 
Nel fertil suolo di palladj ulivi, 
Alza a i trionfi tuoi gridi giulivi; 
E fortunata dice: 

Dopo il gran Boria, a cui died'io la culla, 
È il mio secondo sol questa fanciulla. 
E il buon parente, che su l'alte cime 
Di gloria oggi ti mira, 
A forza i moti del suo cor comprime, 
E pur con sé s'adira. 
Ma poi cotanto è grande 
La piena del piacer che in sen gli abbonda. 
Che Targin di modestia alfine innonda, 
E fuor trabocca e spande; 
E anch'ei col pianto che celar desia 
Grida tacendo: Questa figlia è mia. 
Ma dal cimento glorioso e bello 
Tanto stupore é nato, 
Che già reca per te premio novello 
L'erudito senato. 
Già vien su le tue chiome 
Di lauro a serpeggiar fronda immortale, 
E fra lieto tumulto in alto sale 
Strepitoso il tuo nome; 
E il tuo sesso leggiadro a te dà lode 
De' novi onori, onde superbo ei gode. 
Oh amabil sesso che su l'alme regni 
Con si possente incanto, 
Qual alma generosa è che si sdegni 
Del novello tuo vanto? 
La tirannia virile 

Frema, e ti miri a gli onorati seggi 
Salir togato, e de le sacre leggi 
Interprete gentile, 

Or che d'Europa a i popoli soggetti 
Fin da l'alto de i troni anco le détti. 



LA LAUREA. 43 

Tu sei che di ragione il dolce freno 

Sul forte Russo estendi; 

Tu che del chiaro Lusitan nel seno 

L'antico spirto accendi; 

Per te Insubria beata, 

Per te Germania é gloriosa e forte: 

Tal che al favor de le tue leggi accorte 

Spero veder tornata 

L'età de Toro e il viver suo giocondo, 

Se tu governi ed ammaestri il mondo. 
E l'albero medesmo, onde fu colto 

Il ramoscel che ombreggia 

A la dotta Donzella il nobil volto, 

Convien che a te si deggia. 

In esso alta Regina 

Tien conversi dal trono i suoi bei rai; 

Tal che lieto rinverde e più che mai 

Al cielo s'avvicina. 

Quanto è bello a veder che il grato alloro 

Doni al sesso di lei pompa e decoro! 
Ma già la Fama a l'impaziente Oneglia 

Le rapid'ali affretta; 

E gridando le dice: Olà, ti sveglia 

E la tua luce aspetta. 

Insubria, onde romore 

Va per mense ospitali ed atti amici, 

Sa gli stranieri ancor render felici 

Nel calle de l'onore. 

Or quai. Vergine illustre, allegri giorni 

Ti prepara la patria allor che torni? 
Pari a la gloria tua per certo a pena 

Fu quella onde si cinse 

Colà d'Olimpia ne l'ardente arena 

11 lottator che vinse; 

Quando tra i lieti gridi 

Il guadagnato serto al crin ponea, 

E col premio d'onor che l'uomo bea 

Tornava a i patrj lidi; 

E scotendo le corde amiche a i vati, 

Pindaro lo seguia con gl'inni alati. 



44 ODI. 

Fu scritta nel giugno del 1777, e subito stampata e ristampata a 
Pavia in due raccolte d'occasione. 

L'Amoretti era nata a Oneglia il primo gennaio del 1756 da un 
luogotenente d'artiglieria, e a soli quindici anni aveva già dato 
in patria saggio dei suoi studi virili, sostenendo pubblicamente 
molte tesi di filosofìa. Nei primi mesi di quell'anno 1777 chiese 
ed ottenne dal Firmian la dispensa dall' obbligo d'aver frequen- 
tati i corsi legali nell'università di Pavia (1'" insubre Atene „, sol 
da poco " risorta „ per le opportune riforme di Maria Teresa, 
r " alta regina „) e il permesso di presentarvisi agli esami di 
laurea. Interrogata prima da qualche singolo professore e poi 
da tutta la Facoltà, rispose così bene che, come riferi quel giorno 
stesso il rettore G. B. Borsieri al Governatore, i suoi esaminatori 
" concordemente stimarono di a^iprovarla per acclamazione „. Nelle 
tesi scritte fu anche più sorprendente. " Posso assicurar V. E. », 
soggiungeva il 13 giugno il Borsieri, " che questa savia giovine ha 
superata l'aspettazione di tutti e confusa e vinta l'invidia. Io ho 
provato un estremo piacere in vedere sul volto di tutti la compia- 
cenza e la non affettata soddisfazione. Vi è stato tra i professori 
chi pubblicamente pianse per tenerezza, e ne fece mostra con pa- 
role o.iorificentissime „. 11 gran giorno della prova solenne e su- 
prema fu il 25 giugno. La candidata venne in carrozza all'univer- 
sità, insieme con una dama amica; e di là, " accompagnata da 
tutti i signori professori e dottori di Collegio, avviossi alla vicina 
chiesa del Gesù, a ciò prescelta affìnchè nella sua ampiezza desse 
luogo al concorso numerosissimo degli .siiettatori „. L'Amoretti 
esordi parlando brevemente, in forbito latino; indi svolse le tesi 
propostole, fra applausi unanimi e frenetici. 11 prof. Cremani le 
rispose con un fervorino, anch'esso in latino, tributandole infinite 
lodi; poi, le porse l'anello d'oro che si soleva conferire ai lau- 
reandi in giure, e di più, " i^remio novello „ dell'" erudito senato „, 
una corona d'alloro e una sciarpa di raso cremisino, su cui era 
ricamato in oro e colori lo stemma dello Studio pavese e la de- 
dica: Ob jiiris scientiam Ticinensis Acadeiuia dal lubens merito. La 
" terra dei carmi „ fremette all'inusitata maraviglia, e ben seltan- 
taquatlro fra odi, canzoni, sonetti, madrigali, epigrammi, in ita- 
liano, in latino, in francese, germogliarono in quell'occasione; e 
tutti furon poi raccolti in un unico volume, insieme con le tesi 
sostenute dalla candidata, col discorso del Cremani e col racconto 
della funzione, dal carmelitano Giuseppanlonio Menagliolti, nel 
settembre di quel medesimo anno. La metropoli lombarda, fa- 
mosa " per mense ospitali ed atti amici „, volle onorare anch'essa 
l'insigne " straniera „ (!); e l'arciduchessa Beatrice le donò una sca- 
tola d'oro smaltata, il Firmian le offerse un ricco banchetto. Tornò 
di lì a poco ad Oneglia, consacrandosi tutta agli studi diletti (fu 
pubblicato- postumo un suo trattato De iure dotiiim apad lioiiianos. 
Milano, 1788) e alle cure domestiche (" gli ufizi a noi cari e 
rumilarte „); ed ivi, giovane ancora sui trentun anno, sì spense il 
15 ottobre del 1787. 



LA RECITA DEI VERSI 

(Sopra l'uso di recitare i versi alle mense). 



Qual fra le mense loco 

Versi otterranno che da nobil vena 

Scendano, e a Tacre foco 

De Tarte imponga la sottil Gamena, 

Meditante lavoro 

Che sia di nostra età pregio e decoro? 
Non odi alto di voci 

I convitati sollevar tumulto, 

Che i Centauri feroci 

Fa rammentar, quando con empio insulto 

A Tospite di liti 

Sparsero e guerra i nuziali riti? 
V'ha chi al negato Scaldi 

Con gli abeti di Cesare veleggia; 

E, la vast'onda e i saldi 

Muri sprezzati, già nel cor saccheggia 

De' Bàtavi mercanti 

Le molto di tesoro arche pesanti. 
A Giove altri Tarmata 

Destra di fulmin spoglia; ed altri a volo 

Sopra l'aria domata 

Osa portar novelle genti al polo. 

Tal sedendo confida 

Ciascuno; e sua ragion fa de le grida. 



46 ODI. 

Vincere il suon discorde 

Speri colui che di clamor le folli 

Mènadi, allor che lorde 

Di mosto il viso balzan per li colli, 

Vince; e, con alta fronte. 

Gonfia d'audace verso inezie conte. 
O gran silenzio intorno 

A sé vanti compor Fauno procace, 

Se del pudore a scorno 

Annunzia carme onde a i profani piace; 

Da la cui lubric'arte 

Saggia matrona vergognando parte. 
Orecchio ama placato 

La Musa e mente arguta e cor gentile. 

Ed io, se a me fia dato 

Ordir mai su la cetra opra non vile. 

Non toccherò già corda 

Ove la turba di sue ciance assorda. 
Ben de' numeri miei 

Giudice chiedo il buon cantor, che destro 

Volse a pungere i rei 

Di Tullio i casi, ed or, novo maestro, 

A far migliori i tempi, 

Gli scherzi usa del Frigio e i proprj esempi; 
O te, Paola, che il retto 

E il bello atta a sentir formaro i numi: 

Te che il piacer concetto 

Mostri, dolce intendendo i duo bei lumi, 

Onde spira calore 

Soavemente periglioso al core. 



Fu scritta suUa fìne del 1783, e stampata nel fascicolo di luglio 
1786 delle Memorie per le belle arti, che uscivano in Roma. DaH'ul- 
tima strofa l'ode appar diretta alla marchesa Paola Castiglioni, fi- 
gliuola di Giulio Pompeo Litta Arese e di Elisabetta Borromeo 
Visconti, dal '69 (era nata nel '51) sposa al marchese Giuseppe Ca- 
stiglioni. Era sorella alla Maria Castelbarco, Vinclita Nice. A lei il 
Cerretti scriveva in una lettera: * L'unico Parini, quest'uomo im- 
mortale, avea per vezzo di ripetermi voi essere in Milano il solo 
giudice de' suoi versi ,. 



LA RECITA DEI VERSI. 47 

Il Fauno procace è Tabate Casti ; il • satiro procace e disonesto „, 
come lo disse nel famoso e terribile sonetto Un prete brutto vec- 
chio e puzzolente (Op., Ili, 57), 

Che scrive de racconti in cui si sente 

De l'infame Aretin tutto l'impasto, 

Ed un poema sporco e impertinente 

Contro la donna de l'impero vasto; 
Che se bene senz'ugola è rimaso 

Attorno va recitator molesto 

Oscenamente parlando col naso; 
Che da gli occhi, dal volto, e fin dal gesto 

Spira l'empia lussuria ond'egli è invaso. 



II buon cantor di Tullio è il Passerotti, che dal 79 aU"87 pubblicò 
pur sette volumi di favole esopiane. Dell'opera propria e di quella 
dell'amico brianzuolo così giudicava codesto candido e venerando 
valentuomo, scrivendogli: 

È debole il mio stil, volgare e piano; 

Il vostro è forte e pieno e nerboruto: 

S'io sono alfier, voi siete il capitano. 
È spuntato il mio stile, il vostro e acuto: 

Voi vi esprimete in modo spicciativo. 

Io la metto sovente in sul liuto. 
I vostri versi toccano sul vivo : 

Contro il vizio non fanno i miei gran colpo, 

£ curo i mali altrui col lenitivo. 



Nella III e nella IV strofa s'accenna alla guerra (1783-85) dell'im- 
peratore Giuseppe II contro gli Olandesi (i Baiavi)^ che volevano 
impedirgli la libera navigazione della Schelda (lat. Scaldis); all'in- 
venzione recente (1753) del parafulmine; e all'altra, che era sog- 
getto di tutti i discorsi del giorno, del pallone aerostatico. 

Il 10 dicembre del 1783 i signori Charles e Robert avevan com- 
piuta la prima ascensione con pallone gonfiato a idrogeno: e lo 
stupore aveva subito trovato espressioni poetiche più o meno effi- 
caci. * Chiunque s'avvisasse oggi di parlare nelle migliori società 
d'altre cose che di volanti palloni e di globi areostatici „, diceva 
in quel torno il Giornale Enciclopedico (t. V, p. 73), " sarebbe certa- 
mente trattato in uomo di provincia „. E dopo che il Parini ebbe 
scritta l'ode, il fanatismo per gli esperimenti aerostatici crebbe. 
(Cfr. E. Bertana, Intorno al sonetto del Parini per la macchina 
aerostatica, nel Giornale Storico d. leti, il., XXX, 414 ss.) Nel gennaio 
del 1794 lo studente di Pavia marchese Luigi Cagnola lanciò in 
aria una mongolfiera, a cui aveva legata una pecora; meglio an- 
cora, il 24 febbraio Paolo Andreani, primo aeronauta italiano, 
osava farsi elevar lui. Ci fu bisogno che intervenisse il Governo, 



48 ODI. 

con una grida, per porre un freno a tanta temerità. Intanto le 
canzoni, le odi, i sonetti fioccavano: quelle deliranti di entusia- 
smo, questi consigliando prudenza; le une plaudenti, gli altri 
molleggianti. Al coro il Parini, pensoso, non disdegnò d'unir la sua 
voce; e scrisse un sonetto, che non suona sfiducia, ma ha uno 
spunto quasi leopardiano (Op., II, 29). Parla il pallone: 

tcco, del mondo e meraviglia e gioco. 

Farmi grande in un punto e lieve io sento; 

E col fumo nel grembo e al piede il foco 

Salgo per l'aria e mi confido al vento. 
E mentre aprir novo cammino io tento 

A l'uom cui l'onda e cui la terra è poco, 

Fra i ciechi moti e l'ancor dubbio evento 

Alto gridando la Natura invoco: 
O madre de le cose! Arbitrio prenda 

L'uomo per me di questo aereo regno, 

Se ciò fia mai che più beato il renda; 
Ma se nocer poi dee, l'audace ingegno 

Perda l'opra e i consigli; e fa ch'io splenda 

Sol di stolta impotenza eterno segno. 



IL PERICOLO 

(Per Cecilia Tron). 



In vano in van la chioma 
Deforme di canizie, 
E l'anima già doma 
Da i casi, e fatto rigido 
Il senno da Tetà, 

Si crederà che scudo 
Sien contro ad occhi fulgidi, 
A mobil seno, a nudo 
Braccio e a Taltre terribili 
Arme de la beltà. 

Gode assalir nel porto 
La contumace Venere; 
E, rotto il fune e il torto 
Ferro, rapir nel pelago 
Invecchiato nocchier; 

E per novo peiiglio 
Di tempeste, a Tarbitrio 
Darlo del cieco figlio. 
Esultando con perfido 
Riso del suo poter. 

Ecco me di repente, 
Me stesso, per Tundecimo 
Lustro di già scendente, 
Sentii vicino a porgere 
Il pie servo ad Amor; 



50 ODI. 



Ben che gran tempo al saldo 
Animo in van tentassero 
Novello eccitar caldo 
Le lusinghiere giovani 
Di mia patria splendor. 

Tu da i lidi sonanti 
Mandasti, o torbid'Adria, 
Chi sola de gli amanti 
Potea tornarmi a i gemiti 
E al duro sospirar; 

Donna d'incliti pregi 
Là fra i togati principi 
Che di consigli egregi 
Fanno Talta Venezia 
Star libera sul mar. 

Parve a mirar nel volto 
E ne le membra Pallade, 
Quando, Telmo a sé tolto, 
Fin sopra il fianco scorrere 
Si lascia il lungo crin: 

Se non che a lei dintorno 
Le volubili Grazie 
Dannosamente adorno 
Rendeano a i guardi cupidi 
L'almo aspetto divin. 

Qual se, parlando, eguale 
A gigli e rose il cubito 
Molle posava? Quale 
Se improvviso la candida 
Mano porgea nel dir? 

E a le nevi del petto, 
Chinandosi, da i morbidi 
Veli non ben costretto, 
Fiero de l'alme incendio I, 
Permetteva fuggir? 

In tanto il vago labro, 
E di rara facondia 
E d'altre insidie fabro, 
Già modulando i lepidi 
Delti nel patrio suon. 



IL PERICOLO. 51 

Che più? Da la vivace 

Mente lampi scoppiavano 

Di poetica face, 

Che tali mai non arsero 

L'amica di Faon: 
Né quando al coro intento 

De le fanciulle Lesbie 

L'errante violento 

Per le midolle fervide 

Amoroso velen; 
Né quando lo interrotto 

Dal fuggitivo giovane 

Piacer cantava, sotto 

A la percossa cetera 

Palpitandole il sen. 
Ahimè, quale infelice 

Giogo era pronto a scendere 

Su la incauta cervice, 

S'io nel dolce pericolo 

Tornava il quarto di! 
Ma con veloci rote 

Me, quantunque mal docile, 

Ratto per le remote 

Campagne il mio buon Genio 

Opportuno rapi; 
Tal che in tristi catene 

A i garzoni ed al popolo 

Di giovanili pene 

Io canuto spettacolo 

Mostrato non sarò. 
Densi, nudrendo il mio 

Pensier di care immagini. 

Con soave desio 

Intorno a l'onde Adriache 

Frequente volerò. 



Fu composta, nota il Salveraglio e con luì tutti gli altri editori, 
neU'autunno del 1787; giacché il Gambarelli e il Reina Tattestano 
indirizzata a " Cecilia Tron veneziana, che, trovandosi in Milano 
nel 1787, voUe conoscere ed onorare l'autore con tratti di nobile 



52 ODI, 

cortesia „. Ma a me pare che questa data sia errata. Il poeta me- 
desimo ci dice d'aver vista la bella donna quando già egli scen- 
deva " per l'undecimo lustro „, un tre o quattro anni dopo il 1779 
cioè, ma prima che si compisse il 1784. (Anche il frammento Per 
nozze comincia; " Chi noi già per l'undecimo Lustro scendente con 
l'età fugace Chiama fra i lieti giovani A cantar d'Imeneo l'accesa 
face....? „). 

La Cecilia, figliuola di Renier Zen e sposa di Francesco Tron, 
era cognata della Caterina Dolfin, moglie in seconde nozze di 
Andrea Tron, che fu Procuratore di San Marco e cosi potente e 
benvoluto da esser comunemente chiamato el paron. Questa, che i 
contemporanei dicevano la veneta principessa, aveva molto più in- 
gegno e cultura della Cecilia; la quale però la vinceva e quasi la 
oscurava per la fiorente gioventù, la bellezza procace e l'audace fa- 
cilità di costumi. 

Il Parini era già in corrispondenza epistolare con la Caterina, e 
aveva contribuito, con Gaspare Gozzi e Melchiorre Cesarotti, alla 
raccolta poetica che essa aveva messa insieme in memoria del 
padre. Or nell'estate del 1783 appunto noi troviamo costei ospite 
gradita in casa Scrbelloni; e con lei sarà stata anche la Cecilia, s'è 
vero quel che il Salveraglio asserisce, esser le due cognate venute 
a Milano insieme. Supporre un nuovo viaggio della Caterina in 
Lombardia nel 1787 non par neanche verosìmile, chi consideri che 
il 25 giugno del 1785 essa, oramai sui cinquantanni, rimaneva ve- 
dova del Tron, che tanto fulgore di potenza avea riverberato su lei. 
Dopo r'85 perfino il pettegolezzo la risparmiò! E che la Cecilia vi 
tornasse da sola, non abbiamo nessun indizio per sospettarlo : chi 
l'ha ammesso, non s'è fondato che sulla presunta data dell'ode 
parìniana. 

Mette conto di riferir qui un brano d'una lettera che la Caterina 
scriveva il 2 luglio 1783, da Gorla, al marito: 

« Sono partita col mio Carli [reconomista], il duca Serbelloni e Gaetano, 
martedì mattina per Aprio [Vaprio], la di cui vista e situazione m'incantò. 
Trovai la signora Duchessa che m'attendeva: ell'c una vecchia piena di fuoco, 
che vive separata dai figli, ma strettamente legata d'animo col Duca suo pri- 
mogenito. Non posso dirvi quanto fui bene accolta: mi chiesero di voi; ri- 
sposi qual suggerimmi il mio grato cuore e la verità Si parlò della nostra 
Repubblica; risposi da repubblicana prudente, e cambiai discorso. Si entrò in 
letteratura, e, formandomi su quelle cose ch'io sapea e potei farmi onore, tra- 
scorsi con arte le altre, senza mostrar però d'ignorarle. Oh io sono una gran 
donna! Il Duci e la Du:hessina sua moglie vollero ad ogni patto persua- 
dermi ad andare a Gorgonzola, ch'c poche miglia di là distante; sicché il 
giovedì mattina salimmo il Bucintoro di Serbelloni, e sopra il Navilio pas- 
sammo lietamente a quella sua deliziosa villeggiatura, dove la ricchezza serve 
al profitto dei poveri, delle arti, delle scienze, ed alla maggior gloria di S. M. I. 
Il padrone di codesta casa è uno di quei pochi esseri che la natura produsse 
per mostrare di quanta virtù e capace di animare le opere sue: se voi aveste 
avuto figliuoli, quel solo meritava di esserlo! Il venerdì siamo andati a Cer- 
nusco, alla magnifica casa della contessa Maria [Castelbarco], ch'c tre miglia 



IL PERICOLO. 53 

vicino a Milano. Pensate pure che tutti mi tormentavano in mille n:odi perchè 
passassi a Milano; ma seppi esimermi senza urtare nessuno.... Il Vescovo si 
umilia ; e io mi esalto più ch'é possibile promenando la vostra grandezza per 
questi contorni ». (Cfr. E. Castelnl'ovo, Una dama veneziana dei secolo XVIII, 
nella Nuova Antologia del 15 giugno 1882). 

Quando nell'autunno del 1788 la Silvia Curtoni Verza venne a 
Milano, e in compagnia del Bertela si recò a visitare il Parini, 
questi, pregalo perchè leggesse qualcuno dei suoi ultimi componi- 
menti, recitò appunto codesta ode per la Tron e l'altra in morte 
del Sacchini. (Cfr. G. Biadego, Da libri e manoscritti; Verona, 1883, 
p. 109). . 

Per Cecilia Tron veneziana il Parini scrisse anche un sonetto 
(II, 35), in cui accenna a una visita da lei fattagli, e a una pro- 
messa forse di ritornare: 

Grato scarpel, su questo marmo incidi 

Il fausto di quando a' miei Lari apparse 

Colei che, diva de gli Adriaci lidi, 

Chiara fama di sé nel mondo sparse. 
Scrivi qual di virtù, di grazie io vidi, 

D'ingegno, di saper luce spiegarse; 

£ quanta in me di puri sensi e fidi 

Subita fiamma inestinguibil arse. 
Scrivi che se da gli occhi miei fu pronta 

Gli alti pregi a rapir, pur mi consola 

Dolce speranza che al partir mi diede. 
Ma se poi le promesse il vento invola 

D'Adria pel mar, taci i miei danni; e l'onta 

Non eternar de la mancata fede. 

E non so se proprio in questa occasione, ma certo in una molto 
simile (il Salveraglio, p. 232, asserisce che fosse per l'amoruccio 
con la figlia del coreografo Gasparo Angiolini), il poeta scrisse 
l'altro sonetto, Di sé stesso (Op., II, 28), che ha qualche affinità con 
la presente mirabile ode : 

duell'io che già con lungo amaro carme 

Amor derisi e il suo regno potente, 

E tutta osai chiamar l'Itala gente 

Col mio riso maligno ad ascoltarme, 
Or sento anch'io sotto a le indorait'arnie 

Tra la folla del popolo imminente 

Dietro a le rote del gran carro lente 

Da l'offeso tiranno strascinarme. 
Ognun per osservar l'infame multa 

Preme, urta, e grida al suo propinquo: È quei! 

E il beffator comun beffa ed insulta. 
Io scornato abbassando gli occhi rei 

Seguo il mio fato; e il fier nemico esulta. 

Imparate a deridere gli Dei ! 



LA CADUTA 

(Nell'inverno del 1785). 



Quando Orion dal cielo 

Declinando imperversa, 

E pioggia e nevi e gelo 

Sopra la terra ottenebrala versa, 
Me spinto ne la iniqua 

Stagione, infermo il piede, 

Tra il fango e tra l'obliqua 

Furia de' carri la città gir vede; 
E per avverso sasso 

Mal fra gli altri sorgente, 

O per lubrico passo, 

Lungo il cammino stramazzar sovente. 
Ride il fanciullo; e gli occhi 

Tosto gonfia commosso. 

Che il cubito o i ginocchi 

Me scorge o il mento dal cader percosso. 
Altri accorre; e: Oh infelice 

E di men crudo fato 

Degno vate! mi dice; 

E seguendo il parlar, cinge il mio lato 
Con la pietosa mano, 

E di terra mi toglie, 

E il cappel lordo e il vano 

Baston dispersi ne la via raccoglie: 



LA. CADUTA. 55 

Te ricca di comune 

Censo la patria loda; 

Te sublime, te immune 

Cigno da tempo che il tuo nome roda 
Chiama gridando intorno; 

E te molesta incita 

Di poner fine al Giorno^ 

Per cui cercato a lo stranier ti addita. 
Ed ecco il debil fianco 

Per anni e per natura 

Vai nel suolo pur anco 

Fra il danno strascinando e la paura; 
Né il si lodato verso 

Vile cocchio ti appresta, 

Che te salvi a traverso 

De' trivj dal furor de la tempesta. 
Sdegnosa anima! prendi, 

Prendi novo consiglio, 

Se il già canuto intendi 

Capo sottrarre a più fatai periglio. 
Congiunti tu non hai, 

Non amiche, non ville. 

Che te far possan mai 

Ne Turna del favor preporre a mille. 
Dunque per Terte scale 

Arrampica qual puoi; 

E fa gli atrj e le sale 

Ogni giorno ulular de* pianti tuoi. 
O non cessar di pòrte 

Fra lo stuol de' dienti. 

Abbracciando le porte 

De grimi che comandano ai potenti; 
E lor mercè penetra 

Ne' recessi de' grandi, 

E sopra la lor tetra 

Noia le facezie e le novelle spandi. 
O, se tu sai, più astuto 

I cupi sentier trova 

Colà dove nel muto 

Aere il destin de' popoli si cova ; 



56 ODI. 

E fingendo nova esca 

Al pubblico guadaigno, 

L'onda sommovi, e pesca 

Insidioso nel turbato stagno. 
Ma chi giammai potria 

Guarir tua mente illusa. 

trar per altra via 

Te ostinato amator de la tua Musa ? 
Lasciala: o, pari a vile 
Mima, il pudore insulti, 
Dilettando scurrile 

1 bassi genj dietro al fasto occulti. 
Mia bile al fin, costretta 

Già troppo, dal profondo 

Petto rompendo, getta 

Impetuosa gli argini; e rispondo: 
Chi sei tu, che sostenti 

A me questo vetusto 

Pondo, e Tanimo tenti 

Prostrarmi a terra? Umano sei, non giusto. 
Buon cittadino, al segno 

Dove natura e i primi 

Gasi ordinar, lo ingegno 

Guida cosi, che lui la patria estimi. 
Quando poi d'età carco 

Il bisogno lo stringe, 

Chiede opportuno e parco 

Con fronte liberal che Talma pinge; 
E se i duri mortali 

A lui voltano il tergo, 

Ei si fa, contro a i mali, 

De la costanza sua scudo ed usbergo. 
Né si abbassa per duolo. 

Né s'alza per orgoglio. 

E ciò dicendo, solo 

Lascio il mio appoggio; e bieco indi mi loglio. 
Cosi, grato a i soccorsi. 

Ho il consiglio a dispetto; 

E privo di rimorsi, 

Gol dubitante pie torno al mio tetto. 



LA CADUTA. 57 

Stampata subito a parte in Milano, fu ristampata a Roma nel 
fascicolo del gennaio 1786 delle Memorie per le belle arti, con una 
avvertenza, in cui si dice l'ode " scritta nell'occasione delle dirotte 
piogge che hanno più dell'usato reso incomodo il corrente in- 
verno „. Vi si soggiunge: " Vn nostro associato dì Lombardia che 
ce la manda non ne assegna l'autore; ma nel leggere l'ode mede- 
sima, quando vediamo che da lui s'aspetta che ponga fine al Giorno, 
riconosciamo il leggiadrissimo scrittore del Mattino ,. Non è indi- 
screto, né forse difficile, argomentare chi codesto associato fosse. 
Da una lettera del medico abate Martino Guidoni Bianconi, resi- 
dente in Roma, al duca Gian Galeazzo Serbelloni, già discepolo 
del Parini, scritta il 21 gennaio 1786, apprendiamo che codesto abate 
era stato pregato dal Duca di presentar l'ode pariniana alla mar- 
chesa Cioja, ammiratrice lontana, si capisce, del poeta lombardo. 
Or non potrebbe lo stesso abate averne procurata la ristampa? 
Nella lettera questi scriveva pure: l'ode " fa molto onore al suo 
autore. Ma non ha egli bisogno di questo. Il suo nome si è reso 
celebre per tutto il mondo culto per le belle produzioni del suo 
spirito. S'egli come il Metastasio avesse abbandonata la sua patria 
nell'età sua rìdente, non avrebbe avuto bisogno di vedersi negare 
per fin le miche di Milano ,. 

Il Reina, che per quindici anni usò " famigliarmente „ col poeta, 
racconta {Opere, I, xxv) : " Succeduto nell'austriaca eredità e nel- 
r imperio germanico Leopoldo II, recossi a Milano ; e si a^'\'enne 
in Parini. L'Imperadore osservò fisso questo sciancato, che maesto- 
samente zoppicava, e per maraviglia ne domandò ad uno del cor- 
teggio, che dissegli quello essere Parini. Stupì l'Imperadore che un 
uomo si celebre e venerando si strascinasse pedestre, e comandò 
che gli si desse stipendio maggiore. Gli fu allora, per la sollecitu- 
dine di Emanuele Kevenhùller, conferita la Prefettura degli studi 
di Brera con migliori condizioni ; e se non era un potentissimo 
nimico suo, lo stipendio gli si accresceva in guisa di ripararlo, 
giusta la mente dell' Imperadore, dalle ingiurie degli anni e della 
cagionevolezza ,. Non indaghiamo chi codesto zelante nemico sia 
stato. Nenio propheta in patria ; e non poclii concittadini avran 
forse trovata ridicola ed ambiziosa pretesa quella del povero vec- 
chio, d'aver per sé un " vile cocchio „ nei giorni di pioggia, se ancora 
nel 6 ottobre del 1792 un tal conte Pietro Secchi, consigliere al ri- 
poso, scriveva con pomposa e pettoruta arroganza, pari alla maligna 
abbiettezza, in una lettera : " Fra i nostri giacobini più arrabbiati 
contasi l'abate Parini ; ed è nel suo carattere, non avendo egli mai 
potuto perdonare all'attuale ordine di cose che vi siano delle car- 
rozze, e che egli non abbia ad averne una „. 

Il vero è che il Parini seppe maravigliosamente servirsi anche 
dei loro sublimi cocchi per rintuzzare fieramente l'orgoglio e il so- 
pruso dei nobili di sangue o dei nobilucci dai • compri onori „. 
Dormi tranquillo benché il sole sia alto, o giovin signore, egli dice, 
avendo tu protratta lungamente la notte tra le veglie, il teatro e il 
gioco (Mattino, v. 65 ss.). 



58 ODI. 

e stanco alfine, 
In aureo cocchio, col fragor di calde 
Precipitose rote, e il calpestio 
Di volanti corsier, lunge agitasti 
Il queto aere notturno, e le tenèbre 
Con fiaccole superbe intorno apristi; 
Siccome allor che il Siculo terreno 
Da l'uno a l'altro mar rimbombar feo 
Pluto col carro, a cui splendeano innanzi 
Le tede delle Furie anguicrinite. 

Codesto coccliio, e il resto, bada intanto a fornirtelo l'umile con- 
tadino laborioso, lieto di servirti (461 ss.): 

Nel dolce campo 
Pur in questo momento il buon cultore " 
Suda e incallisce al vomere la mano, 
Lieto che i suoi sudor ti frutiin poi 
Dorati cocchi e peregrine mense. 

Codesto mobile trono renderà poi più altere e sprezzanti * le ma- 
trone , della vostra casta (571 ss.), 

Che da' sublimi cocchi alto disdegnano 
Vol;^ere il guardo a la pedestre turba. 

E in esso tu, fortunato mortale, ti farai trascinare, volando, presso 
la " pudica altrui sposa a te si cara , ; e guai al volgo pedestre che 
s'attardi sul tuo cammino ! (929 ss). 

Odi, o signore, 

Sonar già intorno la ferrata zampa 

De' superbi corsier che irrequieti 

Ne' grand' atrj sospigne, arretra e volge 

La disciplina dell'ardito auriga. 

Sorgi, e t'appresta a render baldi e lieti 

Del tuo nobile incarco i bruti ancora. 



Ecco che umili in bipartita schiera 

T'accolgono i tuoi servi : altri già pronto 

Via se ne corre ad annunciare al mondo 

Che tu vieni a bearlo; altri a le braccia 

Timido ti sostien mentre il dorato 

Cocchio tu sali, e tacito e severo 

Sur un canto ti sdrai. Apriti, o vulgo, 

E cedi il passo al trono ove s'asside 

Il mio signore : ahi te meschin s'ei perde 

Un sol per te de' preziosi istanti ! 

Temi '1 non mai da legge o verga o fune 

Domabile cocchier, temi le rote 

Che già più volte le tue membra in giro 

Avvolser seco, e del tuo impuro sangue 

Corser macchiate, e il suol di lunga striscia, 

Spettacol miserabile! segnaro. 



LA CADUTA, 59 

Per ottenere così magnifici effetti è davvero degno che fin " la co- 
niun salute „ sì sagrifichl " al pasto D'ambiziose mute, Che poi 
con crudo fasto Calchi» per Tarnpie strade II popolo che cade „ ! 
{La salubrità dell'aria). 

Quanto alla infermità dei piedi, di cui spesso il poeta si lamenta 
anche altrove (0/j., II, 43 : "Se non mentisce del cantor l'aspetto 
E l'usurpata chioma e il debil piede , ; e cfr. La gratitudine, str. 8*, 
e II messaggio, 1*), il Reina narra (p. VII) : " Una strana debolezza 

di muscoli lo aveva renduto dalla nascita gracile e cagionevole 

A ventun anno soffrì egli una violenta stiracchiatura di muscoli, 
ed una maggiore debolezza; perlochè gambe, cosce e braccia co- 
minciarongli a mancar d'alimento, ad estenuarsi e a perdere la 
snellezza e la forza sì necessarie agli uffizi loro. Credevasi da prin- 
cipio che il suo andare lento e grave fosse una filosofica carica- 
tura; ma presto si conobbe proceder ciò da malattìa, la quale 
crebbe in guisa da togliergli il libero uso delle sue membra. Egli 
è però da avvertire, che tanta era in lui la dignità e maestria del 
portamento, del porgere, e dello stampar l'orma, che ogni gentile 
persona era obbligata alla maraviglia, veggendo il suo difetto „. 

Che le strade di Milano fossero, allora, male acciottolate, ci attesta 
anche il povero Passeroni, che lodava il suo Tullio (pt. II, XV, 76) 
perchè da lui, egli conta, 

furon così ben selciate 
Le strade e così comode rendute, 
Che a chi cadea faceansi le fischiate; 
Ma molto rare erano le cadute. 
Quest'uso dura ancor in questa etate, 
Sebben le vie non son si ben tenute; 
E cado anch'io talor sul seliciato, 
Onde ne porto il mento ancor segnato. 

Colui che, " dilettando scurrile i bassi genj „, insultava il i^ udore, 
è, pare, sempre l'abate Casti. Cfr. La recita dei versi. 

Al libraio Giuseppe Bernardoni che s'accingeva a ripubblicare 
il volume delle Odi, il Parini scriveva da Vavero l'il novembre 1795 
(Op , IV, 194-5) : " Quanto al resto dell'edizione, conoscendo io il ca- 
rattere e l'abilità di Lei, veggo che non posso essere in migliori 
mani. Solamente La priego che qualora Le paia di dovervi apporre 
qualche note, queste siano modestissime e semplicissime, senza 
rimprovero né diretto né indiretto di cosa o di persona veruna. 
Circa il verso Noia le facezie ecc.. Ella potrà dire che nelle altre 
edizioni dopo la prima di Milano vi si sono fatti de' cangiamenti 
per non essersi dagli editori avvertito alla pronunciazione toscana 
ed agli esempi de' buoni scrittori di versi nell'uso delle parole che 
hanno dittongo o trittongo, come accade della parola noia ecc. 
Ella potrà ciò dire e più brevemente e meglio che ora non ho 
fatto io; del che Le lascio ogni libertà ,. 



LA TEMPESTA 



Odi, Alcone, il muggito 

Ne rullo mar de la crudel tempesta, 

E la folgor funesta 

Glie con tuono infinito 

Scoppia da lungi e rimbombar fa il lito. 
Ahimè miseri legni 

Che cupidigia e ambiz'ion sospinse, 

E facil aura vinse 

Per li mobili regni 

Lor speme a sciorre oltre gli erculei segni ! 
Altro sperò giocondo 

Tornar da ignote preziose cave; 

E d'oro e gemme grave 

Opprimer col suo pondo 

De la spiaggia nativa il basso fondo. 
Credeva altro d'immani 

Mostri oleosi preda far ne Tallo; 

Altro feroce assalto 

Dare a gli abeti estrani, 

E de Taltrui tesoro empier suoi vani. 
Ma il tuono e il vento e Tonda 

Terribilmente agita tutti e balte; 

Né le vele contratte, 

Né da la doppia sponda 

Il forte remigar, Turto che abbonda 



LA TEMPESTA. 61' 

Vince né frena. E in tanto 

Serpendo incendioso il fulmin fischia : 

E fra Torribil mischia 

De' venti e il bujo manto 

Del cielo, ognun paventa essere infranto. 
E già più Tun non puote 

L'alto durar tormento: uno al destino 

Fa contrario cammino; 

Un contro a l'aspra cole 

Di cieco scoglio il fianco urta e percote: 
E quale il flutto avverso 

Beve già rotto; e qual del multiforme 

Monte de Tacque enorme 

Sopra di lui riverso 

Cede al gran peso ; e al fin piomba sommerso. 
Alcon, non ti rammenti 

Quel che superbo per ornata prora 

Veleggiava finora, 

Di purpurei lucenti 

Segni ingombrando gli alberi potenti? 
A quello d'ambo i lati 

Ignivome s*aprian di bronzo bocche; 

Onde pari a le ròcche 

Forza sprezzava e agguati 

D'abete o pin contro al suo corso armati. 
E l'onde allettatrici 

Stendeansi piane a lui davanti; e a i grembi 

Fregiati d'aurei lembi 

De' canapi felici 

Spira van ostinati i venti amici: 
Mentre Glauco e i Tritoni 

Pur con le braccia lo spingean più forte ; 

E da le conche torte 

Lusingavano i buoni 

Augurj intorno a lui con alti suoni. 
E lungo i pinti banchi 

Le dee del mar, sparse le chiome bionde, 

Garolavan per fonde, 

Che lucide su i bianchi 

D.orsi fuggian strisciando e sopra i fianchi. 



62 ODI, 

Fra tanto, senza alcuno 

Il bealo nocchier timor che il roda, 

Da Tallo de la proda 

Al mattin primo e al bruno 

Vespro cosi cantava inni a Nettuno: 
A le sia lode, o nume 

Di cui son l'opre ognor potenti e grandi, 

O se nel suol ti spandi 

Con le fuggenti spume, 

O di Cinzia t'innalzi al chiaro lume. 
Tu col tridente altero 

A tuo piacer la terra ampia dividi ; 

Tu fra gli opposti lidi 

Del duplice emispero 

Scorrevole a i mortali apri sentiero. 
Rota per te le nuove 

Con subitaneo pie veci Fortuna ; 

E quello che con una 

Occhiata il tutto move 

Non é di le maggior superno Giove. 
Tale adulava. Or mira 

Or mira, Alcon, come del porto in faccia 

Lungi dal porto il caccia 

Nettuno stesso; e a dira 

Sorte con gli altri lo trasporta e aggira! 
E la ricchezza imposta 

Indi con la tornante onda ritoglie; 

E le lacere spoglie 

Ne gitta, e la scomposta 

Mole a traverso de l'arida costa. 
Ahi qual furore il mena 

Pur contra noi d'ogni avarizia schivi, 

Che sotto a i sacri ulivi 

Radendo quest'arena 

Peschiam canuti con duo remi a pena ! 
Alcon, che più s'aspetta ? 

Ecco il turbine rio che ornai n'é sopra. 

Lascia che il fluito copra 

La sdrucita barchetta; 

E noi nudi salviamo! al sasso in vetta. 



LA TEMPESTA. 63 

O giovanetti, piante 

Ponete in terra; qui pomi inserite; 

Qui gli armenti nodrite 

Sotto a le leggi sante 

De la natura in suo voler costante. 
Qui semplici a regnare, 

Qui gli utili prendete a ordir consigli; 

Né fidate de' figli 

La sorte o de le care 

Spose a l'arbitrio del volubil mare. 



E, nflerma il Reina, un' ' allegoria risguardante i cangiamenti 
poliUci avvenuti in Lombardia sotto Giuseppe II „; • modeUata „, 
aveva già osservato l'abate Guidoni Bianconi in una lettera da 
Roma al duca G. G. Serbelloni del 10 marzo 1787, " sul gusto di 
Orazio, la di cui celebre ode O nauis referent in mare etc. ha de- 
stata la prima idea nel di lui emulatore Parini „. Pur di questo 
componimento oraziano il poeta tentò la traduzione della prima 
strofa {Op., Ili, 192 ; e cfr. VI, in fine) che suona cosi : 

Tu da novelle, o nave, onde frementi 
Risospinta nel mare ancor n'andrai. 
Oh misera! che fai ? 
Quanto puoi fortemente al porto attienti. 

L'ode fu scritta nell'autunno del 1786, quando più infieriva il 
turbine delle improvvise e spesso improvvisate riforme del gene- 
roso ma imprudente figliuolo di Maria Teresa. Questi sembra sia 
qui indicato col nome di superno Giove; e il fratello, Tarcìduca 
Ferdinando governatore della Lombardia, con l'altro di Nettuno. 

' Un torto gravissimo, che non si potè più riparare, ebbe Giu- 
seppe li a, osserva Emanuele Greppi {La dominazione austriaca, 
nel voi. Conferenze di storia milanese; Milano, Bocca, 1897, p. 492-3ì, 
â–  e basta anche da solo a cancellar la memoria dei suoi beneficii. 
Egli aveva ereditato dalla madre il più perfetto organismo ammi- 
nistrativo che forse mai ci sia stato in Europa, e questo organismo, 
di un colpo, a data fissa, egli stoltamente lo uccise. La data è pro- 
prio una data rivoluzionaria, un primo maggio, quello del 1786. 
Vi si fece, come Verri dice, tutta la rivoluzione del paese. Scom- 
parvero il Senato, il Magistrato Camerale, la Congregazione dello 
Stato, i Corpi Municipali, la stessa Provincia del Ducato colle altre 
dipendenti, sminuzzate in Circoli, senza alcun riguardo, e foggiali 
colle norme della Galizia e del Tirolo „. Un Segretario di Governo, 
il Bellati, scriveva in una lettera del 6 maggio (presso Greppi, p. 493 
e 496): • Siamo in un vero mondo nuovo Sembrami tornato il 



64 ODI. 

tempo in cui Maometto colla sciabola in mano era il più eloquente 
dottore del mondo. La più graziosa parola che sentesi è; giubila- 
zione ; e qualche volta si nomina anche Pizzighettone ! „ (Cfr. anche 
la Storia di Milano del conte P. Verri colla continuazione del ba- 
rone Custodi; Milano, 1850, v. Ili, p. 273 ss). 

Alcone par certo il Passeroni ; al quale una delle prime riforme 
giuseppine, quella che aboliva tutte le pensioni, toglieva ora le 
cinquecento lire milanesi annue che il conte di Firinian gli aveva 
fatto assegnare sulla Regia Camera, cui erano ricadute le sostanze 
dei marchesi Luci ni, antichi mecenati del povero abate. Ridotto 
sul lastrico, senz'altro provento che l'elemosina della messa, questo 
degno amico del Parini s'era ricoverato in una cameretta di legno 
" che par bene Di Diogene la botte „, dove veniva " sempre notte 
innanzi sera „ e dove, tremante dal freddo, al vecchio poeta toccava 
" e dir l'uffizio e apparecchiar da cena „. Unico camerata gli era un 
gallo, col quale egli si sfogava a parlar male del suo secolo; e 
spesso a tali colloqui prendeva parte anche il Parini : 

E il Parini, cui son note 
Del mio gallo le preclare 
Doti, s' io li fo stampare 
Vuole aggiungervi le note. 

{Favole, VI, 201 ; e cfr. Carducci, L'Accademia dei Trasformati e 
G. Parini, nella Nuova Antologia del !<> febbraio 1891, p. 618-50) 

Nel superbo adulatore, che ora Nettuno condanna a dira sorte in- 
sieme con gli altri, qualcuno volle ravvisare Gian Rinaldo Carli di 
Capodistria, che, già molto ascoltato a Vienna, aveva suggerito di 
stituire il Supremo Consiglio di Pubblica Economia, ed era poi 
stato eletto presidente del Magistrato Camerale. Fu travolto anche 
lui nella riforma economica, e licenziato con tenue pensione. Altri 
ha pensato a Pietro Verri : che aveva promossa ed ottenuta l'abo- 
lizione della Ferma generale con grande vantaggio del pubblico e 
dell'erario, e quindi tra lesecrazione degli appaltatori; che, pel 
suo carattere altezzoso, era malvisto e malgiudicato dal Baretti 
(cfr. Scritti scelti ined. o rari di G. B., v I, p. 110-13; v II, p. 59,208, 
293, 320...) e, in quegli anni, anche dal Parini (cfr. Gnoli, Studi let- 
terari, Bologna, 1883, p 285 ss.; e (i. A. Venturi, C. Beccaria e le 
lett. di P. e A. Verri, Ancona, 1882, p. 25 ss.); e che ora dal nuovo 
monarca era costretto ad abbandonare il posto di direttore del- 
l'amministrazione economica, quando mancavano solo pochi mesi 
a che si compisse quel numero d'anni di servizio occorrenti per 
ottenere la pensione intera. 

Narra l^ugenio Bouvy (Le comte Pietro Verri, ses idées et son temps; 
Paris, Ilachette, 1889, p. 157-8) : " Les intrigues, l'envie qui le pour- 
suivaient toujours, plus discrètement mais avec d'autant plus de 
perfidie, les accusations d'indépendance qu'on semait en cxploitant 
contro lui sa popularité, l'insinuation odicuse entre loutes que 
laliolilion de la Ferme obtenue par lui, on sait au prix de quelles 
tribulations, avait été accomplie d'une manière Irop peu avanta- 



LA TEMPESTA. 65 

geuse pour le Trésor, les bouleversements que Joseph II opcrait 
dans les institutions du pays, enfm la fatigue de vingt-cinq années 
d'activité fiévreuse, tonte consacrée au bien public, inspiraient 
depuis quelque temps i\ Verri le dégoùt de ses fonctions. Le Ma- 
gistrat camcral, dont il était prcsident, vint à partager le sort com- 
mun, et fut supprimé en 1786. Verri, redoutant une révocation, 
rósolut de la devancer. Il demanda et obtint sa mise à la retraìte. 
Il lui manquait quelques mois de service pour avoir droit à la 
pension règie men laire : la Conférence de gouvernement, qui avait 
cependant fait gràce de deux ans au conseiller Sclireck, ne crut 
pas devolr lui ctendre cette faveur. Elle lui alloua simplement 
une indeninité annuelle du tiers de son traitement, soit 6666 li- 
vres 66. Et Verri rentra dans la vie privée „. E il prof. Adeodato 
Ressi, commemorando, nell'orazione inaugurale tenuta nell'i r. Uni- 
versità di Pavia TU novembre 1818, il grande economista lombardo, 
usciva a dire : " e il Verri che illuslrò la patria con liberali studj, 
che salvò il popolo da' Fermieri, che affrontò gli abusi del pri- 
vato potere, che sanò le antiche piaghe dello Stato; il Verri cadde 
vittima dell'ingratitudine de' suoi, e colla nobile fermezza del suo 
animo chiese egli stesso di ritirarsi da ogni pubblico maneggio „. 
Pare che in quella stessa occasione il Parini componesse, con 
la medesima allegoria, questo sonetto (Op., III, 241) : 

Carca di merci preziose e rare, 

Coll'aure amiche intorno agile e presta 

Girsen vid'io senza curar tempesta 

Una nave superba in mezzo al mare. 
E per l'onde vicino al lito chiare, 

Col remo il qual di faticar non resta, 

Di due tavole a pena insiem contesta 

Un'umile barchetta i' vidi andare. 
Sorse vento improvviso, e l'una tosto 

A la ripa vicina in braccio corse, 

E '1 legno altier cadde tra l'onde assorto. 
Cosi '1 miser, diss'io, ch'ai basso è posto 

Presto si salva ; e chi più in alto sorse 

Miracol ò se può ritrarsi al porto. 



IN MORTE DI ANTONIO SACCfflNI 



Te con le rose ancora 

De la felice gioventù nel volto 

Vidi e conobbi, ahi tolto 

Si presto a noi da la fatai tua ora, 

O di suoni divini 

Pur dianzi egregio trovator Sacchini ! 
Maschia beltà fìoria 

Ne l'alte membra: da i vivaci lumi 

Splendido di costumi 

E di soavi affetti indizio uscia: 

Il labbro era potente 

De l'animo lusinga e de la mente. 
A l'armonico ingegno 

Quante volte fé' plauso, e, vinta poi 

Da gli altri pregi tuoi, 

Male al tenero cor pose ritegno 

Damigella immatura 

O matrona di sé troppo secura ! 
Ma perfido o fastoso 

Te giammai non chiamò tardi pentita: 

Né d'improvviso uscita 

Madre sgridò né furibondo sposo 

Te ingenuo e del procace 

Rito de' tuoi non facile seguace. 
Amò de' bei concenti 

Empier la tromba sua poscia la Fama; 



IN MORTE DI ANTONIO SACCHINI. 67 

Tal che d'emula brama 

Arser per le le più lodate genti 

Che Italia chiuda, o l'Alpe 

Da noi rimova, o pur l'Erculea Galpe. 
E spesso a breve oblio 

La da lui declinante in novo impero 

Il Britanno severo 

America lasciò; tanto il rapio, 

Non avveduto ai tristi 

Gasi, l'arguzia onde i tuoi modi ordisti. 
O, se la tua dal mare 

Arte poi venne a popol più faceto, 

Nel teatro inquieto 

Tacquer le ardenti musicali gare; 

E in te sol uno immoti 

Stetter de i cori e de l'orecchio i voti: 
Poi che da' tuoi pensieri 

Mirabile di suoni ordin si schiuse, 

Che per l'aria diffuse 

Non per anco al mortai noti piaceri; 

se tu amasti vanto 

Dare a i mobili plettri o pure al canto. 
Fra la scenica luce 
Ben più superbi strascinaron gli ostri 

1 preziosi mostri 

Che l'Italo crudele ancor produce; â–  

E le avare sirene 

Gravi a l'alme speràro impor catene; 
Quando su le sonore 

Labbra di lor tuo nobil estro scese, 

E novi accenti apprese 

De le regali vergini al dolore, 

O ne' tragici affanni 

Turbò di modulate ire i tiranni. 
Ma tu, del non virile 

Gregge sprezzando i folli orgogli e l'oro. 

Innalzasti il decoro 

De la bell'arte tua, spirto gentile, 

Di liberi diletti 

Sol avido bear gli umani petti. 



68 ODI. 

Né, se talor converse 

La non cieca fortuna a te il suo viso 

E con lieto sorriso 

Fulgido di tesoro il lembo aperse, 

Indivisi a gli amici 

I doni a te di lei parver felici. 
Ahi sperava a le belle 

Sue spiagge Italia rivederti al fine. 

Coronandoti il crine 

Le già cresciute a lei fresche donzelle, 

Use di te le lodi 

Ascoltar da le madri e i dolci modi ! 
Ed ecco l'atra mano 

Alzò colei cui nessun pregio move ; 

E te, cercante nuove 

Grazie lungo il sonoro ebano in vano, 

Percosse; e di famose 

Lagrime oggetto in su la Senna pose. 
Né gioconde pupille 

Di cara donna, né d'amici affetto, 

Che tante a te nel petto 

Valcan di senso ad eccitar faville, 

Più desteranno arguto 

Suono dal cener tuo per sempre muto. 

Fu composta ncU'ottohre 1786. 

Antonio Sacchini nacque in PozzuoU il 23 luglio 1734, due anni 
prima che vi morisse il Pcrgolesi, da poveri pescatori. Fu educato 
alla musica nel Conservatorio della Madonna di Loreto in Napoli. 
Tra il 1756 e il '62 compose pei teatri di questa città parecchie 
commedie musicali ; clie valsero a divulgare il nome del giovane 
maestro, così da farlo invitare, nel 1762, a scrivere pel teatro Ar- 
gentina di Roma un'opera seria, che fu la Semiramide. Si stabili a 
Ilo ma, donde tornò per poco a Napoli a mettere in iscena al San 
Carlo il Lucio Vero (1764) e il Creso (1765), andò a Firenze per 
VAmlromaca, venne a Padova (1763) e a Milano (1767) per YOlim- 
piade. Avendo fatto rappresentare a Venezia il suo Alessandro nelle 
Indie, fu nominato direttore del Conservatorio dell' Ospedaletto in 
quella città; e nel 1770 diede nel teatro di Padova, su poesia del 
Metastasìo, Scipione in Cariagena, ch'è reputato uno dei suoi capi- 
lavori. Verso la line del 1771 passò le Alpi, e pel teatro di Witten- 
bcrg scrisse l'opera Calliroe, e altre poco note per queUi di Stutt- 
gart e di Monaco ; traversò poi l'Olanda, e nell'aprile del 1772 
giunse a Londra. Quivi ridiede, con opportuni ritocchi, alcune delle 



IN MORTE DI ANTONIO SACCHINI. tfi) 

sue opere già prima composte, e ne compose parecchie di nuove. 
Nel 1782, i>er reiterati inviti dell'amico Framery, clie ve lo aveva 
fatto favorevolmente conoscere traducendo in francese la sua 
Isola d'amore (1775), si recò a Parigi. Quel pubblico era diviso tra 
i seguaci della maniera novatrice di Gluck e gli altri della tradi- 
zione italiana rappresentata dal Piccinni; e stentò a comprendere 
e gustare la musica del Sacchini. 11 quale però lo conquise con 
ì Edipo a Colono, rappresentato a Versailles il 4 gennaio 1786, che 
sembrò pareggiare l'insigne tragedia greca. Il 7 ottobre dello stesso 
anno, all'apice della gloria, l'ormai celebre maestro cessava di 
vivere. Sotto un busto, che fu collocato in suo onore nel Pan- 
theon di Parigi, l'abate Lanzi scrisse : Italia Germania Anglia Gallia 
praesentem admiratae sunt, niortuum lugent. (Cfr. Florimo, La scuola 
musicale di Napoli e i suoi conservatorii, II, pag. 358 ss.). Il Sacchini 
" appartiene alla scuola di Piccinni, ma le sue idee sono più gran- 
diose, e si osserva nelle sue composizioni un sentimento più con- 
forme alle tradizioni della tragedia greca. La melodia di Sacchini 
è nobile, spontanea, e toccante nelle scene patetiche, i suoi cori 
sono potentemente caratteristici, l'armonia purissima, e l'orchestra, 
trattata colla massima chiarezza, abbonda di effetti bellissimi e 
svariati, ottenuti coi mezzi più semplici. Egli senza scostarsi dalla 
severità della musica sacra, e non confondendola colla teatrale, 
seppe introdurre nelle sue composizioni da chiesa la spontaneità 
del canto, la naturalezza e la grazia dello stile. Le melodie religiose 
di Sacchini possiedono in sommo grado quel carattere sublime 
che dispone l'anima ad una dolce estasi, favorevole alla medita- 
zione ed alla preghiera. Niun compositore ha scritto più soave- 
mente di lui. Solo si può osservare che la condotta troppo uni- 
forme e regolare dei suoi pezzi dà alla sua musica una tinta un 
po' monotona „. (CmLESOTTi, / nostri maestri del passato; Milano, 
1882, p. 186). 

A ben intendere la strofa 6*, si ricordi che, quando il Parini 
scriveva quest'ode, gli Slati Uniti avevan già proclamata la loro 
indipendenza (4 luglio 1776), e col trattato di Versailles del 178,3 si 
era chiusa la prima loro guerra con la madre-patria. Riesce molto 
interessante leggere ciò che di quell'epica lotta pensava e scriveva 
il Baretti; e non solo perchè amico del Parini, ma anche perchè 
egli fu, tra gl'Italiani del suo tempo, dei più illuminali e indi- 
pendenti e dei meglio informati di quanto avveniva oltr'Alpi ed 
oltre mare. Cfr. Scritti scelti ecc., v. I, p. 363 ss., v. II, p. 280 ss. 

A proposito poi delle " sirene , che meglio, cantando le melodie 
del Saccliini, sperarono d'incatenare gli animi dei loro ammira- 
tori, mi par bene di riferire qui i due sonetti che il Parini dettò, 
nel 1759, " per Caterina Gabrielli cantatrice „ 11 primo è un " dia- 
logo fra il Poeta ed Amore „ (0/>., II, 7) : 

— Quando Costei su la volubil scena 
Di celeste bellezza apre i portenti, 
E il notturno spettacolo serena 
Co' raggi del bel volto, Amor, che tenti? 



70 ODI. 

— Entro per gli occhi a quel prodigio intenti, 

Scendo ne' cori e là calmo ogni pena, 
Desto teneri sensi, empio a le genti 
Di foco soavissimo ogni vena. 

— E mentre, simulando i prischi lai, 

Da i due coralli de la bella bocca 
Scioglie il canto amoroso, Amor, che fai? 

— Volo al bel labbro onde il piacer trabocca, 

E grido: oh in terra fortunato assai 

Chi si bel labbro ascolta o vede o tocca ! 

11 secondo è stato ripubblicato recentemente da A. G. Spinelli, in 
Alcuni fogli sparsi del P., Milano, Civelli, 1884: 

Allor che il cavo albergo è in sé ristretto, 

Onde in un tempo ha l'uom vita e parola. 

L'aere soavemente esce del petto, 

E al doppio career suo ratto s'invola. 
Per la tornita poi morbida gola 

Passa al liscio palato; e, vario aspetto 

Preso fra i denti e '1 labbro, alfin sen vola 

Dolce a recare altrui gioja e diletto^ 
Ma pria Costei con la mirabil arte 

E l'armonico genio il guida e frena 

Sotto a le leggi de le industri carte; 
E quindi avvien che da la flebil scena 

Fa altrui beato, e tal piacer comparte 

Che seco avvinti i cor tr.tggc in catena. 



LA MAGISTRATURA 

(Per Camillo Gritti podestà di Vicenza). 



Se robustezza ed oro 

Utili a far cammino il ciel mi desse, 

Vedriansi Torme impresse 

De le rote che lievi al par di Coro 

Me porterrebbon, senza 

Giammai posarsi, a la gentil Vicenza: 
Onde arguta mi viene 

E penetrante al cor voce di donna, 

Che, vaga e bella in gonna, 

De l'altro sesso anco le glorie ottiene, 

Fra le Muse immortali 

Con fortunato ardir spiegando l'ali. 
E da gli occhi di lei 

Oltre lo ingegno mio fatto possente, 

Rapido da la mente 

Accesa il desiato inno trarrei, 

Colui ponendo sogno 

Che de gli onori tuoi, Vicenza, è degno. 
Che dissi? Abbian vigore 

Di membra quei che morir denno ignoti; 

E sordidi nipoti 

Spargan d'avi lodati aureo splendore; 

Noi delicati, e nudi 

Di tesor, che nascemmo a i sacri studi. 
Noi, quale in un momento 

Da mosso speglio il suo chiaror traduce 



LA MAGISTRATURA. 73 

Ahi quale a me di bocca 

Fugge parlar che te nel cor percote, 

A cui già su le gote 

Con le lagrime sparso il duol trabocca, 

E par che solo un danno 

Cotanti beni tuoi volga in affanno! 
Lassa! davanti al tempio 

Che sul tuo colle tanti gradi sale • 

Supplicavi che uguale 

A un secol fosse, con novello esempio, 

Il quinquennio sperato 

Quando l'inclito Gritti a te fu dato. 
Ed ecco, a pena lieto 

Sopra Taureo sentier battea le penne, 

A fulminarlo venne, 

Repentino cadendo, alto decreto, 

Che, quasi al vento foglie. 

Ogni speranza tua dissipa e toglie. 
E qual da l'anelante 

Suo sen divelto innanzi tempo vede 

Lungi volgere il piede 

Nova tenera sposa il caro amante, 

Che tromba e gloria avita 

Per la patria salute altronde invita: 
Cosi l'eroe tu miri 

Da te partirsi; e di te stessa in bando. 

Vedova afflitta errando 

E di querele empiendo e di sospiri 

I fòri ed i teatri 

E le vie già si belle e i ponti e gli atri 
E i templi a le divine 

Cure sagrati, che di te si degni, 

De' tuoi famosi ingegni 

Ahimé! l'arte non pose a questo fine. 

Altro più ben non godi 

Che tra gli affanni tuoi cantar sue lodi. 
Non già per ch'ei non porse 

Le mani a Toro o a le lusinghe il petto; 

Né sopra l'equo e il retto 

Con l'arbitro voler giammai non sorse; 



74 ODI. • 

Né le fidate a lui 

Spada o lanci detorse in danno altrui. 
Vile de l'uomo è pregio 

Non esser reo. Costui da i chiari apprese 

Àtavi donde scese, 

D'alte glorie a infiammar l'animo egregio, 

E a gir dovunque in forme 

Più insigni de' miglior splendano l'orme. 
Chi si benigno e forte 

Di Tèmide impugnò l'util flagello? 

O chi pudor si bello 

Diede a l'augusta autorità consorte? 

O con si lene ciglio 

Fé' l'imperio di lei parer consiglio? 
Davanti a più maturo 

Giudizio le civili andar fortune, 

O starsene il comune 

Censo in maggior frugalità securo 

Quando giammai si vide 

Ovunque il giusto le sue norme incide? 
Ei, se il dover lo impose, 

Al veder linc(ì, al provveder fu pardo; 

Ei del popolo al guardo 

Gli arcani altrui, non sé medesmo ascose; 

Né occulto orecchio sciolse. 

Ma solenne tra i fasci il vero accolse. 
Ei gli audaci repressi 

Tenne con l'alma dignità del viso; 

Ei con dolce sorriso, 

Poi che del grado a sollevar gli oppressi 

Tulio il poter consunse, 

A la giustizia i beneficj aggiunse. 
E tal suo zelo sparse, 

Che grande a i grandi, al cittadino pari, 

Uom comune a i volgari, 

Rettor, giudice, padre a tutti apparse; 

Destando in tutti, estreme 

Cose, amicizia e riverenza insieme. 
Ben chiamarsi beata 

Può, fra povere balze e ghiacci e brume, 



LA MAGISTRATURA. 75 

Gente cui sia dal nume 

Simil virtude a preseder mandata. 

Or qual fu* tua ventura, 

Città, cui tanto il ciel ride e naturai 
Ma balsamo che tolto 

Vien di sotterra, e s'apre al chiaro giorno» 

Subitamente intorno 

Con eterea fragranza erra disciolto; 

Tal che il senso lo ammira, 

E ognun di possederne arde e sospira. 
Quale stupor, se brama 

Del nobil figlio al gran Senato nacque; 

E repente, fra Tacque 

Onde lungi provvede, a sé il richiama? 

Di tanto senno a i raggi 

Voti non sorser mai altro che saggi. 
Non vedi quanti aduna 

Ferri e fochi su Tonda e su la terra 

Vasto mostro di guerra, 

Che tre Imperi commette a la Fortuna; 

E con terribil faccia 

Anco Taltrui securità minaccia? 
Or convien che s'affretti, 

Cotanto a le superbe ire vicina, 

Del mar Talta regina 

Il suo fianco a munir d'uomini eletti, 

Ov'ardan le sublimi 

Anime di color che opposer primi 
Al rio furore esterno 

Il valor, la modestia ed i consigli; 

E da i miseri esigli 

Fecer T Adria innalzarsi a soglio eterno, 

E sonar con preclare 

Opre del nome lor la terra e il mare. 
Godi, Vicenza mia. 

Che il Gritti a fin si glorioso or vola; 

E il tuo dolor consola 

Mirando qual segnò splendida via 

Co' brevi esempj suoi 

A la virtù di chi verrà da poi. 



76 ODI. 

Fu scritta nel 1788, per invito di Elisabetta Caminer, veneziana 
(nata nel 1751), poetessa e giornalista, moglie del medico Antonio 
Turra di Vicenza. La quale, in occasione che Camillo dritti abban- 
donava la Rettoria della gentile città posta alle falde de' monti 
Bcrici, lodevolissiinamente da lui tenuta per sedici mesi (dal 18 
dicembre del 1786 al 17 aprile 1788), aveva invitali gli amici poeti 
a concorrere con lei a metter su un omaggio di rime. Raccolse 
venti componimenti, che fece subito stampare, insieme con due 
suoi idillii, nella sua propria tipografia, e pubblicare col titolo di 
Trionfo della verità. Oltre codesta del Parini, v'era un'ode frugo- 
niana del Coriiiani, e poi sonetti non meno frugoniani del Cesarotti, 
del Bertòla, del Lorenzi. 

Non sembra che il nostro poeta conoscesse di persona il magi- 
strato l)cnemerito; ma non perciò le sue lodi possono dirsi meno 
meritate. Un cronista di Vicenza ci attesta che il Gritti (nato nel 
1745) s'era fatto da tutti benvolere per la " rettitudine del cuore ,, 
per l'equità, per la " soavità dei costumi „, la grazia del porgere, 
la nobile amabilità del carattere, la beneficenza " ad ogni ordine 
di persone, e sopra tutto per quell'eroico disinteresse che lo trasse 
a rifiutare costantemente ogni dono ,. Il suo * reggimento fu senza 
esempio „, e l'acume dell'ingegno gli fece " scegliere una corte di 
giudici e di ministri tutti illibati e integerrimi „. Un panegirista 
lo encomia inoltre per la costruzione della strada che mena al 
Santuario del Rerico (il tempio che sul colle tanti gradi sale), e per 
l'attenta sua vigilanza, nella carestìa del 1787, sui mercati della 
provincia, a fin di scongiurare i danni del monopolio. Del resto, il suo 
governo non avea che avverate le speranze che il solo suo nome 
aveva destate : Andrea Gritti (il chiaro àtavo) era stato uno dei mi- 
gliori podestà di Vicenza, durante la guerra della Repubblica coi 
Visconti, nel 1439. Peccalo che un valentuomo di tanto merito ri- 
manesse a reggere la città pel minimo del tempo prescritto dalle 
leg^à ! I tre podestà che lo avevano preceduto eran durati in carica 
ciascuno un quin([uennio ; e i Vicentini avrebbero desiderato che 
l)er lo meno altrettanto (il quinquennio sperato) rimanesse tra 
loro anche il Grilli. Ma questi, appunto pei suoi eccezionali ta- 
lenti, fu richiamato dal gran Senato e promosso membro di quel- 
l'alto consesso. Si combatteva allora l'enorme guerra, che durò 
dal 1781 al '92, tra la Russia e l'Austria da una parte e la Turchia 
dall'altra (i tre Imperi). 

Quanto alle lodi che il Parini fa alla città, l'avesse o no egli vi- 
sitala o riferisse ciò che ne sentiva dire, basti ricordare che nel 
secolo scorso l'arte della lana e più ancora quella della seta vi 
avevan toccata la perfezione; che vicentino fu Andrea Palladio, 
rarcliilelto del Palazzo del Capitano, del Teatro Olimpico, della 
Rasilica, dei palazzi Chieregati, Porto-Barbarano, Valmarano; e che 
le salubri acque, onde il Cielo le fé' dono, posson esser quelle di 
Uecoaro. Inoltre, " l'opinione comune degli eruditi vicentini rite- 
neva, al tempo del Parini, che Vicenza si reggesse in princijìio con 

leggi sue proprie ; che i Romani vi avessero rispettato in sulle 

prime non solo gli ordinamenti particolari, ma non gli avessero 



LA MAGISTRATURA. ié 

distrutti neppure quando la lex iulia miiniclpaìis venne a sovrap- 
porvisi „ ; e che sino i barbari, e poi Ezelino, i Carraresi, gli Scaligeri, 
i Visconti di Milano (i posteri tiranni) ne rispettassero gli statuti. 
Alla morte dì Giangaleazzo Visconti, per non correre il pericolo 
di cader nelle mani de' Carraresi, i Vicentini chiesero la protezione 
di Venezia (il Lione altero) ; e misero nei patti della spontanea de- 
dizione, che cominciò il 28 aprile del 1404, che la giustizia fosse 
continuata ad amministrarsi " secondo le leggi, i diritti e la forma 
degli statuti e degli ordinamenti della città di Vicenza, non ostante 
alcuni decreti in contrario delle Signorie precedenti „. La Repub- 
blica mandava al governo della città due patrizi veneziani, il Po- 
destà (custode) e il Capitano (vindice), che n'eran detti Rettori: la 
legge vicentina esigeva " che i Rettori venissero sempre dal di 
fuori, né potessero condur moglie o posseder beni nella città di 
cui amministravano la pubblica cosa „. Cosi, col frequente variare 
dei magistrati, la Signoria veneta provvedeva a impedire la rilas- 
satezza nell'esecuzione delle leggi {fresco valor ). 

Per l'illustrazione di quest'ode mi son molto giovato della Me- 
moria di Bernardo Morsolin, La Magistratura di G. P., negli Atti 
del r. Lslituto Veneto, t. 11, s. VI, 1883-1884, p. 850 ss. 



IL DONO 

(Alla marchesa Paola Castiglioni). 



Queste che il fero Allobrogo 
Note piene d'affanni 
Incise col terribile 
Odiator de' tiranni 
Pugnale, onde Melpomene 
Lui fra gl'itali spirti unico armò; 

Come oh come a quest'animo 
Giungon soavi e belle 
Or che la stessa Grazia 
A me di sua man dielle, 
Dal labbro sorridendomi 
E da le luci onde cotanto può ! 

Me per 1' urto e per l' impeto 
De gli affetti tremendi. 
Me per lo cieco avvolgere 
De' casi, e per gli orrendi 
De i gran re precipizi! 
Ove il coturno camminando va, 

Segue tua dolce immagine, 
Amabil donatrice, 
G^ata spirando ambrosia 
Su la strada infelice, 
E in sen nova eccitandomi 
Mista al terrore acuta voluttà: 



• IL DONO. 

O sia che a me la fervida 

Mente ti mostri, quando 

In divin modi e in vario 

Sermon, dissimulando, 

Versi d'ingegno copia 

E saper che lo ingegno almo nodri; 
O sia quando spontaneo 

Lepor tu mesci a i detti, 

E di gentile aculeo 

Altrui pungi e diletti 

Mal cauto da le insidie 

Che de' tuoi vezzi la natura ordi. 
Caro dolore, e specie 

Gradevol di spavento 

È mirar fìnto in tavola 

E squallido e di lento 

Sangue rigato il giovane 

Che dal crudo cinghiale ucciso fu; 
Ma sovra lui se pendere 

La madre de gli Amori, 

Gingendol con le rosee 

Braccia, si vede, i cori 

Oh quanto allor si sentono 

Da giocondo tumulto agitar più ! - 
Certo maggior, ma simile 

Fra le torbide scene 

Senso in me desta il fingermi 

Tue sembianze serene, 

E a l'atre idee contessere 

I bei pregi onde sol sei pari a te. 
Ben porteranno invidia 

A' miei novi piaceri 

Quant'altri a scorrer prendano 

I volumi severi. 

Che far, se amico genio 

Si amabil donatrice a lor non die ? 



Fu composta nel 1790, e dedicata a quella medesima marchesa 
Paola Castiglioni cui il poeta avea diretta La recita dei versi. " K 
fama tra noi „ narra non so quanto attendibilmente il Bernar- 



80 ODI. . 

(Ioni, " che l'Alfieri mandasse al Parini un esemplare delle sue 
tragedie, stampale in Parigi, chiamandolo Primo pittar del signoril 
costume, e che glielo facesse presentare dalla marchesa Paola Ca- 
stiglioni, alla quale il Parini scrisse poi la sua bella ode, allusiva 
appunto al ricevuto presente „. 11 Reina annota semplicemente: 
" A Paola Castiglioni pel regalo da lei fatto a Parini delle Tragedie 
di Alfieri „. Ad ogni modo, un più diretto ringraziamento del dono 
alfieriano potrebbe considerarsi il sonetto * A Vittorio Alfieri il 
tragico „ (Op., II, 32), che suona cosi : 

Tanta già di coturni, altero ingegno, 

Sovra l'italo Pindo orma tu stampi, 

Che andrai, se te non vince o lode o sdegno, 

Lungi de l'arte a spaziar fra i campi. 
Come dal cupo ove gli affetti han regno 

Trai del vero e del grande accedi lampi; 

E le poste a' tuoi colpi anime segno 

Picn d' inusato ardir scuoti ed avvampi! 
Per che de l'estro a i generosi passi 

Fan ceppo i carmi? e dove il pensier tuona 

Non risponde la voce amica e franca? 
Osa, contendi; e di tua man vedrassi 

Cinger l'Italia omai quella corona 

Che al suo crin glorioso unica manca. 

Nella Vita scritta da sé stesso, l'Alfieri narra (ep. IV, e. 10): " A 
Milano.... mi trattenni ancora quasi tutto luglio [1783]; e ci vidi 
assai spesso l'originalissimo autore del Mattino, vero precursore 
della futura Satira italiana. Da questo celebre e colto scrittore pro- 
curai d'indagare, con la massima docilità e con sincerissima voglia 
d'imparare, dove consistesse principalmente il difetto del mio stile 
in tragedia. Il Parini, con amorevolezza e bontà, mi avverti di 
varie cose, non molto a dir vero importanti, e clie tutte insieme 
non potevano mai costituire la parola Stile, ma alcune delle me- 
nome parli di esso. Ma le più od il tutto di queste parli che do- 
veano costituire il vero difettoso nello stile, e che io allora non 
sapeva ancor ben discernere da me stesso, non mi fu mai saputo 
o voluto additare, nò dal Parini né dal Cesarotti ne da altri va- 
lenti uomini ch'io col fervore e l'umiltà d'un novìzio visitai ed 
interrogai in quel viaggio per la Lombardia „. 

K opportuno ricordare che le Tragedie alfìeriane, dopo un primo 
e non riuscito tentativo di edizione che se ne fece a Siena nel 1783, 
furono stampate a Parigi in sei volumi dal 1787 al 1789, e poi su- 
bito, nel 1790, ristampate a Nizza. 

Circa al fero AUol>rogo, è stato avvertito che gli Allobrogi tenevan 
veramente quel paese che ora è Savoia, mentre l'Alfieri era di Asti ; 
ma non pare si sia badato che pur l'Astigiano ama chiamarsi tale, 
nella Vita (ep. III, e. 1), dove narra: " E mi ricordo tra l'altre che 
nella Biblioteca Ambrosiana, datomi in mano dal bibliotecario non 
so più quale manoscritto autografo del Petrarca, da vero barbaro 



IL DONO. 81 

Allobrogo lo buttai là, dicendo che non me n'importava nulla,,. 
Chi però pensi che la Vita fu pubblicata postuma, nel 1804, e che 
il Parini quindi non poteva aver imparato da essa quel nome, 
troverà più verosimile che l'Astigiano, in ispecie trattando della 
sua dimora milanese, si compiacesse di riconoscere in sé quella 
fiera origine, che l'illustre poeta, non senza efficacia, gli aveva at- 
tribuita. Anche quella maniera d'atteggiar la frase, da vero barbaro 
Allobrogo, sembra confermare la nostra supposizione. E mi par 
poi da metter fuori dubbio che V Allobrogo feroce del Leopardi non 
sia che un'eco del fiero Allobrogo pariniano. 

Alla marchesa Paola Castiglioni, ch'era in campagna a fare i 
bagni, s'è da prestar fede al Cantù {L'abate Parini ecc., Milano, 1892, 
p. 426), fu indirizzato dal Parini anche questo sonetto : 

Le fresche ombre tranquille, i colli ameni, 

E queste di vigore aure feconde 

Che tu respiri, e queste tiepid'onde 

Ove le belle membra ignuda tieni, 
Si, domeranno alfin gli aspri veneni. 

Donna gentil, che il tuo petto nasconde, 

E a te l'alma salute, ore gioconde 

Guidando, tornerà co' pie' sereni. 
La patria e il mpndo allor di grato core 

Porrà al genio del loco un'ara in segno, 

E queste note incideravvi Amore: 
Salva. colei, che di virtù, d'ingegno. 

Di grazia, di modestia ottiene onore 

Sopra quant'altre ha di bellez-?a il regno. 



LA GRATITUDINE 

(Per il cardinale Angelo Maria Durini). 



Parco di versi tessitor ben fia 

Che me l'Italia chiami ; 

Ma non sarà che infamai 

Taccia d'ingrato la memoria mia. 

Vieni, o cetra, al mio seno; 

E canto illustre al buon Durini sciogli, 

Cui di fortuna dispettosi orgogli 

Duro non stringon freno ; 

Si che il corso non volga ovunque ei sente 

Non ignobil favilla arder di mente. 
Me pur da l'ombra de' volgari ingegni 

Tolse nel suo pensiero; 

E con benigno impero 

Collocò repugnante in fra i più degni. 

Me fatto idolo a lui 

Guatò la Invidia con turbate ciglia ; 

Mentre in tanto splendor gran meraviglia 

A me medesmo io fui ; 

E sdegnoso pudore il cor mi punse. 

Che a l'alta cortesia stimoli aggiunse. 
Solenne offrir d'ambiziose cene, 

Onde frequente schiera 

Sazia si parta e altera, 

Non è il favor di che a bearmi ei viene. 

Mortale, a cui la sorte 



LA GRATITUDINE. 83 

Cieco diede versar d'enormi censi, 

Sol di tai fasti celebrar sé pensi 

E la turba consorte. 

Chi sovra Talta mente il cor sublima 

Meglio sé stesso e i sacri ingegni estima. 
Cetra, il dirai ; poi che a mostrarsi grato, 

Fuor che fidar ne Tali 

De la fama immortali, 

Non altro mezzo a l'impotente é dato. 

Quei che al fianco de' regi 

Tanto sparse di luce e tanto accolse, 

Fin che le chiome de la benda involse 

Premio di fatti egregi, 

A me, che Torma umil tra il popol segno, 

Scender da l'alto suo non ebbe a sdegno. 
E spesso i Lari miei, novo stupore ! 

Vider l'ostro romano 

Riverberar nel vano 

De l'angusta parete almo fulgore ; 

E di quell'ostro avvolti 

Vider natia bontà, clemente affetto, 

Ingenui sensi nel vivace aspetto 

Alteramente scolti; 

E quanti alma gentil modi ha più rari, 

Onde fortuna ad esser grande impari. 
Qual nel mio petto ancor siede costante 

Di quel di rimembranza. 

Quando in povera stanza 

L'alta forma di lui m'apparve innante ! 

Sirio feroce ardea; 
. Ed io, fra l'acque in rustic'urna immerso, 

E a le Nàjadi belle umil converso, 

Oro non già chiedea 

Che a me portasser da l'alpestre vena. 

Ma te, cara salute, al fin serena. 
Ed ecco, i passi a quello dio conforme 

Cui fìnse antico grido 

Versogli materno lido 

Dal Xanto ritornar con 3plendid'orme, 

Ei venne; e al capo mio 



84 ODI. 

Vicin si assise; e da gli ardenti lumi 
E da i novi spargendo atti e costumi 
Sovra i miei mali oblio, 
A me di me tali degnò dir cose, 
Che tenerle fìa meglio al vulgo ascose. 
Io del rapido tempo in vece a scorno 
Custodirò il momento 
Gh'ei con nobil portento 
Ruppe lo stuol che a lui venia d'intorno, 
E solo accorse, e ratto 
Me, nel sublime impaziente cocchio 
Per la negata ohimè forza al ginocchio 
Male ad ascender atto, 
Con la man sopportò, lucidi dardi 
Di sacre gemme sparpagliante a i guardi. 
Come la Grecia un di gl'incliti figli 
Di Tindaro credette 
Agili su le vette 

De le navi apparir pronti a i perigli, 
E, di felice raggio 

Sfavillando il bel crin biondo e le vesti, 
Curvare i rosei dorsi, e le celesti 
Porger braccia, coraggio 
Dando fra Talte minaccianti spume 
Al trepido nocchier caro al lor nume- 
Tale in sembianti ci parve oltra il mortale 
Uso benigni allora ; 
Onde quell'atto ancora 
Di giocondo tumulto il cor m'assale : 
Chò la man ch'io mirai 
Dianzi guidar l'amata genitrice, 
Ahi prima del morir tolta infelice 
Del sole a i vaghi rai, 
E tolta dal veder per lei dal cigho 
Sparger lagrime illustri il caro figlio; 
Quella man che gran tempo a lato a i troni 
Onde frenato è il mondo 
Di consiglio profondo 
Carte seppe notar propizie a i buoni ; 
Quella che, mentre ei presse 



LA GRATITUDINE. 85 

De le chiare Provincie i sommi seggi, 

Grate al popol donò salubri leggi ; 

Quella il mio fianco resse, 

Insigne aprendo a la fastosa etade 

Spettacol di modestia e di pietade. 
Uomo, a cui la natura e il ciel diffuse 

Voglie nel cor benigne, 

Qualor desio lo spigne 

L'arti a seguir de le innocenti Muse, 

Il germe in lui nativo 

Con lo aggiunto vigor molce ed affina: 

Pari a nobile fior, cui cittadina 

Mano in tiepido clivo 

Educa e nutre, e da più ricche foglie 

Gara copia d'odori a l'aria scioglie. 
Gostui, se poi d'intorno a sé conteste 

D'onori e di fortuna 

Fulgide pompe aduna. 

Pregiate allor che a la virtù son veste, 

Gostui de' proprj tetti 

Suo ritroso favor già non circonda; 

Ma con pubblica luce esce e ridonda 

Sopra gì' ingegni eletti, 

Destando ardor per le lodevol'opre 

Ghe le genti e l'età di gloria copre. 
Non va la mente mia lungi smarrita 

Go' versi lusinghieri ; 

Ma per varj sentieri 

De l'inclito Durin l'indole addita. 

E come falco ordisce 

Larghi giri nel ciel, vòlto a la preda; 

Tal, ben che vagabondo altri lo creda. 

Me il mio canto rapisce 

A dir com'egli a me davanti egregio 

Uditor tacque, ed al Liceo die pregio, 
Quando da l'alto, disprezzando i rudi 

Tempi a cui tutto è vile 

Fuor che lucro servile. 

Solo de* grandi entrar fu visto, e i nudi 

Scanni repente cinse 



81) ODI. 

De' lucidi spiegali ostri sedendo; 

E al giovane drappel, che a lui sorgendo 

Di bel pudor si tinse, 

Lene compagno ad ammirar sé diede, 

E grande a i detti miei acquistò fede. 
Onde osai seguitar del miserando 

Di Làbdaco nipote 

Le terribili note 

E il duro fato e i casi atroci e il bando : 

Quale a TÀttiche genti 

Già il finse di colui l'altero carme 

Che la patria onorò trattando Tarme 

E le tibie piagnenti, 

E de le regie dal destin converse 

Sorti e de 1 arte inclito esempio offerse. 
Simuli quei che più sé stesso ammira 

Fuggir l'aura odorosa 

Che da i labbri di rosa 

La bellissima Lode ai petti inspira; 

Lode figlia del cielo. 

Che, mentre a la virtù terge i sudori 

E soave origlier spande d'allori 

A la fatica e al zelo, 

Nuove in alma gentil forze compone; 

E gran premio de l'opre al meglio è sprone. 
Io non per certo i sensi miei scortese 

Di stoico superbo 

Manto celati serbo. 

Se propizia giammai voce a me scese. 

Né asconderò che grata 

Ei da le labbra melodia mi porse. 

Quando facil per me grazia gli scorse 

Da me non lusingata ; 

Poi che tropp'alto al cor vóto s'imprime 

D'uom che ingegno e virtudi alzan sublime. 
Pur, se lice che intero il ver si scopra, 

Dirò che più mi piacque 

Allor che di me tacque, 

E del prisco cantor fé' plauso a l'opra. 

Sorser le giovanili 



LA GRATITUDINE. 87 

Menti da tanta autorità commosse: 

Subita fiamma inusitata scosse 

Gli spiriti gentili, 

Che con novo stupor dietro a gl'inviti 

De la greca beltà corser rapiti. 
Onde come il cultor che sopra il grembo 

De' lavorati campi 

Mira con fausti lampi 

Stendersi repentino estivo nembo, 

E tremolar per molta 

Pioggia con fresco mormorio le frondi, 

E di novi al suo pie verdi giocondi 

Rider la biada folta; 

Tal io fui lieto, e nel pensier descrissi 

Belle speranze a la mia Insubria, e dissi : 
Vedrò vedrò da le mal nate fonti 

Che di zolfo e d'impura 

Fiamma e di nebbia oscura 

ScQndon l'Italia ad infettar da i monti; 

Vedrò la gioventude 

I labbri torcer disdegnosi è schivi, 
E a i limpidi tornar di Grecia rivi. 
Onde natura schiude 

Almo sapor, che a so contrario il folle 
Secol non gusta e pur con laudi estolle. 
Questi è il Genio de Farti. Il chiaro foco. 
Onde tutt'arde e splende, 
Irrequieto ei stende 
Simile a l'alto sol di loco in loco. 

II Campidoglio e Roma 

Lui ancor biondo il crine ammirar vide 
I supremi del bello esempj e guide 
Che lunga età non doma ; 
E il concetto fervore e i novi auspici 
Largo versar di Pallade a gli amici. 
Né già, ben che per rapida le penne 
Strada d'onor levasse. 
Da sé rimote o basse 
Le prime cure onde fu vago ei tenne : 
O se con detti armati 



D'integra fede e cor di zelo accenso 
Osò l'ardua tentar fra nuvol denso 
Mente de i re scettrati ; 
O se nel popol poi con miti e pure 
Man le date spiegò verghe e la scure. 
Però che dove o fra le reggie eccelse 
Loco a l'arti divine 
O in umili officine 

in case ignote la fortuna scelse, 
Ivi amabil decoro 

E saggia meraviglia al merto desta 

Venne guidando, e largita modesta, 

E de le Grazie il coro 

Co' festevoli applausi ora discinti 

Or de' bei nodi de le Muse avvinti. 
Anzi, come d'Alcide e di Teseo 

Suona che da le vive 

Genti a le inferne rive 

L'ardente cortesia scender poteo : 

Ed ei cosi la notte 

Ruppe dove l'oblio profondo giace; 

E al lieto de la fama aere vivace 

Tornò le menti dotte; 

E l'opre lor, dopo molt'anni e lustri, 

Di sue vigilie a lo splendor fé' illustri. 
Tal che onorato ancor sul mobil etra 

Va del suo nome il suono 

Dove il chiaro Polono 

De l'arbitro vicino al frcn s'arretra ; 

Dove il regal Parigi 

Novi a sé fati oggi prepara; e dove 

L'ombra pur anco del gran Tosco move, 

Che gli antiqui vestigi 

Del saper discoperse, e feo la chiusa 

Valle sonar di cosi nobil musa. 
È ver che, quali entro al lor fondo avito 

1 Fabrizj e i Gammilli 
Tornar godean tranquilli 

Pronti sempre del Tebro al sacro invito, 
Tal di sé solo ei pago 



LA GRATITUDINE. 89 

Lungi da Taura popolar s'invola; 
E mentre il ciel più gloriosa stola 
Forse d'ordirgli è vago, 
Tra le ville natali e Taere puro 
Da i flutti or sta d'ambizìon securo. 
Ma i cari studj a lui compagni annosi, 
E a i popoli ed a Farti 

I beneficj sparti 

Son del suo corso splendidi riposi. 
Vedi ampliarsi alterno 
Di moli aspetto ed orti ed agri ameni, 
Onde quei chetai suo merto accesser beni 
E il tesoro paterno 

Versa; e dovunque divertir gli piaccia, 
L'ozio da i campi e l'atra inopia caccia. 
Vedi i portici e gli atrj ov'ei conduce 

II fervido pensiere, 
E le di libri altere 

Pareti, che del vero apron la luce : 

eh' ei di sé maestro 

Ne l'alto de le cose ami recesso 

Gir meditando, o il plettro a lui concesso 

Tentar con facil estro; 

E in carmi, onde la bella alma si spande, 

Soavi a l'amistà tesser ghirlande. 
Ed ecco il tempio ove, negati altronde, 

Qual da novo Elicona 

Premj a l'ingegno ei dona, 

E fiamme acri d'onore altrui diffonde. 

Ecco ne' segni sculti 

Quei che del nome lor la patria ornaro. 

Onde sol generoso erge a l'avaro 

Oblio nobili insulti ; 

E quelle glorie a la città rivela 

Ch'ella a sé stessa ingiuriosa cela. 
Dove, o cetra ? Non più. Rari i discreti 

Sono; e la turba è densa 

Che già derider pensa 

1 facili del labbro a uscir segreti. 
Di lui questa a l'orecchio 



iX) ODI. 

Parte de' sensi miei salgane occulta, 
Si che del cor, che al benefìcio esulta, 
Troppo limpido specchio 
Non sia che fiato invidioso appanni, 
Che me di vanti e lui d'error condanni. 
Lungi, o profani! Io d'importuna lode 
Vile mai non apersi 
Cambio; né in blandi versi 
Al giudizio volgar so tesser frode, 
(irò né gemme vani 

Sono al mio canto: e dove splenda il nierto, 
Là di flore iminortal ponendo serto 
Vo con libere mani ; 
Né me stesso né altrui allor lusingo 
Che poetica luce al vero io cingo. 



" Fu scrina „, annota il Reina (II, 182), " nel 1790, quando la Po- 
lonia e la F'rancia erano agitate dalle politiche novità „ (cfr. " il 
chiaro Polono al fren s'arretra „, " il regal Parigi novi a sé fati oggi 
prepara „) ; e fu stampata a parte, avverte il Salveraglio, nell'aprile 
del 1791. 

Il Diirini fu, dice il Reina (II, 169), " più amico della Filosofìa e 
delle Belle Arti che dell'ostro romano „. Fece i primi studi a Mi- 
lano, poi andò a Roma a imparar teologia e diritto canonico. 
Ancor giovane, accompagnò lo zio C.arlo Durini, arcivescovo di 
Anuisia, vescovo di Pavia e iioi cardinale, che andava Nunzio apo- 
stolico a Parigi. Tornato a Roma, fu di 11 a poco nominato Refe- 
rendario di amho le Signature; poi, nel 1759, inviato quale Inqui- 
sitore pontifìcio a Malta. Nel 1767 andò Nunzio in Polonia (non 
ancora, nel '90, questa nobile ma infelice terra aveva perduto l'ul- 
timo resto di libertà, che le fu poi tolto nel '91 dalla Russia, Yar- 
bitro vicino); e nella dieta ove si agitò la controversia tra i catto- 
lici e i dissidenti, egli sostenne una piarle considerevole ed ardita. 
Nel 1774, Clemente XIV lo mandò primo Presidente ad Avignone 
(" dove i^ur anco move „ l'ombra del Petrarca); e anche qui egli 
" si segnalò per zelo, attività e giustizia, non che per la pubblica- 
zione ed illustrazione di parecchie opere di buoni scrittori „. Nel 
1776 fu creato cardinale da Pio VI. Ma queRanno stesso ei volle 
allontanarsi " dagli intrighi della Corte Romana „, e venne a viver 
privatamente " in Lombardia, coltivando le Lettere ed i Letterati, 
fra gli ameni piaceri deUa villa fino all'ultima vecchiaia ,. Qui egli 
profuse le sue non poche ricchezze nell'adornare la deliziosa ed 
avita villa di Mirabello presso Monza (" arricchita „ dice il Bra- 
mieri, " d'ogni fregio più splendido, e resa un vero Parnaso „), nel 



LA GRATITUDINE. 91 

costruirvi di contro l'altra di Mirabellino (dove, in una galleria, 
" tra i busti e i ritratti de' valentuomini, onde in ogni età fu pro- 
duttrice Milano, collocato avea pur quello del Parini „ : una specie 
di " tempio , dell'arte, ove erano " ne' segni scultl quei che del nome 
lor la patria ornaro ,), nell'acquistar quella di Balbiano, di fronte 
all'isoletta Comacina sul Lario, e nell' innalzarvi poco lontano, a 
ridosso della scogliera di quel piccolo promontorio, l'altra di Bal- 
bianello. Passando lietamente la vita ora nella sontuosa casa di 
Milano, ora in qualcuna di queste ville, ei v'invitava quanto la 
città offriva di meglio in fatto di cultura; e tra gli amici poeti, 
poetava anche lui. Una volta, essendo a Varsavia e ad Avignone, 
egli s'era occupato di studi dotti, richiamando alla fama le opere 
di Simonide, e alcuni libri di Raimondo Cunich e di Sigismondo 
Boldoni; ora meglio si dilettava di cantar epitalamii agli amici, come 
a Febo d'Adda : 

Belli iunitillus Gallici, et impia 

Return insecuius funera, Amor, tuum 
lam dulce certamen, iam amicos 
Dico iuos, Hymenaec, tiéxus; 

o di piangerne in versi latini la perdita, come fece pel Balestrieri ; 
o magari di tradurre in epigrammi i due sonetti del Parini pel 
busto di Maria Beatrice: " Virtutum Parinianarum perpetuus ad- 
mirator „, si firmava scrivendogli. Morì di ottant'anni, nella villa 
di Balbiano, " senectutis nostrae nidulo „, com'egli la chiamava, il 
5 aprile 1796. 

Accompagnandogli i suoi versi in morte del comune amico Do- 
menico Balestrieri, Pietro Verri scriveva al Cardinale : " Onorando 
i distintissimi pregi dell'ingegno, riserbo la mia venerazione per 
qualche cosa di più grande e di più sacro, cioè per la beneficenza, 
per la magnanimità e per gli sentimenti nobili del cuore; e questo 
puro omaggio lo presento all'Eminentissimo principe che abbracciò 
e sollevò il Balestrieri povero, vecchio, infermo e circondato da 
guai, a lui che forse colle consolazioni prolungò gl'innocenti suoi 
giorni, a lui che tanto onorevolmente e sensibilmente ne illustra 
la tomba, e che per fine, abbandonando questa volta il nobile si- 
stema abbracciato per sé medesimo, si presenta a impetrare in 
favore della vedova le sovrane beneficenze ,. 

Sono anche da riferire, a illustrazione dell'ode pariniana, i di- 
stici del Durini Ad Maiies Balestrerà, de Parini versibus. Si ricordi 
che il Balestrieri aveva tradotta in meneghino la Gerusalemme Li- 
berala. 

Balestrere, tibi vatum chorus orniti s adempio 

Dal serta aottiis humida de lacrimis. 
Hetruscis superas et quamvis serta camcenis, 

Aeternum insubrica vivis et in Sohme ; 
Non inorala lumen pietas tibi nostra futura est, 

Debent se merilis carmina nostra tuis. 
Farinus nostri lux prima et fama lycei, 

Notus et eois notus et hesperiis, 



92 ODI, 

Non imilabilihus plorai tua futura chordis, 

Jamque tuos cineres et pius ossa legit: 
Ne tantum pius ossa legit, funebria sacrai 

Carmina et aeternis busta notanda modis. 
Non alio velles laudari dignius ore. 

Non posses alio dignius ore cani. 

" Nella frase aeternis busta notanda modis non è da intendere „, 
osserva il Carducci (L'Accademia dei Trasformati e G. P., nella 
lY.^ Antologia del 1® maggio 1891, p. 11), ' che il Parini facesse dal 
suo il sepolcro, che né il Parini potea, credo, spendere tanto e si 
sa che lo fece il Durini, ma si può arguirne, parnii, che il Parini 
componesse l'iscrizione apposta al sepolcro „. Dell'ode, pur dal 
Cardinale annunziata e lodata, non abbiamo se non un frammento, 
che diamo a suo luogo. 

11 liramieri dice qua e là: " Che magia di stile non vi bisogna 
a render poetico il racconto di visite ricevute, ora in casa pro- 
pria, mentr'era nel bagno, ora alla scuola, mentre spiegava V Edipo 
di Sofocle ai discepoli, e del sostegno prestatogli a salire in car- 
rozza?... Qual arte di presentare colla massima nobiltà le idee più 
comuni!... E nel Parini non si può mai ammirare abbastanza la 
nobiltà di cui sa circondare anche gli oggetti che ne sembrano 
meno capaci. Che vi par egli di que' banchi della scuola e di que' 
ragazzi che s'alzano in piede, e arrossiscono alla presenza del Car- 
dinale ed alla modestia con cui loro si agguaglia?... Chi ebbe la 
ventura di ascoltar Parini ragionante dalla cattedra, parti dolce- 
mente inebbriato e sorpreso ad un tempo dalla copia, finezza e 
profondità delle sue cognizioni, dalla perspicuità del suo metodo 
nell'insegnare, dallo spirito insinuante con cui trasfondeva negli 
uditori il proprio gusto cotanto dilicato e sicuro „. (Della vita e 
degli scritti di G. P. milanese, lettere di due amici; Milano, 1802). 

Nel vedere il nobile Cardinale accorrer tra lo stuolo dei fami- 
liari per sorreggere, a lui popolano e semplice prete, l'infermo 
fianco, il Parini teneramente ricorda d'aver visto quel magnanimo 
cosi sorreggere la madre, divenuta cieca negli ultimi anni. 

Al Durini è anche dedicato un frammento di ode (Op., 11, 252-4): 
O gl'Insubri e l'Italia. 



IL MESSAGGIO 

(Per l'inclita Nice). 



Quando novelle a chiedere 

Manda Tinclita Nice 

Del pie che me costringere 

Suole al letto infelice, 

Sento repente l'intimo 

Petto agitarsi del bel nome al suon. 
Rapido il sangue fluttua 

Ne le mie vene: invade 

Acre calor le trepide 

Fibre: m'arrosso: cade 

La voce; ed al rispondere 

Util pensiero in van cerco e sermon. 
Ride, cred'io, partendosi 

Il messo. E allor soletto, 

Tutta vegg'io, con Tanimo 

Pien di novo diletto. 

Tutta di lei la immagine 

Dentro a la calda fantasia venir. 
Ed ecco ed ecco sorgere 

Le delicate forme 

Sovra il bel fianco; e mobili 

Scender con lucid'orme 

Che mal può la dovizia 

De Tondeggiante al pie veste coprir. 



94 ODr. 

Ecco spiegarsi e romero 

E le braccia orgogliose, 

Cui di rugiada nudrono 

Freschi. ligustri e rose, 

E il bruno sottilissimo 

Crine che sovra lor volando va: 
E quasi molle cumulo 

Crescer di neve alpina 

La man che ne le floride 

Dita lieve declina, 

Cara de' baci invidia 

Che riverenza contener poi sa. 
Ben può ben può sollecito 

D'almo pudor costume 

Che vano ama de l'avide 

Luci render l'acume 

Altre involar delizie, 

Immenso intorno a lor volgendo vel: 
Ma non celar la grazia 

Né il vezzo che circonda 

Il volto affatto simile 

A quel de la gioconda 

Ebe, che nobil premio 

Al magnanimo Alcide è data in ciel; 
Né il guardo che dissimula 

Quanto in altrui prevale, 

E vòlto poi con subito 

Impeto i cori assale, 

Qual Parto sagittario 

Che più certi fuggendo i colpi ottien; 
Né i labbri or dolce tumidi 

Or dolce in sé ristretti, 

A cui gelosi temono 

Gli Amori pargoletti 

Non omai tutto a suggere 

Doni Venere madre il suo bel sen; 
I labbri onde il sorridere 

Gratissimo balena, 

Onde l'eletto e nitido 

Parlar che l'alme affrena 



IL MESSAGGIO. 95 

Cade, come di limpide 

Acque lungo il pendio lene rumor; 
Seco portando e i fulgidi 

Sensi ora lieti or gravi, 

E i gemali studii, 

E i costumi soavi, 

Onde salir può nobile 

Chi ben d'ampia fortuna usa il favor. 
Ahi, la vivace immagine 

Tanto pareggia il vero, 

Che, del pie leso immemore, 

L'opra del mio pensiero 

Seguir già tento; e l'aria 

Con la delusa man cercando vo. 
Sciocco vulgo, a che mormori, 

A che su per le infeste 

Dita ridendo noveri 

Quante volte il celeste 

A visitare ariete 

Dopo il natal mio di Febo tornò? 
A me disse il mio Genio 

Allor ch'io nacqui: L'oro 

Non fia che te solleciti, 

Né l'inane decoro 

De' titoli, né il perfido 

Desio di superare altri in poter; 
Ma di natura i liberi 

Doni ed affetti, e il grato 

De la beltà spettacolo 

Te renderan beato. 

Te di vagare indocile 

Per lungo di speranze arduo senlier. 
Inclita Nice, il secolo 

Che di te s'orna e splende 

Arde già gli assi; l'ultimo 

Lustro già tocca, e scende 

Ad incontrar le tenebre, 

Onde una volta pargoletto usci. 
E già vicino ai limiti 

Del tempo i piedi e l'ali 



90 



Provan tra lor le vergini 

Ore, che a noi mortali 

Già di guidar sospirano 

Del secol che matura il primo di. 
Ei te vedrà nel nascere 

Fresca e leggiadra ancora 

Pur di recenti grazie 

Gareggiar con l'aurora; 

E di mirarti cupido, 

De' tuoi begli anni farà lento il voi. 
Ma io, forse già polvere 

Che senso altro non serba 

Fuor che di te, giacendomi 

Fra le pie zolle e l'erba. 

Attenderò chi dicami 

Vale, passando, e ti sia lieve il suol! 
Deh alcun, che te ne l'aureo 

Cocchio trascorrer veggia 

Su la via clic fra gli alberi 

Suburbana verdeggia, 

Faccia a me intorno l'aere 

Modulato del tuo nome volar! 
Colpito allor da brivido 

Religioso il core. 

Fermerà il passo; e attonito 

Udrà del tuo cantore 

Le commosse reliquie 

Sotto la terra arfjfute sibilar. 



Fu composta nei primi mesi del 1793. In una leUera al Ber- 
nardoni, degli 11 novembre 1795, il Parini (Op., IV, 194-5) scriveva: 
" Ilo Ietta la Canzone all'Inclita Nice; e riio trovata ottimamente 
corretta, salvo che nel verso Vale passando ecc., dove invece di 
Iene vorrebbe scriversi lieve „. E più giù ingiungeva: " La Canzone 
aU Inclita Nice non amo che abbia nota veruna indicante la per- 
sona a cui è supposta diretta „. 11 Reina invece annotò brusca- 
mente (li, 186): " per Flnclita Nice, ossia Maria di Castelbarco „. 
Ma la indiscrezione era già stata commessa dal primo editore del- 
l'ode, che nel 1795 la pubblicò a Venezia nel tomo III dellM/i/io 
poetieo, con l'intestazione: Alla signora contessa Castelbarco. 

Costei, bellissima, era per più ragioni cara al poeta. Figliuola del 



IL MESSAGGIO. 97 

marchese Giulio Pompeo Litta Visconti Arese e di Elisabetta Bor- 
romeo Visconti (era nata il 21 ottobre del 1761), e sorella della 
marchesa Paola Castiglioni, aveva di sedici anni (l** maggio 1777) 
sposata Carlo Ercole, l'ultimo dei figliuoli che il conte Cesare Ca- 
slelbarco ebbe dalla cugina Francesca Simonetta ardentemente 
amata dal Parini. La primogenita del conte Castelbarco e della 
Simonetta, Teresa, era poi maritata a Galeazzo Serbelloni, il di- 
scepolo del Parini. (Cfr. A. Bertoldi, Dell'ode per l'inclita Nice, 
nella Nuova Antologia del 1® luglio 1889). 

Con quest'ode, veramente elegantissima, il Parini volle ringra- 
ziare l'adorabile contessina Maria, ch'era allora sui trentadue anni, 
della " premura datasi „ di mandargli " ambasciate nell'antece- 
dente inverno „ (cosi una postilla manoscritta, edita dal Salverà - 
glio). E a lei pure egli diresse, nel medesimo anno '93, il seguente 
sonetto, rimandandole una seconda copia delle " sue . Odi stam- 
pate dal Bodoni „, dacché una prima era andata smarrita (Op , 11,43): 
glìel'aveva portata via il fratello, ammiraglio Litta. 

Rapi de* versi miei picciol libretto 

Amor, non sazio mai di furti e prede; 

E me schernendo, a seguitarlo inetto, 

Fuggissi a volo, e a Citerea lo diede. 
E disse: O madre, a te sia il dono accetto, 

Ben che non molta in questi carmi ho fede. 

Se non mentisce del cantor l'aspetto 

E l'usurpata chioma e il debil piede. 
E tu ben sai che la tua bella face 

Tardo inspirò di poesia furore 

Di Teo soltanto al vecchiarel vivace. 
Rise la Dea; di vago almo colore 

Si tinse, e replicò: Tutto a me piace 

Quel che mi vien da le tue mani, Amore, 

La bella contessa morì sedici anni dopo del poeta, nel 1815. 

Tutti sanno che Nice era dei nomignoli più adoperati nella poesia 
galante del secolo scorso : basterebbe ricordare la canzonetta del 
Metastasio Grazie agl'inganni tuoi Alfin respiro o Nice. Anche il 
Parini ne fece molto uso, specialmente negli epigrammi, spesso 
un po' troppo liberi, pei parafuochi, le vèntole e i ventagli {Op., Ili, 
8-9, 10, 11, 12, 17); e d'una Nice cantò le nozze in un leggiadris- 
simo sonetto in endecasillabi catulliani (II, 23), ch'io non mi so 
trattenere dal riferire, anche perchè nulla vieta, ch'io sappia, che 
qui la sposa sia proprio la contessina CastelbarcQ. 

O bella Venere, per cui s'accende 

La vergin timida al primo invito 

D'Amore, e il giovane caldo ed ardito 

A la dolcissima palma contende, 
Questa a te candida zona sospende 

Nice or che al talamo vien del marito 

Male opponendcsi, e sul fiorito 

Letto con trepido ginocchio ascende. 



98 ODI. 

Tu in cambio donale l'amabil cinto, 

Caro !l' bei giovani e a le donzelle, 

Onde il tuo morbido fianco è distinto. 
In esso e i fervidi baci e le belle 

Carezze e i teneri susurri e il vinto 

Pudor di querule spose novelle. 

Inclito poi era degli aggettivi più cari al nostro poeta. Basterà 
ricordare gVincliti pregi dell'ode // Pericolo, e Vinclito Gritti della 
Magistratura, e gVincliti figli di Tindaro e l' inclito Durin e Vinclito 
esempio della Gratitudine, e Vinclit'aluo del Vespro, v. 308, ecc. ecc. 

Nella quinta delle sue Lezioni di eloquenza, il Foscolo riferiva 
(Opere, Le Monnier, H, 163-4): " La prima volta ch'io vidi il Parini, 
e a me allora, come dice Antìloco presso Omero, allora a me la 
Parca II decimo ed ottavo anno filava, intesi da quel poeta già vec- 
chio recitare un'ode ch'egli avea composta di fresco, ed è la bel- 
lissima forse tra tutte le altre sue; e v'erano in essa queste due 
strofe : 

A me disse il mio Genio.... 
Ma di natura i liberi ... 

E mentr'io stavami intento all'artificio mirabile di questi versi, e 
alla novità sopra tutto dell'ultimo verso [Per lungo di speranze 
arduo sentier], ed ardiva lodarli, O giovinetto, mi disse, prima di 
lodare all'ingegno del poeta, bada ad imitar sempre l'animo suo in 
ciò che ti desta virtuosi e liberi sensi, ed a fuggirlo ov'ei ti con- 
duca al vizio e alla servitù. Lo stile di questa mia poesia è frutto 
dello studio dell'arte mia; ma della sentenza che racchiude devo 
confessarmi grato all'amore solo con cui ho coltivati gli studi, perchè 
amandoli fortemente e drizzandovi tutte le potenze dell'anima, 
ho potuto serbariHÌ illibato ed indipendente in mezzo ai vizi e alla 
tirannide dei mortali. — Ed un'altra volta richiedendolo io in che 
consistesse la indipendenza dello scrittore, risposemi: A me par 
d'essere liberissimo, perchè non sono né avido, né ambizioso. „ 



SUL VESTIRE ALLA GHIGLIOTTINA 

(A Silvia). 



Per che al bel petto e a Tomero 
Con sùbita vicenda, 
Per che, mia Silvia ingenua, 
Togli rindica benda 

Che intorno al petto e a l'omero, 
Anzi a la gola e al mento, 
Sorgea pur or, qual tumida 
Vela nel mare al vento? 

Forse spirar di zefiro 
Senti la tiepid'òra ? 
Ma nel giocondo ariete 
Non venne il sole ancora. 

Ecco di neve insolita 
Bianco l'ispido verno 
Par che, sebben decrepito. 
Voglia serbarsi eterno. 

M'inganno? o il docil animo 
Già de' femminei riti 
Cede al potente imperio, 
E l'altre belle imiti? 

Qual nome o il caso o il genio 
Al novo culto impose. 
Che si dannosa copia 
Svela di gigli e rose? 



100 ODI. 



Che fìa? Tu arrossi? E dubia, 
Gol guardo al suol dimesso, 
Non so qual detto mormori 
Mal da le labbra espresso? 

Parla. Ma intesi. Oh barbaro! 
Oh nato da le dure 
Selci chiunque togliere 
Da scelerata scure 

Osò quel nome, infamia 
Del secolo spietato; 
E die funesti augurii 
Al femminile ornato ; 

E con le truci Eumcnidi 
Le care Grazie avvinse; 
E di crudele immagine 
La tua bellezza tinse ! 

Lascia, mia Silvia ingenua, 
Lascia cotanto orrore 
A Taltre belle, stupide 
E di mente e di core. 

Ahi! da lontana origine, 
Ghe occultamente nóce, 
Anco la molle giovane 
Può divenir feroce. 

Sai de le donne esimie 
Onde si chiara ottenne 
Gloria l'antico Tevere, 
Silvia, sai tu che avvenne, 

Poi che la spola e il Frigio 
Ago e gli studj cari 
Mal si recàro a tedio 
E i pudibondi Lari, 

E con baldanza improvvida, 
Gontro a gli esempj primi, 
Ad ammirar convennero 
I saltatori e i mimi? 

Pria tolleraron facili 
I nomi di Tereo 
E de la maga Golchica 
E del nefario Atreo; 



SUL VESTIRE ALLA GHIGLIOTTINA. 101 

Ambito poi spettacolo 

A i loro immoti cigli 

Fur ne le orrende favole 

I trucidati figli; 
Quindi, perversa l'indole 

E fatto il cor più fiero, 

Dal fìnto duol, già sazie, 

Gorser sfrenate al vero ; 
E là dove di Libia 

Le belve in guerra oscena 

Empiean d'urla e di fremito 

E di sangue l'arena. 
Potè a l'alte patrizie, 

Come a la plebe oscura, 

Giocoso dar solletico 

La soffrente natura. 
Che più? Baccanti, e cupide 

D'abbominando aspetto. 

Sol da l'uman pericolo 

Acuto ebber diletto: 
E da i gradi e da i circoli 

Co' moti e con le voci. 

Di già maschili, applausero 

A i duellanti atroci; 
Creando a sé delizia 

E de le membra sparte 

E de gli estremi aneliti 

E del morir con arte. 
Copri, mia Silvia ingenua, 

Copri le luci, et odi 

Come tutti passarono 

Licenziose i modi. 
Il gladiator, terribile 

Nel guardo e nel sembiante. 

Spesso fra i chiusi talami 

Fu ricercato amante. 
Cosi, poi che da gli animi 

Ogni pudor disciolse. 

Vigor da la libidine 

La crudeltà raccolse. 



102 ODI. 



Indi a i veleni taciti 
Si preparò la mano: 
Indi le madri ardirono 
Di concepire in vano. 

Tal da lene principio 
In fatali rovine 
Cadde il valor, la gloria 
De le donne latine. 

Fuggi, mia Silvia ingenua, 
Quel nome e quelle forme 
Che petulante indizio 
Son di misfatto enorme. 

Non obliar le origini 
De la licenza antica. 
Pensaci; e serba il titolo 
D'umana e di pudica. 



" Fu scriUa neU* inverno 1795 „, annota U Reina; e, se una volta 
tanto deve credersi anche al Cantù {L'ab. Parini, p. 100 n.), " fu det- 
tata quasi improvviso da poeta che le altre stillava tanto a lungo ». 
L'ode divenne presto popolare a Milano. " Parecchi „ , racconta il 
Bernardoni, " si diedero subito a trasportare quest'ode nel dialetto 
milanese. Carlo Porta die aveva cominciato a preludere alla poe- 
tica carriera che percorse in sèguito tanto luminosamente...., col- 
pito dalle inarrivabili bellezze di queU'ode, la stava traducendo 
egli pure in ottonarli, e già dalle strofe ch'egli mi aveva mostrate, 
e che la facevano giungere poco meno che alla metà, poteva giu- 
dicarsi bellissimo lavoro; quando si vide comparire stampata, e 
distribuirsi in gran copia di esemplari, e leggersi pubblicamente, 
quella di Francesco Bellati, col titolo : Ode a Silvia molto bella d'on 
autor de conclusion ecc., ch'era stata ordinata dall'Arciduca Ferdi- 
nando d'Austria, allora Governatore di queste provincie, con l'idea 
di rendere intelligibili anche alle basse classi della popolazione 
i sublimi concelli pariniani. E il Porta lacerò tutto quello ch'egli 
avea fatto, e non ne rimase più alcuna traccia ,. 11 Salveraglio 
(p. 2G5 ss.) ripubblica altresì, di su un manoscritto deU' Ambrosiana, 
una risposta della Silvia al Parinì, in dialetto e in ottava rima. 
S'intitola: La donzella della sura Siluia che porta la resposta al- 
l'Autor della canzon sora el vestii alla guillottina, 1795, Milan, con 
so permess cani. 

Il bel componimento del già celebre abate corse tosto mano- 
scritto anche fuori della Lombardia, e a Venezia fu stampato nel- 
l'Anzio poetico, e a llonia il giornale // Chracas del 18 luglio an- 
nunziava : " è comparsa al pubblico una vivacissima anacreontica 



SUL VESTIRE ALLA GHIGLIOTTINA. 103 

del signor ab. Giuseppe Parini, ove si biasima la moda francese 
della Guigliottina, e si bella composizione vien celebrata per la 
sceltezza delle parole, per l'altezza dello stile e per la nobiltà dei 
concetti ,. A Roma stessa ne venne fuori una versione in distici 
latini. 

All'ode diede occasione il fatto che in quel torno le dame mila- 
nesi avevano adottata la foggia di vestire che a Parigi chiamavano 
à la victime; la quale, dice il Quicherat {Histoire dii costume en 
France, Paris, 1875, p. 634), " eut le sens d'une manifestation poli- 
tique » e consisteva in " une faveur rouge tournée autour du cou, 
conduite sous le bras et croisée par derrière, raraenée sur la inol- 
trine pour y former un noeud „. A Milano codesta acconciatura fu 
detta alla ghigliottina; e la ragione del nuovo nome sarebbe stata 
questa, secondo il contemporaneo conte Giovan Luca Somaglia, 
che il 10 aprile 1795 s'affrettava a mandare al suo amico abate Gio- 
vanni Maggi, a Piacenza, la " bellissima „ nuova " poesia del celebre 
abate Parini „ : 



« Comparve una delle nostre più belle donne ad un pranzo del General Stain 
[il conte Carlo Leopoldo Stein, comandante generale di S. M. Imperiale in 
Italia] vestita in modo che resta /ano scoperte le punte de' suoi omeri, ed i 
capelli di dietro erano annodati sì alto che il collo si vedea tornito da tutte 
le parti. Il Generale al primo incontro le disse: Madame, il paroit que votis 
soye{ habilìée à la ouilloiine. La riflessione fece ridere la brigata. Ma l'abito 
della bella donna piacque tanto alle iiltre, che subito vollero imitarla, e per 
dare un nome alla cosa lo chiamarono Alla ^uillotìne ». (Cfr. I. tella Gio- 
vanna, L'ode sul vestire alla iihigliottlna, nella Cultura del 28 febbraio 1891, 
pag. 163). 



La nuova moda, scollacciata, succedeva, come suole, a un'altra 
eccessivamente accollata, che con un " immenso velo „ cercava di 
nascondere il petto, il collo e il viso (cfr. l'ode // Messaggio). 

Contro la smania delle nostre dame d'imitar le mode di Francia, 
il poeta aveva giti composto due anni prima, durante il Terrore, 
un graziosissimo sonetto in vernacolo. " Si voleva distruggere la 
Francia „, annotava il Reina (III, 309), " eppure a spese enormi de- 
rivavansi di là mode e capricci repubblicani ,. Il sonetto porta per 
titolo: El magon dij damm de Milan par i baronad de Fraiiza, e 
suona cosi: 



Madamm, g'hala qua) noeuva de Lion? 
Massacren anch'adess i pret e i fraa 
Q.UÃŒJ soeu birboni de Fran'.es, che han traa 
La lesg, la fed, e tutt coss a monton? 

Cossa n'è de colù de quel Petton [Pethion], 
Che 'l pretend con sta bella Hbertaa 
De mctt insemma de nun nobiltaa 
H de nun Damm tutt quant i mascalzon? 



101 ODI. 

A proposif che la lassa vede 

Q.ucl capell là, che g'ha d'intoriia on veli; 

È el staa inventaa dopo che haii mazzaa el Rè? 
Èel el primm ch'è rivaa? Oh beli! oh beli! 

Oh i gran Franzes! Besogna dill, no gh'è 

Popol che sappia fa i mej coss de quell ! 

11 Reina avverte che la Silvia dell" ode è " nome immaginario „.; 
Ed è nome senza dubbio bellissimo, consacrato nella poesia italiana 
(anche prima che dal F.eopardi) dal Tasso e dal Frugoni. Anzi il 
cinquecentista aretino Pier Paolo Gualterio, della scuola delTolomei, 
ha addirittura un'ode A Silvia, imitazione, quanto al metro, della 
strofa saffica, e, quanto alla sostanza, del carpe diem oraziano. 
{CAv. Carducci, La poesia barbara nei secoli XV e A'V7, Bologna, 
1881, p. 95). Il Parini stesso mutò nel "bel nome, di Silvia quello 
di Maria Beatrice d'Este, neir.4sca/iio in Alba. (Cfr. Op., Ili, 268-9). 

Ma i contemporanei vi vollero riconoscere la veronese Silvia Cur- 
toni-Verza : una delle amiche più dolci del poeta, il quale l'ammirò 
con tanto fuoco di passione, che il suo si direbbe " amor vero e 
possente „ se chi lo provava non fosse stato un vecchio prete tra 
i sessanta e i settantanni. E in verità una siffatta identificazione si 
presenta cosi spontanea e verosimile, che non si comprende perchè 
gli studiosi più recenti del Parini la discaccino quasi una cattiva 
tentazione. Vero è che Benassù Montanari, l)ìografo della contessa 
veronese (Verona, 1851), raccomandò di non confonder le due Silvie 
ma le ragioni, ond'egli avvalorò codeste raccomandazioni, non per- 
suadono. " Esiste in Verona „, egli dice, " manoscritta, una storia di 
Verona al tempo della rivoluzione, dove il contegno di Silvia in 
questi giorni è animosissimamente l)istrattato; ed ove Silvia avesse 
adottata quella moda, lo scrittore glie lo avrebbe certo rinfac- 
ciato „. Che infatti la contessa fosse delle più esaltate in quel pe- 
riodo di comune esaltazione repubblicana, risulta anche da altre 
testimonianze. Il Valéry, per es,, racconta, nelle Ciiriosités et aiiec- 
dotcs italiennes, d'un medico francese emigrato, che, consultato 
da lei, rispose derivare il suo male dall'aver i polmoni tricolorati ; 
e il Bettinelli le dedicava questo epigramma, che si direbbe un 
madrigale sansculottes : 

Silvia dissi ognor divina 

Per beliade e per ingegno; 

Or la dico giacobina 

Per la moda ch'oggi ha regno. 
Ma ciò e poco, dice Amore: 

Se l'ha udita e se l'ha vista. 

Fugga pur, tremi ogni core: 

Io la feci terrorista. 

Una tal Silvia è proprio quella che ci vuole per l'ode: la Silvia 
iiKjeiuia è amabilmente rimproverata dal poeta d'aver subito adot- 
tata una moda poco vereconda, solo perchè le sarà forse parsa 



SUL VESTIRE ALLA GHIGLIOTTINA. 105 

un'uniforme repubblicana. Che poi di codesto particolare taccia il 
cronista veronese, non sorprende: quella nuova foggia non l'aveva 
introdotta la Silvia, e non era essa sola a portarla. Anzi, per ciò 
appunto, mi pare che perda valore pur l'attestazione di Ippolito 
Pindemonte (grande amico della Verza, per la quale aveva appo- 
sitamente tradotta la Berenice di Racine, che essa poi recitò in 
casa dei conti Marioni), riferita dal Montanari: che egli cioè avesse 
conosciuta a Milano quella signora che prima aveva adottata l'ac- 
conciatura alla ghigliottina e dato con ciò occasione all'ode ; una 
signora, s'intende, che non era la Verza. Il Parini non sì rivolge 
punto alla dotta invcnlrice, una delle tante " stupide e di mente 
e di core „ (me ne duole pel cavalier Pindemonte!), bensì a una 
cnra ingenua che lavea presa a modello, " E l'altre belle imiti „! 

Può parere da ingenuo scambiare la Curtoni-Verza per una in- 
genua. Ma prima di tulto, se codesta colta e avvenente nipote dì 
Scipione Maffei fu forsa troppo vivace, amante degli spassi, desi- 
derosa di vedersi corteggiare dai poeti, essa, tra le libere dame del 
suo tempo, non si segnalò per nessuna di quelle qualità che son 
l'opposto dell'ingenuità. Dalle lettere che ancora ci rimangono di lei 
traspare un'indole gaia, schietta, entusiastica. " Caro amico „, scrì- 
veva da Napoli il 21 luglio 1790 al conte Torri, " non so espri- 
mervi quanto sia piacevole il rivedere la più bella parie d'Italia. 
Per ogni dove ho trovato la medesima cordialità negli amici miei, 
di cui voi foste un giorno testimonio. Napoli è un maggiore in- 
canto in questa amena stagione, come potete immaginarvi. Le par- 
lite di divertimento sono deliziose, la sera alla passeggiala a Posi- 
lipo, per mare in barchctla con musica. Oh che piacere! Quattro 
teatri aperti con magnifici e buoni spettacoli, accademie, ecc. „. 
Né pìccolo argomento d'onore per lei e che il (bastila denominava 
" Sìlvia la platonica „ ! 

E poi ingenua la chiamerebbe il Parini, che nell'ammirar le 
belle donne perdeva i lumi, e della contessa era cotto: allora, di- 
cono, sia facile prender lucciole per lanterne ! La Curtoni, nell'au- 
tunno del 1788, trovandosi a Milano, ammirata dal fiore della no- 
biltà e della cultura, era stata più volte, in compagnia del liertòla, 
a visitarlo; e il 24 novembre scriveva al Vannettì da Verona: " Io 
mi sono assai divertita in questo mio piccolo viaggio, particolar- 
mente fra i buoni e cordiali Milanesi. Ho conosciuto il bravo abate 
Parini, che ha nel vero due grandi occhi poetici. Ho inteso da luì 
stesso recitare parte della sua Sera, nulla inferiore al Mattino e al 
Mezzogiorno. Che penna aurea ! che maniera e forma di dire tutte 
nuove! che vivacità dì colori! che verità di costume! Non m'ac- 
cusate di entusiasmo : sono lodi che egli merita, voi lo sapete „, 
(Cfr. G. BiADEGO, Da libri a manoscritti, Verona, 1883, p. 110; e di lui 
anche il Carteggio inedito d'una gentildonna veronese. Verona, 1884). 
Poi, nei primi giorni del 1789, aveva scritto direttamente al grande 
poeta ; il quale, gongolante di gioia per codesta " più valida testi- 
monianza della parzialità , d'una tal dama, il 22 gennaio rispose 
con una lunga lettera; in cui tra l'altro le dichiarava {Op., IV, 
181 ss.): 



106 ODI. 

" Se io Le dicessi, gentilissima Dama, che da quel momento che a Lei pia- 
cque privare la mia patria e me della sua presenza non è corso un giorno, 
neppur un giorno, senza che io mi sovvenissi di Lei, e senza che io mi dilet- 
tassi, come tuttora fo, di ricorrere e di contemplare coll'immagina/.ione tutti 
gl'interni e gli esterni pregi che l'adornano; se io Le dicessi che io ho sempre 
presenti le Sue sembianze per lo appunto come se Ella mi avesse fatto la 
grazia di regalarmi un suo ritratto; che mi par di sentire il tono della Sua 
voce, di vederne la vivacità degli occhi, l'energia dell'espressione, e quelle 
grazie dello spirito e della persona tutte Sue, che ravvivate da una lievissima 
tinta maschile sono tanto più singolari e prepotenti: se io Le dicessi queste 
e mille altre cose simili, io non farei altro che giustificare il titolo da Lei at- 
tribuitomi di grande pittore di verità „. 

Senz'aspettare che la con lessa replicasse, il 25 febbraio il " vec- 
chierello immaginoso „ le tornò a scrivere, con ardore irrequieto: 
protestando che " pochi momenti „ aveva egli " provati veramente 
e vivamente piacevoli in tutto il corso di questa ria stagione , , 
quelli in cui le amiche comuni Cusani e Castiglioni gli avevan 
parlato di lei, e l'altro in cui lesse " i versi recentemente pubblicati 
dal cavalier Pindemonli. Tali versi „, soggiungeva, " benché non mi 
soddisfacciano del tutto per rispetto al tutto, contengono per altro 
delle cose belle. Ma quale fu il momento in cui piìi mi piacquero? 
Voglio lasciarlo indovinare alla rispettabilissima Silvia. Quanto 
sarei io felice di vedere ora quel sorriso che le scherza sulle labbra 
nell'atto dello indovinare ! „ 11 12 marzo passa dal chiamarla " ve- 
neratissima „ o " gentilissima „ o " ornatissima dama „, all'invocarla 
" adorabile Silvia „ ; e le manda un sonetto con poche parole d'ac- 
compagnamento. " Deh perchè le vostre circostanze e le mie „, dice, 
" mi fanno disperare di rivedervi mai più ! Siate sicura che il de- 
siderio di contemplarvi e d'ammirarvi un'altra vòlta da vicino è 
una delle più frequenti e principali occupazioni dell'animo mio ,. 
Il sonetto, d'ottima lega petrarchesca specialmente nei terzetti (il 
primo dei quali si direbbe fattura foscoliana o leopardiana), è 
questo (II, 40) : 

Silvia immortai, ben che da i lidi miei 

Lontana il patrio fiume illustri e coli; 

E ben che dentro a i gorghi atri letei 

Ogni dolce memoria il tempo involi : 
Pur con lo ingegno onde tant'alto voli 

E con le vaghe forme e i lumi bei. 

Dopo sì lungo variar di soli. 

Viva e presente nel mio cor tu sei. 
E spesso in me la fantasia si desta, 

Tal che al di chiaro e ne la notte bruna 

Te veggio, e il guardo a contemplar si arresta 
Nò ben credendo ancor tanta fortuna, 

Palpito e grido: o l'alma Silvia è questa, 

O de le Grazie o de le Muse alcuna. 



SUL VESTIRE ALLA GHIGLIOTTINA. 107 

Or come si può ammettere, sapendo tutto ciò, che il poeta, inti- 
tolando A Silvia una sua ode, sei anni dopo, non pensasse più alla 
Silvia adorala? Quella sua ammirazione non era un mistero, né 
la signora desiderava che tale rimanesse (efr. la dedica del Reina 
a lei del IV volume delle Opere pariniane); come dunque, se non 
voleva che quel nome richiamasse quella persona, egli non ne pre- 
scelse un altro, incolore, magari più risolutamente arcadico, come 
A^ice? O forse ei preferi quello di Silvia appunto perchè caro al 
suo cuore e al suo orecchio? Pur in questo caso, però, farebbe 
sempre lei, la bella Veronese, capolino di dietro al nome. Del 
resto, il Parini non commetteva nessuna indiscrezione mettendo 
avanti un nome vero. Nulla della • ingenua „ è detto nell'ode che 
possa offendere la suscettività anche più delicata; e il poeta vi 
assume una cert'aria paterna, da vecchio precettore, che conveniva 
perfettamente e al suo grado e alla sua età. Per Vinclita Nice gli 
scrupoli erano ben altrimenti fondati ! 



ALLA MUSA 



Te il mercadanle che con ciglio asciutto 
Fugge i figli e la moglie ovunque il chiama 
Dura avarizia nel remoto flutto, 

Musa, non ama. 
Né quei cui l'alma ambiziosa rode 
Fulgida cura, onde salir più agogna; 
E la molto fra il di temuta frode 

Torbido sogna. 
Né giovane che pari a tauro irrompa 
Ove a la cieca più Venere piace; 
Né donna che d'amanti osi gran pompa 
Spiegar procace. 
Sai tu, vergine dea, clii la parola 
Modulata da te gusta od imita, 
Onde ingenuo piacer sgorga, e consola 
L'umana vita ? 
Colui cui diede il ciel placido senso 
E puri aifetti e semplice costume; 
Che, di sé pago e de l'avito censo. 

Più non presume; 
Che spesso al faticoso ozio de' grandi 
E a l'urbano clamor s'invola, e vive 
Ove spande natura influssi blandi 

O in colli o in rive; 
E in stuol d'amici numerato e casto. 
Tra parco e delicato al desco asside; 
E la splendida turba e il vano fasto 
Lieto deride; 



ALLA MUSA. 109 

Che a i buoni, ovunque sia, dona favore; 
E cerca il vero; e il bello ama innocente; 
E passa Tetà sua tranquilla, il core 

Sano e la mente. 
Dunque per che quella si grata un giorno 
Del giovin, cui die nome il dio di Delo, 
Cetra si tacet e le fa lenta intorno 
Polvere velo ? 
Ben mi sovvien quando, modesto il ciglio, 
Ei già, scendendo a me, giudice fea 
Me de' suoi carmi : e a me chiedea consiglio, 
E lode avea. 
Ma or non più. Chi sa ? Simile a rosa 
Tutta fresca e vermiglia al sol che nasce. 
Tutto forse di lui Teletta sposa 

L'animo pasce. 
E di bellezza, di virtù, di raro 
Amor, di grazie, di pudor natio 
L'occupa si ch'ei cede ogni già caro 
Studio a Toblio. 
Musa, mentr'ella il vago crine annoda, 
A lei t'appressa, e con vezzoso dito 
A lei premi Torecchio, e dille, e t'oda 
Anco il marito: 
Giovinetta crudel, perché mi togli 
Tutto il mio D'Adda, e di mie cure il pregio, 
E la speme concetta, e i dolci orgogli 
D'alunno egregio ? 
Costui di me, de' genj miei si accese 
Pria che di te. Codeste forme infanti 
Erano ancor quando vaghezza il prese 
De' nostri canti. 
Ei t'era ignoto ancor quando a me piacque. 
Io di mia man per l'ombra e per la lieve 
Aura de' lauri l'avviai vèr l'acque 

Che al par di neve 
Bianche le spume scaturir da l'alto 
Fece Aganippe il bel destrier che ha l'ale. 
Onde chi beve io tra i celesti esalto 
E fo immortale. 



110 ODI. 

Io con le nostre il volsi arti divine 
Al decente, al gentile, al raro, al bello: 
Fin che tu stessa gli apparisti al fine 
Caro modello. 
E, se nobil per lui fiamma fu desta 
Nel tuo petto non conscio, e s*ei nodria 
Nobil fiamma per te, sol opra é questa 
Del cielo e mia. 
Ecco, già Tale il nono mese or scioglie 
Da clic sua fosti, e già, deh ti sia salvo!. 
Te chiaramente in fra le madri accoglie 
Il giovin alvo. 
Lascia che a me solo un momento ei torni; 
E novo entro al tuo cor sorgere alletto, 
E novo sentirai da i versi adorni 
Piover diletto. 
Però ch'io stessa, il gomito posando 
Di tua seggiola al dorso, a lui col suono 
De la soave andrò tibia spirando 
Facile tono; 
Onde rapito ei canterà die sposo 
Già felice il rendesti, e amante amato, 
E tosto il renderai dal grembo ascoso 
Padre beato. 
Scenderà intanto da l'eterea mole 
Giano che i preghi de le incinte ascolta; 
E vergin io de la Memoria prole 

Nel velo avvolta 
Uscirò co' bei carmi, e andrò gentile 
Dono a farne al Parini, Italo cigno 
Glie a i buoni amico alto disdegna il vile 
Vol£?o maligno. 



Fu composta nella primavera del 1795, al compiere del nono 
mese dacclic il marchese Febo d'Adda (il gioinn cui die nome il 
dio di Dclu), già discepolo ed amico del Parini, aveva menala in 
moglie la contcssina Leopoldina Kewenhùller. 11 23 giugno il 
poeta gli scriveva da Vavero [Op, IV, 192-3): " Se la boiitii, con cui 
V. S. lllustr. ha accettati que' pochi senili mici versi, ù troppo su- 
periore al loro merito, mi è però dovuta la giustizia, ch'Ella rende 



ALLA MUSA. Ili 

ai sentimenti da cui mi sono stati dettati. V. S. Illustr. può farne 
quel che Le pare, avendo io tutta la ragione di commettermi al 
gusto ed al giudizio di Lei, massimamente dopo aver Ietto il com^ 

ponimento che ha avuto la gentilezza di mandarmi Sarà la più 

grande pruova della parzialità di V. S. Illustr. per me, se Ella, 
senza più oltre interrogarmi sopra di ciò, userà meco liberamente, 
ritenendo, sostituendo, o cangiando la lezione come Le parrà; e 
cosi parimenti per l'ortografìa in ogni parte ,. 

Il D'Adda era, dice il Reina, * caro alle muse ed a tutti i buoni „ . 
Nato nel 1772, aveva fatto parte del "Decurio nato milanese ed era 
stato Ciambellano* di S. M. imperiale prima dell'invasione francese 
del 1796; e quando gli Austriaci tornarono, coperse uffici sempre 
più importanti, quali quelli di Consigliere di Governo, di Consi- 
gliere intimo e di Vicepresidente del Governo di Lombardia. Morì 
nel 1836. 11 cardinale Angelo Durini celebrò le sue nozze con una 
alcaica latina (cfr. A. Bertoldi, Dell' ode Italia Musa di G. P., Fi- 
renze, 1889, p. 34): 

Jam nupiiali iam moveor face 
Late enìtentì ; Vatis honestior 
Inventa me Sponsi, novaeque 
Forma rapit putibunda Nupta. 

All'ode del venerato maestro, il D'Adda rispose con un'altra, 
f/aiììicizia, che fu stampata a MiLano l'anno medesimo; dov'è nar- 
rava (cfr. Salveraglio, p. 271 ss.): 

Me già di rozzi carmi 

Giovanetto testor pungea desirc 

Di più eccelso salire 

In Elicona, e glorioso f.irmi; 

Ma quale al fosco ingegno 

Il diffiwil de l'arte era ritegno! 
Allor, come tra il flutto 

Di sconosciuto mar speme novella 

Appar la nota stella 

Al nocchier che premea l'estremo lutto, 

Tale a l'alma smarrita 

L'alta rifulse del Parini atta. 
Ei, di benigne lodi 

I miei spargendo meno incolti veisi, 

D'altri più adorni e tersi 

Giva scoprendo i fonti ignoti e i modi, 

E ognor del grande e bello 

De i vetusti poneva a me modello, 

11 D'Adda visse sempre affezionatissimo al Parini; e nell'ultimo 
giorno dì vita, questi, fino a pochi momenti prima della morte, 
rimase a conversare con lui e con altri tre o antichi discepoli o 
colleghi (Reina, lxiii). In un'ode. La rimenibranza, modellata sullo 



112 ODI. 

schema metrico della pariiiiann, il D'Adda medesimo volle com- 
memorare quella tenera e triste scena, che si vorrebbe quasi dir 
socratica (Salvrraglio, p. 270): 

Ben mi sovvien quando l'estremo a lui 
Sole splendeva, e del rio fato ignari 
Po'chi amici ma fidi intorno a i sui 

Modesti lari 
Sedevamo raccolti, de gli egregi 
Detti tesor facendo. Oh come in essi 
Di sano cor, di retta mente i pregi 

Erano espressi! 
Che mentre Morte, velenoso telo 
Vibrato, il caro a lui viver rapia, 
11 vigor de lo spirto o il santo zelo 

Men non venia, 
E ne gli occhi vivaci e nel sereno 
Volto brillava, qual ne i di ridenti, 
De l'alma indizio ; e da lui dolce aviòno 
Forza gli accenti : 
Cosi a l'occaso declinato, il grande 

Astro del giorno ancor d'almo giocondo 
Lume abbclla la terra, e calor spande 

Grato e fecondo. 



IL GIORNO 



Avvertenza. — Questo poemetto non comparve intero per le 
stampe se non postumo, il 1801, nel primo volume delle Opere di 
G. P. pubblicate ed illustrate da Francesco Reina. Il Vespro e la Notte 
venivano anzi in pubblico allora per la prima volta. Ma poiché 
tra le carte pariniane il Reina trovò pur il Mattino e il Mezzo- 
giorno variamente e largamente corretti e mutali e allargati e ri- 
falli, egli, pur ristampando il testo del 1763 e 1765, riferi in pie di 
pagina quante varianti potè racimolare nei manoscritti. Scorren- 
dole, risulta chiaro che queste non erano se non tentativi, non 
sempre felici, che il poeta veniva via via facendo per migliorare 
la forma e meglio disciplinare la materia del suo poema ; ma che 
siffatto lavoro di ripulimento* e di riattazione era ancor molto 
lontano dalla perfezione. Onde il Reina, tenendo separato l'antico 
testo dalle nuove varianti, si comportò da editore saggio, arguto 
ed onesto; anzi (che lode che a lui doveva meglio piacere) da 
vero e degno scolaro del Pariui. Il quale, in una sua lettera contro 
il Bandiera {Opere, V, 179), aveva insegnato : " Non è lecito ad al- 
cuno, senza taccia di solenne arroganza, di corregger l'opere al- 
trui, e tanto meno le opere grandi, le quali, per le somme bòUezze 
ch'esse contengono, hanno acquistato ragion di non esser tocche 
nemmeno nelle lor macchie ; e per certo modo sacrilego dee ri- 
putarsi colui che a migliorar vuol porsi lo scritto d' un celebre 
autore. Però il pubblico consenso de' letterati ha sempre applau- 
dito a coloro che modestamente avvisarono altrui d'un'opera di- 
fcttuosa, ma per lo contrario garrito a que' burbanzosi che pedan- 
tescamente lian messo la penna negli altrui scritti „. 

Codesti l)urbanzosi arroganti non mancarono tra gli editori po- 
steriori del poemetto pariniano. Ed il maggiore di essi, il Cantù, 
così ne ragiona (L'ab. Parini; Milano, Gnocchi, 1854, p. 284): " Al- 
l'avvocato Rramieri parve gioverebbe rannicchiar queste [le varianti] 
ai debiti luoghi, inserire e trasportare passi come l'autore aveva 
indicato; e con tal arte preparò l'edizione, uscita nel 1805 in 4°, 



li(i IL GIORNO. 

per cura del Mussi a Parma. Pure il Mussi . stesso, nella pomposa 
edizione in foglio (Milano, Stamperia reale, 1811) falsamente asse- 
rita di soli 200 esemplari, conservò ancora il testo primitivo, che 
divenne vulgato nelle infinite edizioni posteriori, frodate perciò 
di moltissiive bellezze, e peccanti d'errori e ineleganze che il poeta 
avea riparate. Solo nel 1841 la tipografìa dei Classici Italiani, per 
nuova fatica dell'abate Colonnetti, diede fuori un testo, ridotto 
quale può supporsi l'avrebbe voluto il Parini. Noi nel lodammo 
distesamente in una lettera diretta a Salvator Betti romano (vedi 
Rivista Europea, aprile 1844), cercando le ragioni dei cambiamenti, 
apprendendo nuove strade del I)ello e procurando additarne a 
qualche giovane che non credesse per anco inutili le cure intorno 
alle finezze dello stile e alla squisitezza delle armonie „. E proe- 
miando al suo nuovo conciero, al quale non so capacitarmi come 
mai un critico del valore del Carducci siasi voluto attenere (S/oWa 
del Giorno, p. 43), concludeva : " Noi dunque ci mettemmo sulle 
orme del Bramieri e del Colonnelli per preparare una lezione che 
comprenda tutte le aggiunte e trasposizioni, e scelga tra le varianti 
quelle che ci parvero preferibili. Noteremo però come neppure ad 
essi fu conceduto confrontare le stampe cogli autografi, benché 
esistano in Milano, e custoditi da un milanese che ha la capacità 
e il proposito di valersene „. 

Osservò bene A. Borgognoni (nellinlroduz. al Giorno; Verona, 
1891, p. lG-7) : " Ma io domando da dove possa legittimamente ri- 
trarsi che l'autore avrebbe, alla finita, ridotto a quel modo il suo 
poema. In primo luogo, di parecchi passi le varianti ch'egli lasciò 
son più d'una. Quale avrebbe egli scelto? La scelta dame, rispon- 
derà il compilatore, perchè è la più acconcia, la più bella. Dunque, 

io soggiungo, il giudice, il correttore non è il Parini, siete voi 

Ma anche dove la variante è singolare, qual criterio, si domanda, 
vi accerta che l'autore l'avrebbe in ultimo sostituita al corrispon- 
dente passo antico ? È noto che gli autori, rileggendo le cose 

proprie, buttano molte volte in carta varianti dubitative, riserbau- 
dosi poi di vedere e rifletter meglio se sia o no da adottarle. E 
molte volte il giudizio ultimo è a quelle sfavorevole, e restan 
fuori. Ora anche qui la strada è senza uscita pei correggitori. Se 
si ricorre al criterio del più o meno bello, ecco che siamo alle 
solite : siamo al solito criterio subbiettivo, superbo e inganne- 
vole „. 

Il testo che noi diamo è esattamente quello del Reina. Trascu- 
riamo però di riprodurre le varianti, perchè ci è parso che sareb- 
bero riuscite fastidiose e inutili ai lettori cui questa nostra edizione 
è indirizzata : esse danno un'aria grave e pedantesca a una poesia, 
che bisognerebbe leggere a distesa e gustare senza preoccupazioni 
tecniche. Del resto chi avesse desiderio di studiare con una buona 
guida quell'intenso lavorio di lima che il Parini venne facendo, 
fino all'ultimo, intorno all'opera sua, può riscontrare la recente 
ristampa curatane da G. Mazzoni (Firenze, Barbera, 1897). Diamo 
in nota, nei luoghi corrispondenti, qualcuno di quei brani più 
notevoli che il j)oeta pensava forse di aggiungere, o di sostituire ad 



IL GIORNO. 117 

altri, in una edizione complessiva del poema, che vagheggiava ma 
che non fece mai. 

Quanto all'ortografia, il Reina avvertiva (Op., I, Lxvn): " Avendo 
l'autore in varj tempi seguito diversi metodi di ortografìa, si 
danno i Poemetti colla varia punteggiatura, spezzatura di parole, 
e simili, siccome fece egli tanto nel testo quanto ne' pentimenti, 
perchè meglio si scorga in qual guisa la rendette per gradi sì sem- 
plice nella Notte „. E nulla abbiamo mutato nemmeno noi; salvo 
che ci Siam permesso di aggiungere o di togliere qualche virgola, 
perchè meglio, a una prima lettura, riuscisse evidente il senso. 

Che l'intero poema dovesse aver per titolo // giorno, appar chiaro 
se non altro da quel luogo della Caduta, dove il poeta si dice mo- 
lestamente incitato di " poner fine al Giorno „. Esso però da prima 
doveva constare di tre parti. " Se a te piacerà di riguardare con 
placid'occhio questo Mattino „, scriveva il Parini medesimo nella 
dedica alla Moda, " forse gli succederanno il Mezzogiorno e la 
Sera „; e nella protasi (v. 11-13): 

duali al Mattino, 
Q.uai dopo il Me:^iodi, quali la Sera 
Esser debban tue cure apprenderai. 

Dopo, nella mente del poeta^ la Sera si sdoppiò nel Vespro, a cui 
provvide con jiarte del Mezzogiorno, e nella Notte. 

Narra qua e là il Reina: " L'Italia domandavagli intanto la con- 
tinuazione del Giorno: vi si provò egli spesso, abbozzò il Vespro 
e la Notte, che sostituì all'ideata Sera ; ma ne sospese più volte il 
lavoro, tanto lo rendette difficile la tema di non parer minore di 
sé nella pubblica opinione Mentre fervevano i terribili avve- 
nimenti politici e guerrieri, l'arciduchessa Maria Reatrice da Esle, 
donna di generosa indole, piena di domestiche virtù ed amica e 
coltivatrice degli studj liberali, desiderò di vedere la Notte di Pa- 
rini. Egli, che molto reputava la valorosa donna, se ne scusò per 
la imperfezione della cosa, e promise di ofl'erirgliela sollecitamente 
stampata col restante del Giorno. Diedesi perciò al pulimento del- 
l'opera, ed aveva già riveduto il Mattino, il Meriggio e parte del 
Vespro e della Notte, quando i Francesi concpiìslarono la Lom- 
bardia. Può ognuno immaginarsi l'onesto tripudio di un uomo 
nutrito colle idee di libertà, al quale era dato di sperar bene della 
patria ! Eletto da Ronaparte e Saliceti al Magistrato Municipale di 
Milano, .... egli, zelatore instancabile del pubblico bene, vi rimase 
finche lusingossi di conseguirlo; indi ottenne un onesto congedo. 
... Restituitosi alla domestica quiete, seguitò con premura costante 

gli andamenti politici della giornata 11 continuo leggere che 

faceva delle cose giornaliere e lo studio de' classici, che non tra- 
scurò mai, gli offescro la vista in modo che gli si appannò alquanto 
anche l'occhio sinistro ; onde risolvette di sottoporre il destro al- 
l'operazione della cateratta, la quale riescendogli bene, divisava di 



118 IL GIORNO. 

compiere il Vespro e la Notte nella state vegnente, ed aveva pro- 
messo già di dettarmeli „. 

E ancora : " Xon mai contento di se, Parini s'accorse che l'arte 
facevasi ricordare qualche volta ne' suoi poemetti. I pentimenti 
tutti posteriori all'opera provano ])astevolmente che ne levò que' 
modi e vocaboli che non erano i più proprj e naturali, in guisa 
di declinare spesso dalla novità per amore della semplicità e chia- 
rezza. Con simili divisamenti stese egli il Vespro e la Notte^ ne' 
quali, bencliè imperfetti, il semplicissimo bello della composizione 
e dello stile è giunto a tale che la felice pertinacia dell'arte inte- 
ramente si asconde sotto l'api^arenza della nuda ed evidente fa- 
cilità : del qual metodo assai compiacevasi nella vecchiaja. Poche 
cose trovava egli di questa natura, e perciò gliene piacevano poche. 
Negli ultimi tempi suoi l'evidentissimo Dante, il semplice e facile 
Ariosto gli erano sempre alla mano : costoro, diceva egli, più si 
conosce l'arte, più si ammirano; più si studiano, più piacciono „. 

In una lettera da Milano, 10 settembre 1766, il Parini scriveva 
.1/ librajo Coloiììbani, a Venezia (cfr. Caxtù, L' ab. Parinit 329) : 
" Quanto alla mia Sera, io ho quasi dimesso il pensiero : non che 
non mi piaccia di compiere i tre poemetti da me annunciati, ma 
perchè sono stomacato dell'avidità e della cabala degli stampatori. 
Non solo essi mi hanno ristampato in mille luoghi gli altri due, 
ma lo hanno fatto senza veruna partecipazione meco, senza man- 
darmene una copia, senza lasciarmi luogo a correggervi pure un 
errore. Questa Sera è appena cominciata; e io non mi sono dato 
veruna briga di andare avanti, veduto che non me ne posso aspet- 
tare il menomo vantaggio, e probabilmente non proseguirò se non 
avrò stimoli a farlo. Aggradisco le proposizioni di Lei, e su questo 
proposito Le rispondo che sarebbe mia intenzione di fare un'edi- 
zione elegante di tutti e tre i poemetti, qualora l'opera fosse com- 
pila. Se Ella dunque si risente di farla, io mi esibisco di darle la 
Sera terminata per il principio della ventura primavera, e insieme 
gli altri due poemetti, corretti in molti luoghi e migliorati ,. 

E in un'altra, pur da Milano, il 18 novembre 1791, diretta al ce- 
lebre Bodoni di Parma, che aveva da poco stampato le Odi e 
stampò poi nel 1800 il Mattino e il Mezzogiorno, scriveva (cfr. 
Beiitana, Sei lettere inedite del P., nella Rassegna Bibliografica d. 
leti. Hai., VI, 82-5) : " . . . . ma mi pareva pur necessario di giustifi- 
carmi presso di Lei che merita tanto riguardo dagli amatori delle 
Lettere; e specialmente da me, così di fresco favorito ed onorato 
colla sua bellissima edizione dei miei poveri versi. Io non so come 
significarle bastevolmente la mia compiacenza e la mia gratitu- 
dine, così per la spontanea singolare gentilezza ch'Ella ha usata 
meco appena a Lei noto, come per la nobiltà e la eleganza della 
edizione e del volumetto di cui, per riguardo alla sua opera, mi 
ha fatto un prezioso dono. Se mai Ella è informata del mio ca- 
rattere, Ella saprà che io sento più assai il merito e la generosità 
altrui di quel che io non sia capace di spiegare con parole. La 
priego adunque di misurare dal mio animo anzi che dalla mia 



IL GIORNO. 119 

penna quanto io L'ammiri, e quanto io me Le professi obbligato ; 
e più non dico intorno a ciò. Nella primavera ventura spero, e 
quasi tengo per certo, d'avere in pronto due poemetti per sèguito 
e per termine di quelli altri antichi due, che hanno avuto la for- 
tuna di non dispiacere. Se mai Ella mi facesse l'onore di meditar 
nulla anche intorno all'edizione di essi. Ella si compiaccia di far- 
mene cenno. I due primi uscirebbero corretti, variali in qualche 
parte, ed accresciuti. Così tutti e quattro verrebbero ad esser 
nuovi, e ridotti in un solo Poema, che avrebbe per titolo II 
Giorno „. 

Mi pare altresì opportuno riferire qui alcuni brani di lettere che 
il Baretti scrisse in tempi diversi all' amico Don Francesco Car- 
cano, a Milano. 

In una da Venezia, il 9 maggio 1763, diceva : * Vi ringrazio delle 

quattro copie del Mattino, che m'avete mandato Sentite un 

pezzo d'epistola che sto scrivendo sulle differenti opinioni de' filo- 
sofi intorno all'amore. Cospetto di Bacco, la scrivo in versi mar- 
telliani ; fatevene il segno della croce, che a me non importa. Il 
Parini vuol buttar via l'ingegno in verso sciolto, ed io lo vo' buttar 
via in verso martelliano ! „. 

In un'altra del 30 marzo 1765 : " Io poi non incoraggirò il Parini 
a scrivere né il Mezzodi né altro, che questa p. . . . Italia non me- 
rita che dei Chiari e dei Buonafede. Perché diavolo lambiccarsi 
il cervello a vantaggio d'un paese abitato da tanti quadrupedi che 
camminano su due gambe sole? Lasciamoli ignoranti, prosun- 
luosi, sciaurati come sono, e non ce ne diamo pensiero „. 

E da Livorno, il 10 febbraio 17G6 : " Se vorrete essere mio corri- 
spondente quando sarò in Londra, avvertite ora per allora che io 
non trovo facilmente la poesia buona, e che non potrò volere un 
corrispondente in Italia se mi darà il fastidio di leggere de' versi, 
quando non sieno di quella forza de' versi del Parini, che col suo 
Mezzogiorno m'ha fatto vincere l'avversione che ho agli sciolti e 
all'oscurità. Però in avvenire guardatevi bene dal più martoriarmi 
con cose inferiori al Mattino e al Mezzogiorno ; altrimenti mi guasto 
con voi sicuramente ,. 

Da Parigi, il 20 giugno 1768 : « Vi dico che mi rallegro il Pa- 
rini stia componendo la Sera; che avrei caro di vedere tutti e 

tre i Poemi del Parini, quando il terzo sarà finito ; che venendovi 
occasione, non fareste male di mandarmeli per mezzo deirillu- 
strissimo signor Paolo Celesia di Genova, mio amicissimo, insieme 
con le cose del Tanzi pubblicate dal prefato Parini Mandan- 
domi i Poemi del Parini, mandatemi anco quella Sera del poeta 
bresciano [Mulinelli; Venezia, Colombani, 1762], buona o cattiva 
che si sia, onde possa giudicare della differenza de' genj ,. (Di co- 
desta Sera pseudopariniana diremo più in là). 

Da Londra, il 12 agosto 1778: " Tanto peggio se il Parini si lascia 
ire alla pigrizia, e se non viene a darci dopo tant'anni la terza parte 
del suo Poema. Intanto ch'egli è giovane dovrebbe puf adoperare 
quel suo cervello e far onore alla patria ed a se stesso „, 



120 IL GIORNO. 

E il 12 marzo 1784: ' Se volete mandarmi libro alcuno, manda- 
temi la Sera del Parini, caso eh' e' l'abbia finalmente pul)blicata. 
Quantunque la disgrazia voglia che sia in verso sciolto, pure vorrei 
averla, come ho il Mattino e il Mezzodì, perchè ogni verso del 
Parini è buono, e alla lingua egli ha saputo dare de' nuovi 
colori molto vivi e molto vaghi, e il suo pensare ha sempre del 
brioso e del fiero. „ (Cfr. Scritti scelti ined. o rari, II, 28-9, 79, 106, 
151, 294 e 321). 

Particolari curiosi dei si dice che, intorno alla terza e quarta 
parte del Giorno, corsero pure tra gl'intimi e ancora correvano 
dopo la morte del poeta e prima della edizione del Reina, sono 
accennati e in una lettera che la Duchessa Serbelloni scriveva 
nel 1784 al figliuolo Gian Galeazzo che si trovava a Roma, e nelle 
Lettere di due amici, raccolte e ristampate poi, nel 1802, a Milano, 
dal Majnardi. 

" Parini „, diceva la Duchessa nel bizzarro suo francese, " a été 
tres charme du cas qu'on fait à Rome de lui; mais pour la Sera, 
je doute fort qu'elle paraisse au public de son vivant, se voiant 
si peu estimé par la Cour. lei il n'y a que le Prince Albani qui 
décide en littérature, l'Arciduc ne s'en soucie, et Madame toutte 
lice avec son consin ils ne considèrent que les ex ,. (Spinelli, Al- 
cuni fogli sparsi del Parini, Milano, 1884, pag. 14). Per gli ex son da 
intendere i gesuiti; tra cui il Rondi, autore d'un poemetto sulla 
Moda, e il Morcelli, noto pel suo libro Ialino intorno allo stile delle 
iscrizioni, che dedicarono appunto al principe Carlo Albani, cugino 
dell'Arciduchessa per parte della madre. (Cfr. Cauducci, Storia del 
Giorno, p. 229-30). 

1/avv. Luigi Rramieri piacentino scriveva, il 7 settembre 1799, "al 
chiarissimo Padre Don Pompilio Pozzetti, e. r. delle Scuole Pie, 
Ribliot. in Modena „ (pag. 9 ss.) : " Di compier codesto suo mirabil 
Poema era desiderosissimo egli stesso, e vi si occupava continua- 
mente ; ma una folla di avverse circostanze si è attraversata all'a- 
dempimento di sì bello ed universal desiderio. Se il Mattino e il 
Mezzogiorno avevan potuto fornire tante, tutte leggiadre e sì ben 
variate situazioni ed aspetti, in cui è presentato il giovin signore 
di moda. . . . , a quanto più non doveano dar luogo il Vèspero e la 
Sera, altre due parti in cui diviso aveva l'autore il suo Giorno, 
se deggio prestar fede, né saprei negarla, ad un cortesissimo e 
dottissimo amico del Parini e mio, che, pregato, mi fu gentile di 
molti dettagli? Già da più lustri era a finimento condotta una 
quantità di grazìosissime dipinture, nelle quali prendeva l'ammae- 
strato a un tempo e celebrato eroe moltiplici, opportune, ben di- 
segnate e vivamente colorite attitudini, né altro quasi mancava 
che le pareti, per dir così, a cui si appendessero per formarne 
una amenissima galleria. Mentre però si accingeva ad ordinarle e 
coUcgarle insieme con transizioni e nodi, onde ne risultasse un 
tutto pieno di vaghezze e di armonia, eccoti che la sempre can- 
giante moda, le varie sociali ridicolosaggini, solite a collidersi di 
continuo e a dissiparsi vicendevolmente, rendevano inutile, perchè 



IL GIORNO. 121 

meii vera da un mese all'altro, or questa or quella dipintura, e 

poco nien che vana la fatica del Dipintore Oltre ciò, dal darvi 

l'ultima mano si ha ragion di credere che ritenuto fosse il Parini 
da due fortissime ragioni. L'una si fu il giusto timore d'increscere 
a taluno, cui la pubblica malignità, sempre intenta ad ingiuriose 
applicazioni non prevedute e noti sognate mai né dal comico né 
dal satirico poeta, indicava qual eroe del poema, e che, se avesse 
per disavventura quelle indegne voci ascoltate, prenderne poteva 
ben aspra e facii vendetta. L'altra derivar si deve dalla sua somma 
cagionevolezza, dalla diminuzion notabile di forze fisiche, a cui 
soggiaceva già da molt'anni il Parini, forze mal rispondenti alla 
energia ed al coraggio dell'animo, e che però non gli consentivano 
di sostenere un lungo lavoro „. 

Il Pozzetti narrava, meglio informato e con maggiore schiettezza 
di sentimento, in una lettera di risposta, datata da Modena, il 
18 maggio 1801 (pag. 46 ss.) : " Debbo richiamar di nuovo sull'au- 
tore la vostra attenzione. E ben volentieri, perché quanto son per 
esporvi onora il candore e la dignità del suo moral carattere. 
Parlo del motivo presente, dal quale ei protestava d'esser rimosso 
dal porre in ordine la Sera per divolgarla. A me dunque, che il 
pregava ad arrendersi al voto comune, togliendo dall'avaro scrigno 
quell'auree carte per donarle all'Italia bramosa, replicò risoluta- 
mente: sé aver cominciato fin dal decimo quarto giorno di maggio 
dell'anno mille settecento novanta sei a riguardare qual pretta 
viltà, niente men turpe che Vinsaevire in mortuuni, l'acconsentir, 
dopo tanto procrastinare, all'edizion d'uno scritto, ove si pungono 
di sarcasmo quelli singolarmente che nel gran corpo sociale for- 
mavano una classe distinta, di cui i politici cangiamenti soprag- 
giunti alloia nel proprio paese faccan veder manifesta la total 
decadenza. Di si luminose prove, che palesano l'integrità d'un'anima 
pura e dilicata, giova conservar la memoria nei fasti dei letterati, 
aftìne di purgarli il maglio possibile dalle tacce opposte, a cui 
non senza disdoro dell'eccelsa lor professione vanno essi talvolta 
soggetti „. 



IL MATTINO 

POEMETTO 



ALLA MODA 

Lungi da queste carte i cisposi occhj già da un secolo rintuz- 
zali, lungi i fluidi nasi de' malinconici vegliardi. Qui non si tratta 
di gravi miuisterj nella patria esercitati, non di severe leggi, non 
di annojante domestica economia, misero appannaggio della ca- 
nuta età. A te, vezzosissima Dea, die con sì dolci redine oggi tem- 
peri e governi la nostra brillante gioventù, a te sola questo piccolo 
Libretto si dedica e si consagra. Chi è che te qual sommo Nume 
oggi mai non riverisca ed onori, poiché in sì breve tempo se' giunta 
a debellar la ghiacciata Ragione, il pedante Buon Senso, e l'Ordine 
seccagginoso, tuoi capitali nemici, ed hai sciolto dagli antichissimi 
lacci questo secolo avventurato? Piacciati adunque di accogliere 
sotto alla tua protezione, che forse non n'è indegno, questo pic- 
colo Poemetto. Tu il reca su i pacifici altari, ove le gentili Dame 
e gli amabili Garzoni sagrificano a se medesimi le mattutine ore. 
Di ((uesto solo egli è vago, e di questo solo andrà superbo e con- 
tento. Per esserti più caro egli ha scosso il giogo della servile 
rima, e se ne va libero in versi sciolti, sapendo che tu di questi 
specialmente ora godi e ti compiaci. Esso non aspira all'immor- 
talità, come altri libri, troppo lusingati da' loro Autori, che tu, re- 
pentinamente sopravvenendo, hai sepelliti nell'oblio. Siccome egli 
è per te nato, e consagrato a le sola, così fie pago di vivere quel 
solo momento che tu ti mostri sotto un medesimo aspalto, e pensi 
a cangiarti e risorgere in più graziose forme. Se a te piacerà di 
riguardare con placid'occhio questo Mattino, forse gli succede- 
ranno il Mezzogiorno e la Sera; e il loro Autore si studierà di 
comporli ed ornarli in modo, che non men di questo abbiano ad 
esserti cari. 



Giovin Signore, o a te scenda per lungo 
Di magnanimi lombi ordine il sangue 
Purissimo celeste, o in te del sangue 
Emendino il difetto i compri onori 
E le adunate in terra o in mar ricchezze 
Dal genitor frugale in pochi lustri, 
Me Precettor d'amabil Rito ascolta. 

Come ingannar questi nojosi e lenti 
Giorni di vita cui si lungo tedio 
E fastidio insoffribile accompagna, 
Or io t'insegnerò. Quali al Mattino, , 
Quai dopo il Mezzodì, quali la Sera 
Esser debban tue cure apprenderai, 
Se in mezzo a gli ozj tuoi ozio ti resta 
Pur di tender gli orecchi a' versi miei. 

Già Tare a Vener sacre e al giocatore 
Mercurio ne le Gallie e in Albione 
Devotamente hai visitate, e porti 
Pur anco i segni del tuo zelo impressi: 
Ora è tempo di posa. In vano Marte 
A sé t'invita; che ben folle è quegli 
Che a rischio de la vita onor si merca, 
E tu naturalmente il sangue abborri. 
Né i mesti de la dea Pallade studj 
Ti son meno odiosi: avverso ad essi 
Ti feron troppo i queruli ricinti, 
Ove l'arti migliori e le scienze. 
Cangiate in mostri e in vane orride larve, 
Fan le capaci volte echeggiar sempre 
Di giovanili strida. Or primamente 



126 IL GIORNO (v. 31-70). 

Odi quali il Mattino a te soavi 
Cure debba guidar con facil mano. 

Sorge il Mattino in compagnia dell'Alba 
Innanzi al Sol, che di poi grande appare 
Su Testremo orizzonte a render lieti 
Gli animali e le piante e i campi e Tonde. 
Allora il buon villan sorge dal caro 
Letto cui la fedel sposa e i minori 
Suoi figlioletti intiepidir la notte; 
Poi sul collo recando i sacri arnesi 
Che prima ritrovar Cerere e Pale, 
Va, col bue lento innanzi, al campo, e scuote 
Lungo il picciol sentier da' curvi rami 
Il rugiadoso umor che, quasi gemma, 
I nascenti del Sol raggi rifrange. 
Allora sorge il fabbro, e la sonante 
Officina riapre, e all'opre torna 
L'altro di non perfette: o se di chiave 
Ardua e ferrati ingegni airinquieto 
Ricco l'arche assecura, o se d'argento 
E d'oro incider vuol giojelli e vasi 
Per ornamento a nuove spose o a mense. 

Ma che? tu inorridisci, e mostri in capo, 
Qual istrice pungente, irti i capegli 
Al suon di mie parole? Ah non è questo, 
Signore, il tuo mattin ! Tu col cadente 
Sol non sedesti a parca mensa, e al lume 
Dell'incerto crepuscolo non gisti 
Jori a corcarti in male agiate piume , 
Come dannato è a far l'umile vulgo. 
A voi, celeste prole, a voi, concilio 
Di Semidei terreni, altro concesse 
Giove benigno; e con altr'arti e leggi 
Per novo calle a me convien guidarvi. 

Tu tra le veglie e le canore scene 
E il patetico gioco, oltre più assai 
Producesti la notte; e stanco alfine, 
In aureo cocchio, col fragor di calde 
Precipitose rote e il calpestio 
Di volanti corsier, lunge agitasti 



IL MATTINO (V. 71-110). 127 

Il queto aere notturno, e le tenèbre 
Con fiaccole superbe intorno apristi: 
Siccome allor che il Siculo terreno 
Dall'uno all'altro mar rimbombar feo 
Pluto col carro a cui splendeano innanzi 
Le tede de le Furie. anguicrinite. 

Cosi tornasti a la magion; ma quivi 
A novi studj ti attendea la mensa 
Cui ricoprien pruriginosi cibi 
E licor lieti di Francesi colli 
O d'Ispani o di Toschi, o TOngarese 
Bottiglia a cui di verde edera Bacco 
Concedette corona, e disse: siedi 
De le mense reina. Alfine il Sonno 
Ti sprimacciò le morbide coltrici 
Di propria mano, ove, te accolto, il fido 
Servo calò le seriche cortine; 
E a te soavemente i lumi chiuse 
Il gallo che li suole aprire altrui. 

Dritto è perciò che a te gli stanchi sensi 
Non sciolga da* papaveri tenaci 
Morfèo, prima che già grande il giorno 
Tenti di penetrar fra gli spiragli 
De le dorate imposte, e la parete 
Fingano a stento in alcun lato i raggi 
Del Sol ch'eccelso a te pende sul capo. 
Or qui principio le leggiadre cure 
Denno aver del tuo giorno ; e quinci io debbo 
Sciorre il mio legno, e co' precetti miei 
Te ad alte imprese ammaestrar cantando. 

Già i valetti gentili udir lo squillo 
Del vicino metal cui da lontano 
Scosse tua man col propagato moto; 
E accorser pronti a spalancar gli opposti 
Schermi a la luce, e rigidi osserverò 
Che con tua pena non osasse Febo 
Entrar diretto a saettarti i lumi. 
Èrgiti or tu alcun poco, e si ti appoggia 
Alli origlieri i quai lenti gradando 
All'omero ti fan molle soste£:no. 



128 IL GIORNO (v. 111-150). 

Poi coirindice destro, lieve lieve 
Sopra gli occhi scorrendo, indi dilegua 
Quel che riman de la Cimmeria nebbia; 
E de' labbri formando un picciol arco, 
Dolce a vedersi, tacito sbadiglia. 
Oh se te in si gentile atto mirasse 
11 duro capitan qualor tra Tarmi, 
Sgangherando le labbra, innalza un grido 
Lacerator di ben costrutti orecchi, 
Onde a le squadre varj moti impone; 
Se te mirasse allor, certo vergogna 
Avria di sé, più che Minerva il giorno 
Che, di flauto sonando, al fonte scorse 
Il turpe aspetto de le guance enfiate! 

Ma già il ben pettinato entrar di nuovo 
Tuo damigello i' veggo. Egli a te chiede 
Quale oggi più de le bevande usate 
Sorbir ti piaccia in preziosa tazza. 
Indiche merci son tazze e bevande: 
Scegli qual più desii. S'oggi ti giova 
Porger dolci allo stomaco fomenti, 
Si che con legge il naturai calore 
V'arda temprato, e al digerir ti vaglia^ 
Scegli il brun cioccolatte onde tributo 
Ti dà il Guatimalese e il Garibéo 
dia di barbare penne avvolto il crine; 
Ma se nojosa ipocondria t'opprime, 
O troppo intorno a le vezzose membra 
Adipe cresce, de' tuoi labbri onora 
La nettarea bevanda ove abbronzato 
Fuma et arde il legume a te d'Aleppo 
Giunto e da Moca, che di mille navi 
Popolata mai sempre insuperbisce. 

Gcrto fu d'uopo che dal prisco seggio 
Uscisse un Regno, e con ardite vele 
Fra straniere procelle e novi mostri 
E teme e rischi ed inumane fami 
Superasse i con fin per lunga etade 
Inviolati ancora; e ben fu dritto 
Se Cortes e Pizzarro umano sangue 



IL MATTINO (v. 151-176). 129 

Non istimàr quel ch'oltre TOceàno 
Scorrea le umane membra, onde tonando 
E fulminando alfin spietatamente 
Balzaron giù da* loro aviti troni 
Re Messicani e generosi Incassi: 
Poiché nuove cosi venner delizie, 
O gemma de gli eroi, al tuo palato. 

Gessi '1 Cielo però che, in quel momento 
Che la scelta bevanda a sorbir prendi, 
Servo indiscreto a te improvviso annunzj 
Il villano sartor che, non ben pago 
D'aver teco diviso i ricchi drappi, 
Oso sia ancor con pòlizza infinita * 
A te chieder mercede. Ahimè, che fatto 
Quel salutar licore agro e indigesto 
Tra le viscere tue, te allor farebbe 
E in casa e fuori e nel teatro e al corso 
Ruttar plebejamente il giorno intero I 

Ma non attenda già ch'altri lo annunzj, 
Gradito ognor benché improvviso, il dolce 
Mastro che i piedi tuoi come a lui pare 
Guida e corregge. Egli all'entrar si fermi 
Ritto sul limitare, indi elevando 
Ambe le spalle, qual testudo il collo 
Contragga alquanto ; e ad un medesmo tempo 
Inchini '1 mento, e con l'estrema falda 



* Nei manoscritti continua cosi: " Fastidirti la mente; o di lugubri 
Panni ravvolto il garrulo forense Cui de' paterni tuoi campi e 
tesori 11 periglio s'affida [si affida]', o il tuo castaido Che giù 
con l'alba a la città discese Bianco di gelo mattutin la chioma. 
Cosi zotica pompa i tuoi maggiori Al di nascente si vedean din- 
torno : Ma tu, gran prole, in cui si féo scendendo E più mo- 
bile il senso e più gentile, Ali [Deh] sul primo tornar de' lievi 
spirti All'ufficio diurno, ali [All'ufficio del di, deh] non ferirli 
13 immagini sì sconce. Or come i detti Di costor soffrirai bar- 
bari e rudi; Come il penoso articolar di voci. Smarrite, titu- 
banti al tuo cospetto; E tra l'obliquo profondar d'inchini, Del 
calzar polveroso in su i tappeti Le impresse orme indecenti?... „ 
Ovvero: "Or come i detti, Come il penoso articolar di voci 
Smarrite titubanti al tuo cospetto; E tra l'obliquo profondar 
d' inchini, Del calzar polveroso in su i tappeti Le impresse 
orme .:gtgftr jjre? Ahimè, che fatto.... , 



130 IL GIORNO (v. 177-210). 

Del piumato cappello il labbro tocchi. 

Non meno di costui facile al letto 
Del mio Signor t'accosta, o tu che addestri 
A modular con la flessibil voce 
Teneri canti, e tu che mostri altrui 
Come vibrar con maestrevol arco 
Sul cavo legno armoniose fila. 

Nò la squisita a terminar corona 
Dintorno al letto tuo manchi, o Signore, 
Il precettor del tenero idioma 
Che da la Senna de le Grazie madre 
Or ora a sparger di celeste ambrosia 
Venne a Tltalia nauseata i labbri. 
A rapparir di lui l'Itale voci 
Tronche cedano il campo al lor tiranno; 
E a la nova ineffabile armonia 
De' soprumani accenti, odio ti nasca 
Più grande in sen contro a le impure labbra 
Gh'osan macchiarse ancor di quel sermone 
Onde in Valchiusa fu lodata e pianta 
Già la bella Francese, et onde i campi 
A l'orecchio dei Re cantati furo 
'Lungo il fonte gentil da le bell'acque.' * 
Misere labbra che temprar non sanno 
Con le Galliche grazie il sermon nostro. 
Si che men aspro a' dilicati spirti 
E men barbaro suon fieda gli orecchi! 

Or te questa, o Signor, leggiadra schiera 
Trattenga al novo giorno, e di tue voglie 
Irresolute ancora or l'uno or Taltro 
Con piacevoli detti il vano occupi. 
Mentre tu chiedi lor, tra i lenti sorsi 
Dell'ardente bevanda, a qual cantore 
Nel vicin verno si darà la palma 



* Alamanni, Coltivazione, e. V, v. 19. Cfr. Parini, Op., VI, 205: 
" Ma Luigi Alamanni, scrittore di cose liriche, di satire, di tragedie 
e di poemi, merita spezialmente d'essere studiato come uno degli 
ottimi. 11 suo poema della Coltivazione è testo insieme della lingua, 
della poesia e della letteratura itaUana, ed una delle opere che è 
vergogna di non aver mai letto „. 



IL MATTINO (V. 211-250). 131 

Sopra le scene; e s'egli è il ver che rieda 
L'astuta Frine che ben cento folli 
Milordi rimandò nudi al Tamigi; 
O se il brillante danzator Narcisso 
Tornerà pure ad agghiacciare i petti 
De' palpitanti Italici mariti. 

Poiché cosi gran pezzo a' primi albori 
Del tuo mattin teco scherzato fia, 
Non senz'aver licenziato prima 
L'ipocrita pudore e quella schifa 
Cui le accigliate gelide matrone 
Ghiaman modestia, alfine o a lor talento 
O da te congedati escan costoro. 
Doman si potrà poscia, o forse l'altro 
Giorno, a' precetti lor porgere orecchio, 
Se meno ch'oggi a te cure dintorno 
Porranno assedio. A voi, divina schiatta, 
Vie più che a noi mortali il ciel concesse 
Domabile midollo entro al cerébro, 
Si che breve lavor basta a stamparvi 
Novelle idee. In oltre a voi fu dato 
Tal de' sensi e de' nervi e de gli spirti 
Moto e struttura, che ad un tempo mille 
Penetrar puote e concepir vostr'alma 
Cose diverse, e non però turbarle 
O confonder giammai, ma scevre e chiare 
Ne' loro alberghi ricovrarle in mente. 
11 vulgo intanto, a cui non dessi il velo 
Aprir de' venerabili misterj, 
Fie pago assai, poi che vedrà sovente 
Ire e tornar dal tuo palagio i primi 
D'arte maestri, e con aperte fauci 
Stupefatto berrà le tue sentenze. 

Ma già vegg'io che le oziose lane 
Soffrir non puoi più lungamente, e in vano 
Te Tignavo tepor lusinga e molce, 
Però che or te più gloriosi affanni 
Aspettan, l'ore a trapassar del giorno. 

Su dunque, o voi del primo ordine servi 

' Che de gli alti Signor ministri al fianco 



132 IL GIORNO (v. 251-290). 

Siete incontaminati, or dunque voi 
Al mio divino Achille, al mio Rinaldo, 
L'armi apprestate. Ed ecco in un baleno 
1 tuoi valetti a' cenni tuoi star pronti. 
Già ferve il gran lavoro. Altri ti veste 
La serica zimarra ove disegno 
Diramasi Ghinese, altri, se il chiede 
Più la stagione, a te le membra copre 
Di stese infino al pie tiepide pelli; 
Questi al fianco ti adatta il bianco lino 
Che sciorinato poi cada e difenda 

I calzonetti, e quei, d'alto curvando 

II cristallino rostro, in su le mani 

Ti versa acque odorate, e da le mani 
In limpido bacin sotto le accoglie ; 
Quale il sapon del redivivo muschio 
Olezzante all'intorno, e qual ti porge 
Il macinato di quellarbor frutto 
Che a Ròdope fu già vaga donzella, 
E chiama in van, sotto mutate spoglie, 
Demofoonte ancor, Demofoonte; 
L'un di soavi essenze intrisa spugna 
Onde tergere i denti, e l'altro appresta 
Ad imbianchir le guance util licore. 
Assai pensasti a te medesmo; or volgi 
Le tue cure per poco ad altro obbietto 
Non indegno di le. Sai che compagna 
Gon cui divider possa il lungo peso 
Di quest'inerte vita il Giel destina 
Al giovane Signore. Impallidisci? 
No, non parlo di nozze: antiquo e vieto 
Dottor sarei se cosi folle io dessi 
A te consiglio. Di tant'alte doti 
Tu non orni cosi lo spirto e i membri 
Perclìè in mezzo a la tua nobil carriera 
Sospender debbi 'l corso, e fuora uscendo 
Di cotesto a ragion detto Bel Mondo^ 
In tra i severi di famiglia padri 
Relegato ti giacci, a un nodo avvinto 
Di giorno in giorno più penoso, e fatto 



IL MATTINO (v. 291-330). 133 

stallone ignobil de la razza umana. 
D'altra parte il Marito ahi quanto spiace; 
E lo stomaco move ai dilicati 
Del vosir Orbe leggiadro abitatori 
Qualor de' semplicetti àvoli nostri 
Portar osa in ridicolo trionfo 
La rimbambita Fe\ la Pudicizia, 
Severi nomi! E qual non suole a forza 
In que' melati seni eccitar bile, 
Quando i calcoli vili del castaido, 
Le vendemmie, i ricolti, i pedagoghi 
Di que' si dolci suoi bambini, altrui 
Gongolando ricorda; e non vergogna 
Di mischiar cotai fole a peregrini 
Subbietti, a nuove del dir forme, a sciolti 
Da volgar fren concetti, onde s'avviva 
Da' begli spirti il vostro amabil Globo ! 
Péra dunque chi a te nozze consiglia! 
Ma non però senza compagna andrai. 
Che fìa giovane dama, e d'altrui sposa: 
Poiché si vuole inviolabil rito 
Del Bel Mondo onde tu se' cittadino. 
Tempo già fu che il pargoletto Amore 
Dato era in guardia al suo fratello Imene; 
Poiché la madre lor temea che il cieco 
Incauto Nume perigliando gisse 
Misero e solo per oblique vie, 
E che, bersaglio agl'indiscreti colpi 
Di senza guida e senza freno arciero, 
Troppo immaturo al fin corresse il seme 
Uman ch'é nato a dominar la terra. 
Perciò la prole mal secura all'altra 
In cura dato avea, si lor dicendo: 
Ite, o figli, del par: tu, più possente. 
Il dardo scocca ; e tu, più cauto, il guida 
A certa méta. Cosi ognor compagna 
Iva la dolce coppia, e in un sol regno 
E d'un nodo comun l'alme stringea. 
Allora fu che il Sol mai sempre uniti 
Vedea un pastore ed una pastorella 



134 IL GIORNO (v. 331-370). 

Starsi al prato, a la selva, al colle, al fonte; 
E la Suora di lui vedéali poi 
Uniti ancor nel talamo beato, 
Ch'ambo gli amici Numi a piene mani 
Gareggiando spargean di gigli e rose. 
Ma che non puote anco in divino petto, 
Se mai s'accende, ambizion di regno ? 
Grebber l'ali ad Amore a poco a poco, 
E la forza con esse; ed è la forza 
Unica e sola del regnar maestra. 
Perciò a poc'aere prima, indi più ardito 
A vie maggior fìdossi, e fiero alfine 
Entrò nell'alto, e il grande arco crollando 
E il capo, risonar fece a quel moto 
Il duro acciar che la faretra a tergo 
Gli empie, e gridò: Solo regnar vogl'io ! 
Disse, e volto a la madre: Amore adunque. 
Il più possente infra gli Dei, il primo 
Di Gite rèa figli uol, ricever leggi, 
E dal minor german ricever leggi. 
Vile alunno, anzi servo? Or dunque Amore 
Non oserà fuor ch'una unica volta 
Ferire un'alma, come questo schifo 
Da me vorrebbe? E non potrò giammai, 
Dappoi ch'io strinsi un laccio, anco slegarlo 
A mio talento, e qualor parmi un altro 
Stringerne ancora? E lascerò pur ch'egli 
Di suoi unguenti impeci a me i miei dardi. 
Perchè men velenosi e men crudeli 
Scendano ai petti ? Or via, perché non togli 
A me da le mie man quest'arco e queste 
Armi da le mie spalle, e ignudo lasci. 
Quasi rifiuto de gli Dei, Cupido? 
Oh il bel viver che fia qualor tu solo 
Regni in mio loco! Oh il bel vederti, lasso! 
Studiarti a torre da le languid'alme 
La stanchezza e '1 fastidio, e spander gelo 
Di foco in vece! Or, genitrice, intendi: 
Vaglio, e vo' regnar solo! A tuo piacere 
Tra noi parti l'impero, ond'io con teco 



IL MATTINO (v. 371-410). 135 

Abbia ornai pace, e in compagnia d'Imene 
Me non trovin mai più le umane genti. 
Qui tacque Amore, e minaccioso in atto. 
Parve all'Idalia Dea chieder risposta. 
Ella tenta placarlo, e pianti e preghi 
Sparge, ma in vano; onde a* due tìgli volta. 
Con questo dir pose al contender fine: 
Poiché nulla tra voi pace esser puote, 
Si dividano i regni. E perchè l'uno 
Sia dall'altro germano ognor disgiunto, 
Sieno tra voi diversi e '1 tempo e l'opra. 
Tu che di strali altero a fren non cedi, 
L'alme ferisci, e tutto il giorno impera; 
E tu che di fior placidi hai corona, 
Le salme accoppia, e coU'ardente face 
Regna la notte. — Ora di qui, Signore, 
Venne il rito gentil che a' freddi sposi 
Le tenebre concede, e de le spose 
Le caste membra; e a voi, beata gente 
Di più nobile mondo, il cor di queste 
E il dominio del di largo destina. 
Fors'anco un di più liberal confine 
Vostri diritti avran, se Amor più forte 
Qualche provincia al suo germano usurpa: 
Cosi giova sperar! •— Tu volgi intanto 
A' miei versi l'orecchio, et odi or quale 
Cura al mattin tu debbi aver di lei 
Che, spontanea o pregata, a te donossi 
Per tua Dama quel di lieto che a fida 
Carta, non senza testimonj, furo 
A vicenda commessi i patti santi 
E le condizion del caro nodo. 
Già la Dama gentil, de' cui bei lacci 
Godi avvinto sembrar, le chiare luci 
Col novo giorno aperse; e suo primiero 
Pensier fu dove teco abbia piuttosto 
A vegliar questa sera, e consultonne 
Contegnosa lo sposo, il qual pur dianzi 
Fu la mano a baciarle in stanza ammesso. 
Or dunque è tempo che il più fido servo 



136 IL GIORNO (v. 411-450). 

E il più accorto tra i tuoi mandi al palagio 
Di lei chiedendo se tranquilli sonni 
Bormio la notte, e se d'imagin liete 
Le fu Morfèo cortese. È ver che jeri 
Sera tu Tammirasti in viso tinta 
Di freschissime rose, e più che mai 
Vivace e lieta uscio teco del cocchio, 
E la vigile tua mano per vezzo 
Ricusò sorridendo allor che l'ampie 
Scale sali del maritale albergo; 
Ma ciò non basti ad acquetarti, e mai 
Non obliar si giusti ufìci. Ahi quanti 
Genj malvagi tra '1 notturno orrore 
Godono uscire ed empier di perigli 
La placida quiete de' mortali! 
Potria, tòlgalo il Cielo, il picciol cane 
Con latrati improvvisi i cari sogni 
Troncare a la tua Dama, ond'ella, scossa 
Da subito capriccio, a rannicchiarsi 
Astretta fosse, di sudor gelato 
E la fronte bagnando e il guancial molle. 
Anco potria colui, che si de' tristi 
Come de' lieti sogni é genitore, 
Crearle in mente di diverse idee 
In un congiunte orribile chimera. 
Onde agitata in ansioso affanno 
Gridar tentasse, e non però potesse 
Aprire ai gridi tra le fauci il varco. 
Sovente ancor ne la trascorsa sera 
La perduta tra '1 gioco aurea moneta, 
Non men che al Cavalier, suole a la Dama 
Lunga vigilia cagionar; talora 
Nobile invidia de la bella amica 
Vagheggiata da molti, e talor breve 
Gelosia n'é cagione. A questo aggiugni 
Gl'importuni mariti, i quali in mente 
Ravvolgendosi ancor le viete usanze. 
Poi che cèssero ad altri il giorno, quasi 
Abbian fatto gran cosa, aman d'Imene 
Con superstizion serbare i dritti, 



IL MATTINO (v. 451-474). 137 

E deiro rubre notturne esser tiranni 
Non senz'affanno de le caste spose, 
Gii'indi preveggon tra pochi anni il fiore 
De la fresca beltade a sé rapirsi. 

Or dunque, ammaestrato a quali e quanti 
Miseri casi espor soglia il notturno 
Orror le Dame, tu non esser lento, 
Signore, a chieder de la tua novelle. 

Mentre che il fido messaggier si attende, 
Magnanimo Signor, tu non starai 
Ozioso però. Nel dolce campo 
Pur in questo momento il buon cultore 
Suda, e incallisce al vòmere la mano. 
Lieto che i suoi sudor ti fruttin poi 
Dorati cocchi e peregrine mense. 
Ora per te l'industre artier sta fiso 
Allo scarpello, all'asce, al subbio, all'ago; 
Ed ora a tuo favor contende o veglia 
Il ministro di Temi. Ecco, te pure. 
Te la toilette attende: ivi i bei pregi 
De la natura accrescerai con l'arte, 
Ond'oggi, uscendo, del beante aspetto 
Beneficar potrai le genti, e grato 
Ricompensar di sue fatiche il mondo. * 



* Brano aggiunto nei manoscriUi: " Ogni cosa è già pronta. Ali un 
de' lati Crepitar s'odon le fiammanti brage Ove si scalda in- 
dustrioso e vario Di ferri arnese a moderar del fronte Gl'in- 
docili capei. Stuolo d'Amori Invisibil sul foco agita i vanni, E 
per entro vi soffia alto gonfiando Ambe le gote. Altri di lor v'ap- 
pressa Pauroso la destra, e prestamente Ne rapisce un de' 
ferri; altri rapito Tenta com'arda, in su l'estrema cima So- 
spendendol dell'ala; e cauto attende Pur se la piuma si con- 
tragga o fumé; Altri un altro ne scote, e de le ceneri Filiggi- 
nose il ripulisce e terge. Tali a le vampe dell'Etnèa fucina, Sor- 
ridente la madre, i vaghi Amori Eran ministri all'ingegnoso 
fabbro; E sotto a i colpi del martel frattanto L'elmo sorgea 
del fondalor Latino. All'altro lato con la man rosata [le man 
rosate] Como, e di fiori inghirlandato il crine [i7 capo], I bissi 
scopre ove d'idalj arredi Almo tesor la tavoletta espone. Ivi e 
nappi eleganti e di canori Cigni morbide piume; ivi raccolti 
Di lucide odorate onde vapori; Ivi di polvi fuggitive al tatto. 
Color diversi ad imitar d'Apollo [Color diversi, o se imitar nel 



1:38 IL GIORNO (v. 475-409). 

Ma già tre volte e quattro il mio Signore 
Velocemente il gabinetto scorse 
Gol crin disciolto e su gli omeri sparso: 
Quale a Guma solea Torribil maga 
Quando agitata dal possente Nume 
Vaticinar s'udia. Cosi dal capo 
Evaporar lasciò de gli olj sparsi 
Il nocivo fermento e de le polvi 
Glie roder gli potrien la molle cute, 
O d'atroce emicrania a lui le tempie 
Trafigger anco. Or egli avvolto in lino 
Gandido siede. Avanti a lui lo specchio 
Altero sembra di raccor nel seno 
L'imagin diva; e stassi agli occhi suoi 
Severo esplorator de la tua mano, 
O di bel crin volubile architetto. 
Mille d'intorno a lui volano odori 
Ghe a le varie manteche ama rapire 
L'auretta dolce, intorno ai vasi ugnendo 
Le leggerissim'ale di farfalla. 
Tu chiedi in prima a lui qual più gli aggrada 
Sparger sul crin, se il gelsomino, o il biondo 
Fior d'arancio piuttosto, o la giunchiglia, 
O l'ambra preziosa agli avi nostri. 
Ma se la sposa altrui, cara al Signore, 



crine D' Apolline tu vuoi l'aurato biondo, O il biondo cenerin che 
de le Muse Scende a le spalle tenero e gentile.... Color diversi, o 
se l'aurato biondo Ami d'Apollo, o se il cinereo biondo Vuoi de 
le Muse assomigliar nel crine.] L'aurato biondo o il biondo cene- 
rino Glie de le sacre Muse in su le spalle Casca ondeggiando 
tenero e gentile. Che se a nobile eroe le fresche labbra [Che se 
stamane a te le fresche labbra.... E se fia mai che a te le fresche 
labbra] Repentino spirar di rigid'aura Offese [O/fenda] alquanto, 
v'è stemprato il seme De la fredda cucurbita; e se mai Palli- 
detto ei [Pallidetto ti scorgi] si scorga, è pronto aU'uopo, Arcano 
a gli altri eroi, vago cinabro. Né quando a un semideo spuntar 
sul volto [xVè quando al naso tuo spuntare, o al fronte] Pìlstula 
temeraria osa pur fosse. Multiforme di nei copia vi manca, On- 
d'ei Tasconda [Onde la celi] in sul momento, ed esca Più peri- 
glioso a saettar co i guardi Le belle inavvedute : a guerrier pari 
Che, già poste le bende a la ferita. Più glorioso e furibondo in- 
sieme. Sbaragliando le schiere, entra nel folto. , 



IL MATTINO (v. 500-539). 139 

Del talamo nuzial si duole, e scosse 
Pur or da lungo peso il molle lombo, 
Ah fuggi allor tutti gli odori, ah fuggi; 
Che micidial potresti a un sol momento 
Tre vite insidiar. Semplici sieno 

I tuoi balsami allor, né oprarli ardisci 
Pria che su lor deciso abbian le nari 
Del mio Signore e tuo. Pon mano poscia 
Al pettin liscio, e coU'ottuso dente 

Lieve solca i capegli; indi li turba 
Gol pettine e scompiglia: ordin leggiadro 
Abbiano alfin da la tua mente industre. 
Io breve a te parlai; ma non pertanto 
Lunga fia l'opra tua; né al termin giunta 
Prima sarà, che da più strani eventi 
Turbisi e tronchi a la tua impresa il filo. 
Fisa i lumi allo speglio, e vedrai quivi 
Non di rado il Signor morder le labbra 
Impaziente, ed arrossir nel viso. 
Sovente ancor, se artificiosa meno 
Fia la tua destra, del convulso piede 
Udrai lo scalpitar breve e frequente, 
Non senza un tronco articolar di voce 
Che condanni e minacci. Anco t'aspetta 
Veder talvolta il mio Signor gentile 
Furiando agitarsi, e destra e manca 
Porsi nel crine, e scompigliar con l'ugna 
Lo studio di molt'ore in un momento. 
Che più ? Se per tuo male un di vaghezza 
D'accordar ti prendesse al suo sembiante 
L'edificio del capo, ed obliassi 
Di prender legge da colui che giunse 
Pur jer di Francia, ahi quale atroce folgore. 
Meschino! allor ti penderla sul capo! 
Che il tuo Signor vedresti ergers' in piedi; 
E versando per gli occhi ira e dispetto. 
Mille strazj imprecarti; e scender fino 
Ad usurpar le infami voci al vulgo 
Per farti onta maggiore; e di bastone 

II tergo minacciarti; e violento 



140 IL GIORNO (v. 540-579). 

Rovesciare ogni cosa, al suol spargendo 
Rotti cristalli e calamistri e vasi 
E pettini ad un tempo. In cotal guisa, 
Se del Tonante all'ara o de la Dea 
Che ricovrò dal Nilo il turpe Phallo, 
Tauro spezzava i raddoppiati nodi 
E libero fuggia, vedeansi al suolo 
Vibrar tripodi, tazze, bende, scuri, 
Litui, coltelli, e d'orridi muggiti 
Commosse rimbombar le arcate volte, 
E d'ogni lato astanti e sacerdoti, 
Pallidi, all'urto e all'impeto involarsi 
Del feroce animai, che pria si queto 
Già di fior cinto, e sotto a la man sacra 
Umiliava le dorate corna. 
Tu non pertanto coraggioso e forte 
Soffri, e ti serba a la miglior fortuna. 
Quasi foco di paglia é il foco d'ira 
In nobil cor. Tosto il Signor vedrai 
Mansuefatto a te chieder perdono, 
E sollevarti oltr'ogni altro mortale 
Con preghi e scuse a niun altro concesse; 
Onde securo sacerdote allora 
L'immolerai qual vittima a Filauzìo, 
Sommo Nume de' Grandi, e pria d'ognaltro 
Larga otterrai del tuo lavor mercede. 
Or, Signore, a te riedo. Ah non sia colpa 
Dinanzi a te s'io traviai col verso. 
Breve parlando ad un mortai cui degni 
Tu degli arcani tuoi. Sai che a sua voglia 
Questi ogni di volge e governa i capi 
De' più felici spirti; e le matrone, 
Che da' sublimi cocchi alto disdegnano 
Volgere il guardo a la pedestre turba, 
Non disdegnan sovente entrar con lui 
In festevoli motti, allor ch'esposti 
A la sua man sono i ridenti avorj 
Del bel collo, e del crin l'aureo volume. 
Perciò accogli, ti prego, i versi miei 
Tuttor benigno; et odi or come possi 



IL MATTINO (v. 580-614). 141 

L'ore a te render graziose, mentre 
Dal pettin creator tua chioma acquista 
Leggiadra o almen non più veduta forma. 

Picciol libro elegante a te dinanzi 
Tra gli arnesi vedrai che Parte aduna 
Per disputare a la natura il vanto 
Del renderti si caro agli occhi altrui. 
Ei ti lusingherà forse con liscia 
Purpurea pelle, onde fornito avrallo 
O Mauri tano conciatore o Siro; 
E d'oro fregi dilicati, e vago 
Mutabile color che il collo imiti 
De la colomba, v'avrà posto intorno 
Squisito legator Batavo o Franco. * 
Ora il libro gentil con lenta mano 
Togli; e non senza sbadigliare un poco, 
Aprilo a caso, o pur là dove il parta 
Tra una pagina e l'altra indice nastro. 

O de la Francia Proteo multiforme, 

Voltaire^ troppo biasmato e troppo a torto 
Lodato ancor, che sai con novi modi 
Imbandir ne' tuoi scritti eterno cibo 
Ai semplici palati, e se' maestro 
Di coloro che mostran di sapere, ** 
Tu appresta al mio Signor leggiadri studj 
Con quella tua Fanciulla agli Angli infesta 
Che il grande Enrico tuo vince d'assai: 
L'Enrico tuo che non peranco abbatte 
L'Itallan Goffredo, ardito scoglio 
Contro a la Senna d'ogni vanto altera. 
Tu de la Francia onor, tu in mille scritti 
Celebrata Ninon novella Aspasia, 
Taide novella ai facili sapienti 
De la Gallica Atene, i tuoi precetti 
Pur dona al mio Signore; e a lui non meno 

* Nei manoscriUi prosegue: * E forse incisa con venereo stile Vi 
fia serie d'iniaginì interposta, Lavor che vince la materia, e donde 
Fia che nel cor ti si ridesti e viva La stanca di piaceri ottusa 
voglia. , 

** Cfr. Mezzogiorno, v. 940 ss. 



142 IL GIORNO (v. 615-647). 

Pasci la nobil mente, o tu cli'a Italia, 
Poi che rapirle i tuoi l'oro e le gemme, 
Invidiasti il fedo loto ancora 
Onde macchiato è il Certaldese, e Taltro 
Per cui va si famoso il pazzo Conte. * 

Questi, Signore, i tuoi studiati autori 
Fieno, e mill'altri che guidàro in Francia 
A novellar con le vezzose schiave 
I bendati Sultani, i regi Persi, 
E le peregrinanti Arabe dame, 
O che con penna liberale ai cani 
Ragion donàro e ai barbari sedili, 
E dier feste e conviti e liete scene 
Ai polli ed a le gru d'amor maestre. ** 

Oh pascol degno d'anima sublime! 
Oh chiara, oh nobil mente! A te ben dritto 
È che si curvi riverente il vulgo, 
E gli oracoli attenda. Or chi fia dunque 
Si temerario che in suo cor ti beffi 
Qualor partendo da si begli studj 
Del tuo paese l'ignoranza accusi, 
E tenti aprir col tuo felice raggio 
La Gotica caligine che annosa 
Siede su gli occhi a le misere genti? 
Cosi non mai ti venga estranea cura 
Questi a troncar si preziosi istanti 
In cui non meno de la docil chioma 
Coltivi ed orni il penetrante ingegno. 

Non pertanto avverrà che tu sospenda 
Quindi a pochi mo nienti i cari studj, 
E che ad altro ti volga. A te quest'ora 
Condurrà il Merciajuol, che in patria or torna 
Pronto inventor di lusinghiere fole, 



* Il La Fontainc rifece in versi alcune novelle del Decamerone, 
e tre ne desunse dall'Or/ando Furioso (e. 28 e 43) : la Joconde, la 
Coupé enchantée, Le cliieii qui sécoue de l'argeiU et des pierreri^s. 
(Cfr. B. CoTRONEi, La Fontaine e Ariosto, Catania, 1890). 

'* Le Lettres Persanes (1721) del Montesquieu, le Leltres Turques 
del Saìnt-Foìx (ni. 1776;, le 3fi7/e e una notte tradotte dal Galland 
(1704-1717), il Sopha del Crébillon figlio (1745), ecc. ecc. 



IL MATTINO (v. 648-687). 143 

E liberal di forestieri nomi 
A merci che non mai varcàro i monti. 
Tu a lui credi ogni detto: e chi vuoi ch'osi 
Unqua mentire ad un tuo pari i)i faccia? 
Ei fia che venda, se a te piace, o cambj 
Mille fregi e giojelli, a cui la moda 
Di viver concedette un giorno intero 
Tra le folte d'inezie illustri tasche. 
Poi lieto se n'andrà con l'una mano 
Pesante di molt'oro; e in cor giojendo, 
Spregerà le bestemmie imprecatrici, 
E il gittato lavoro, e i vani passi 
Del Galzolar diserto e del Drappiere; 
E dirà lor: Ben degna pena avete, 
O troppo ancor religiosi servi 
De la Necessitade, antiqua é vero 
Madre e donna dell'arti, or nondimeno 
Fatta cenciosa e vile. Al suo possente 
Amabil vincitor v'era assai meglio, 
miseri, ubbidire. Il Lusso, il Lusso 
Oggi sol puote dal ferace corno 
Versar su l'arti a lui vassalle applausi 
E non contesi mai premj e dovizie. 

L'ora fia questa ancor che a te conduca 
Il dilicato Miniator di Belle, 
Gh'è de la Corte d'Amatunta e Pafo 
Stipendiato ministro, atto a gli afTari 
Sollecitar dell'amorosa Dea. 
Impaziente or tu l'affretta e sprona 
Perchè a te porga il desiato avorio 
Che de le amate forme impresso ride: 
O che il pennel cortese ivi dispieghi 
L'alme sembianze del tuo viso, ond'abbia 
Tacito pasco allor che te non vede 
La pudica d'altrui sposa a te cara; 
() che di lei medesma al vivo esprima 
L'imagin vaga; o se ti piace, ancora 
D'altra fiamma furtiva a te presenti 
Con più largo confin le amiche membra. 

Ma poi che al fine a le tue luci esposto 



144 IL GIORNO (v. 688-727). 

Fia il ritratto gentil, tu cauto osserva 
Se bene il simulato al ver risponda, 
Vie più rigido assai se il tuo sembiante 
Esprimer denno i colorati punti 
Che l'arte ivi dispose. Oh quante mende 
Scorger tu vi saprai! Or brune troppo 
A te parran le guance; or fia ch'ecceda 
Mal frenata la bocca; or guai conviensi 
Al camuso Etiope il naso fia. 
Ti giovi ancora d'accusar sovente 
Il dipintor che non atteggi industre 
L'agili membra e il dignitoso busto, 
O che con poca legge a la tua imago 
Dia contorno, o la posi, o la panneggi. 
È ver che tu del grande di Crotone 
Non conosci la scuola, e mai tua mano 
Non abbassossi a la volgar matita 
Che fu nell'altra età cara a' tuoi pari. 
Cui sconosciute ancora eran più dolci 
E più nobili cure a te serbate. 
Ma che non puote quel d'ogni precetto 
Gusto trionfa tor che all'ordin vostro 
In vece di maestro il Giel concesse, 
Et onde a voi coniò le altere menti 
Acciò che possan de' volgari ingegni 
Oltre passar la paludosa nebbia, 
E d'aere più puro abitatrici 
Non fallibili scorre il vero e il bello? 
Perciò qual più ti par loda, riprendi; 
Non men fermo d'allor che a scranna siedi 
Raffael giudicando, o l'altro eguale 
Che del gran nome suo l'Adige onora, 
E a le tavole ignote i noti nomi 
Grave comparti di color che primi 
Fur tra' pittori. Ah s'altri è si procace 
Ch'osi rider di te, costui paventi 
L'augusta maestà del tuo cospetto: 
Si volga a la parete; e mentr'ei cerca 
Por freno in van col morder de le labbra 
Allo scrosciar de le importune risa 



IL MATTINO (v» 728-767). 145 

Che scoppiai! da' precordj, violenta 
Convulsione a lui deformi il volto, 
E lo affoghi aspra tosse, e lo punisca 
Di sua temerità. Ma tu non pensa 
Ch'altri ardisca di te rider giammai; 
E mai sempre imperterrito decidi. 
Or rimagin compiuta intanto serba 
Perché in nobile arnese un di si chiuda 
Con opposto cristallo, ove tu facci 
Sovente paragon di tua beltade 
Con la beltà de la tua Dama; o agli occhi 
Degl'invidi la tolga, e in sen Tasconda, 
Sagace tabacchiera; o a te riluca 
Sul minor dito fra le gemme e Toro; 

de le grazie del tuo viso desti 
Soavi rimembranze al braccio avvolta 
De la pudica altrui sposa a te cara. 

Ma giunta é al fin del dotto pettin Topra. 
Già il maestro elegante intorno spande 
Da la man scossa un polveroso nembo 
Onde a te innanzi tempo il crine imbianchi. 

D'orribil piato risonar studio 

Già la Corte d'Amore. I tardi veglj 
Grinzuti osar coi giovani nipoti 
Contendere di grado in faccia al soglio 
Del comune Signor. Rise la fresca 
Gioventude animosa, e d'agri motti 
Libera punse la senil baldanza. 
Gran tumulto nascea; se non che Amore, 
Ch'ogni diseguaglianza odia in sua Corte, 
A spegner mosse i perigliosi sdegni. 
E a quei che militando incanutirò 
Suoi servi impose d'imitar con arte 

1 duo bei fior che in giovenile gota 
Educa e nutre di sua man Natura; 
Indi fé' cenno, e in un balen fur visti 
Mille alati ministri alto volando 
Scoter le piume, e lieve indi fiocconne 
Candida polve che a posar poi venne 
Su le giovani chiome, e in bianco volse 

10 



146 IL GIORNO (v. 768-807). 

Il biondo, il nero, e Tódìato rosso. 
L'occhio cosi neiramorosa reggia 
Più non distinse le due opposte etadi, 
E solo vi restò giudice il Tatto. 
Or tu adunque, o Signor, tu che se' il primo 
Fregio ed onor dell'amoroso regno, 

I sacri usi ne serba. Ecco che sparsa 
Pria da provvida man la bianca polve 
In piccolo stanzin con Taere pugna, 

E degli atomi suoi tutto riempie 
Egualmente divisa. Or ti fa' core, 
E in seno a quella vorticosa nebbia 
Animoso ti avventa. Oh bravo, oh forte! 

- Tale il grand'Avo tuo tra '1 fumo e T foco 
Orribile di Marte, furiando, 
Gittossi allor che i palpitanti Lari 
De la patria difese, e ruppe e in fuga 

-Mise Toste feroce. Ei non pertanto, 
Fuligginoso il volto, e d'atro sangue 
Asperso e di sudore, e co' capegli 
Stracciali ed irti, da la mischia uscio, 
Spettacol fero a' cittadini istessi 
Per sua man salvi; ove tu, assai più dolce 
E leggiadro a vedersi, in bianca spoglia 
Uscirai quindi a poco a bear gli occhi 
De la cara tua Patria, a cui dell'Avo 

II forte braccio e il viso almo celeste 
Del Nipote dovean portar salute. 

Ella ti attende impaziente, e mille 
Anni le sembra il tuo tardar poc'ore. 
È tempo omai che i tuoi valetti al dorso 
Con lieve man li adattino le vesti, 
Cui la Moda e '1 Buon Gusto in su la Senna 
T'abbian tessute a gara, e qui cucite 
Abbia ricco Sartor che in su lo scudo 
Mostri intrecciato a forbici eleganti 
Il titol di Monsieur. Non sol dia leggi 
A la materia la stagion diverse; 
Ma sien qual si conviene al giorno e all'ora 
Sempre varj il lavoro e la ricchezza. 



IL MATTINO (v. 808-828). . 147 

Fero Genio di Marte a guardar posto 
De la stirpe de' Numi il caro fianco, 
Tu al mio giovane Eroe la spada or cingi, 
Lieve e corta non già, ma, qual richiede 
La stagion bellicosa, al suol cadente, 
E di triplice taglio armata e d'elsa 
Immane. Quanto esser può mai sublime 
L'annoda pure, onde l'impugni all'uopo 
La furibonda destra in un momento; 
Né disdegnar con le sanguigne dita 
Di ripulire ed ordinar quel nodo 
Onde l'elsa è superba: industre studio 
È di candida mano; al mio Signore 
Dianzi donollo, e gliel appese al brando, 
La pudica d'altrui sposa a lui cara. 
Tal del famoso Artù vide la Corte 
Le infiammate d'amor donzelle ardite 
Ornar di piume e di purpuree fasce 
I fatati guerrieri, onde più ardenti 
Gisser poi questi ad incontrar periglio 
In selve orrende, tra i giganti e i mostri. * 



* Il Reina : " Questo tratto, dal verso Ella ti attende impaziente e 
miUe [v. 796] fino al verso Figlie de la Memoria inclite Suore [v. 829j, 
essendosi rifatto dall'autore, si dà intero, e vi si replicano anco i 
versi intatti, per non cagionare confusione colla moltiplicità delle le- 
zioni varie. — Non vedi ornai qual con solerte mano Rechin di 
vesti a te pul)blico arredo I damigelli tuoi? Rodano e Senna Le 
tesserono a gara; e qui cucille Opulento sartor, cui su lo scudo 
Serpe intrecciato a forbici eleganti II titol di monsù. Né sol dà 
leggi A la materia la stagion diverse, Ma <|ual più si conviene 
al giorno e all'ora Varj sono il lavoro e la ricchezza. Vieni, o 
fior de gli eroi, vieni; e qual suole Nel più dubbio de' casi alto 
monarca Avanti al trono suo convocar lento Di sàtrapi con- 
cilio, a cui nell'ampia Calvizie de la fronte il senno appare: Tal 
di limpidi spegli a un cerchio in mezzo Grave t'assidi, e lor sen- 
tenza ascolta. Un, giacendo al tuo pie, mostri qual deggia Liscia 
e piana salir su per le gambe La docil calza; un sia presente al 
volto. Un dietro al capo: e la percossa luce Quinci e quindi 
tornando, a un tempo solo Tutto al giudizio de' tuoi guardi 
esponga ^apparato dell'arte. Intanto i servi A le sudino in- 
torno: e qual, piegate Le ginocchia, in sul suol prono, ti stringa 
Il molle pie di lucidi fermagli; E qual del biondo crin che i 
nodi eccede Su la schiena ondeggiante in negro velo I tesori 



148 IL GIORNO (v. 829-853). 

Figlie de la Memoria inclite Suore 
Che invocate scendeste, e i feri nomi 
De le squadre diverse e de gli Eroi 
Annoveraste ai grandi che cantaro 
Achille, Enea, e il non minor Buglione, 
Or m'é d'uopo di voi: tropp'ardua impresa, 
E insuperabil senza vostr'aita. 
Pia ricordare al mio Signor di quanti 
Leggiadri arnesi graverà sue vesti 
Pria che di se medesmo esca a far pompa. 

Ma qual tra tanti e si leggiadri arnesi 
Si felice sarà che pria d'ognaltro, 
Signor, venga a formar tua nobil soma? 
Tutti importan del par. Veggo TAstuccio, 
Di pelle rilucente ornato e d'oro. 
Sdegnar la turba, e gli occhi tuoi primiero 
Occupar di sua mole; esso a mill'uopi 
Opportuno si vanta, e in grembo a lui. 
Atta agli orecchi, ai denti, ai peli, all'ugne, 
Vien forbita famiglia. A lui contende 
I primi onori d'odorifer'onda 
Colmo Gristal, che a la tua vita in forse 
Rechi soccorso allor che il vulgo ardisce 
Troppo accosto vibrar da la vii salma 
Fastidiosi effluvj a le tue nari. * 



raccoglia; e qual già pronto Venga spiegando la nettarea veste. 
Fortunato garzone, a cui la Moda In fioriti canestri e di vermi- 
glia Seta coperti preparò tal copia D'ornamenti e di pompe! 
Ella pur jeri A te dono ne féo. La notte intera Faticaron per 
te cenl'aghi e cento; E di percossi e ripercossi ferri Per le ta- 
cite case andò il riml)ombo. Ma non in van, poi che di novo 
fasto Oggi superbo nel bel mondo andrai; E per entro l'in- 
vidia e lo stupore Passerai de' tuoi pari, eguale a un dio, Folto 
I)isbiglio sollevando intorno. „ 

* Nel dialogo Della nobiltà, dove il Parini finge che s'incontrino 
" nella medesima sepoltura un Nobile e un Poeta , (Pp,lV, 12.'>-6), 
al primo che esclama: " Miserabile! non sai tu chi io mi sono? or 
perchè ardisci tu di starmi cosi fitto alle costole come tu fai? „ 
l'altro risponde: " Signore, s'io stovvi così accosto, incolpatene una 
mia depravazione d'olfatto, per la quale mi sono avvezzo a' cattivi 
odori. Voi puzzate che è una maraviglia. Voi non olezzate già più 
muschio e ambra voi ora! „ 



IL MATTINO (v. 854-880). 149 

Né men pronto di quello, alFuopo istesso, 
L'imitante un cuscin purpureo Drappo 
Mostra turgido il sen d'erbe odorate 
Che l'aprica montagna in tuo favore 
Al possente meriggio educa e scalda. 
Seco vien pur di cristallina rupe 
Prezioso Vasello, onde traluce 
Non volgare confetto, ove agli aromi 
Stimolanti s'unio l'ambra, o la terra 
Che il Giappon manda a profumar de' Grandi 
L'etereo fiato, * o quel che il Garamano 
Fa gemer latte dall'inciso (japo 
De' papaveri suoi ; perché, qualora 
Non ben felice amor Talma t'attrista, 
Lene serpendo per le membra, acqueti 
A te gli spirti, e no la mente induca 
Lieta stupidità che mille aduni 
Imagin dolci e al tuo desio conformi. 
A questi arnesi il Cannocchiale aggiugni, 
E la guernita d'oro anglica Lente. 
Quel notturno favor ti presti allora 
Che in teatro t'assidi, e t'avvicini 
Gli snelli piedi e le canore labbra 
Da la scena rimota: o con maligno 
Occhio ricerchi di qualch'alta loggia 
Le abitate tenèbre, o miri altrove 
Gli of]rnor nascenti e moribondi amori 



* Il MagaloUi, nella XIX delle sue Lettere, descrive " quella pasta 
o quel magistero, che formato a quel modo in bioccoli sulFandare 
de' tartufi, di peso ordinariamente di tre in quattr' once l'uno, 
con nome di Cato o di Gate, dalle parti più orientali dell'Indie, 
non esclusone il Giappone medesimo (da cui è anche stato chia- 
mato Terra), viene in Olanda e a Goa ; e che in Goa più che 
altrove, alterato con odori, e principalmente con ambra, e formato 
in grani di diverse grossezze e figure, da innocente delizia di Bar- 
bari o di semplici Indiani, passa a studiato regalo di svogliati lus- 
sureggianti, se non lussuriosi, Europei ; benché esternamente o dal 
fuoco, per rasciugarlo e seccarlo, impastato ch'ei l'hanno, o dal- 
l'aria e forse dal tempo medesimo pigli quel colore che i Latini 
direbbono ferrugineus e noi di Castagna vecchia, a romperlo, si 
trova di dentro rossigno, e quanto più puro tanto più si vede tirare 
al matton pesto ,. 



150 IL GIORNO (v. 881-915). 

De le tenere Dame, onde s'appresti 
Per leloquenza tua nel di vicino 
Lunga e grave materia. A te la Lente 
Nel giorno assista, e de gli sguardi tuoi 
Economa presieda, e si li parta 
Che il mirato da te vada superbo, 
Né i malvisti accusarti osin giammai. 
La Lente ancora alTocchio tuo vicina 
Irrefragabil giudice condanni 
O approvi di Palladio i muri e gli archi 
O di Tizian le tele: essa a le vesti. 
Ai libri, ai volti feminili applauda 
Severa, o li dispregi. E chi del senso 
Gomun si privo fìa che opporsi unquanco 
Osi al sentenziar de la tua Lente? 
Non per questi però sdegna, o Signore, 
Giunto a lo specchio, in gallico sermone 
11 vezzoso Giornal; non le notate 
Eburnee Tavolette a guardar preste 
Tuoi sublimi pensier fin ch'abbian luce 
Doman tra i begli spirti; e non isdegna 
La picciola Guaina, ove a' tuoi cenni 
Mille stan pronti ognora argentei spilli. 
Oh quante volte a cavalier sagace 
Ho vedut'io le man render beate 
Uno apprestato a tempo unico spillo! 
Ma dove, ahi dove inonorato e solo 
Lasci '1 Coltello, a cui Toro e l'acciaro 
Donar gemina lama, e a cui la madre 
De la gemma più bella d'Anfìtrite 
Die manico elegante ove il colore 
Con dolce variar l'iride imita? 
Opra sol fìa di lui se ne' superbi 
Convivj ognaltro avanzerai per fama 
D'esimio trinciatore *, e se l'invidia 

* " Una costumanza ben singolare, ed affatto smaiTÌta, è quella che 
si ricorda in questi versi. Il trinciare, tagliare e suddividere le vi- 
vande apparteneva ad uno dei convitati. Era questa usanza un argo- 
mento di emulazione fra di essi, un argomento di applauso, ad 
ottenere il quale si giovavano dell'esercizio frequente e dello studio 



IL MAtTINO (v. 916-930). 151 

De' tuoi gran pari ecciterai qualora, 
Pollo fagian con la forcina in alto 
Sospeso, a un colpo il priverai delFanca 
Mirabilmente. * Or ti ricolmi alfine 
D'ambo i lati la giubba ed oleoso 
Spagna e Rapè, cui semplice Origuela ** 
Chiuda, o a molti colori oro dipinto; 
E cupide ad ornar tue bianche dita 
Salgan le Anella, in fra le quali, assai 
Più caro a te dell'adamante istesso, 
Cerchietto inciso d'amorosi motti 
Stringati alquanto, e sovvenir ti faccia 
De la pudica altrui sposa a te cara. 
Compiuto é il gran lavoro. Odi, o Signore, 
Sonar già intorno la ferrata zampa 

deU' anatomia dei volatili, il perfetto e spedito trinciare dei quali 
era considerato siccome frutto o di lunga esperienza o di lodevole 
sagacltà ,. De Magri, // Giorno ecc., Milano, 1829, pt. I, pag. 125, 

* Nei manoscritti continua cosi; " Or qual più resta omai Onde 
colmar tue tasche inclito ingombro? Ecco a molti colori oro di- 
stinto, Ecco nobil testuggine su cui Voluttuose imagini lo 
sguardo Invitan de gli eroi. Copia squisita Di fùmido Rapè 
quivi è serbala E di Spagna oleoso, onde lontana, Pur come 
suol fastidioso insetto, Da te fugga la noia. Ecco che smaglia, 
Cùpido a le di circondar le dita, Vivo splendor di preziose anella. 
Amila pietra ove si stanno ignude Sculte le Grazie, e che il Giudeo 
ti fece Creder opra d' Argivi allor ch'ei chiese Tanto tesoro, e 
d'erudito il nome Ti comparti prostrandosi a' tuoi piedi? Vuoi tu 
i lieti rubini? O più t'aggrada Sceglier quest'oggi l'Indico adamante. 
Là dove il lusso incantata costrinse La fatica e il sudor di cento 
buoi Che pria vagando per le tue campagne Facean sotto a i lor 
pie nascere i beni? Prendi o tutti o qual vuoi; ma l'aureo cerchio 
Glie sculto intorno è d'amorosi molti Ognor teco si vegga, e il 
minor dito Prèmati alquanto, e sovvenir ti faccia Dell'altrui 
fida sposa a cui se' caro. Vengane alfm degli Orioi gemmati. 
Venga il duplice pondo; e a te dell'ore Che all'alte imprese di- 
spensar conviene Faccia rigida prova: ohimè che vago Arsenal 
minutissimo di cose Ciondola quindi, e ripercosso insieme Molce 
con soavissimo tintinno! Ma v'hai tu il meglio? Ah! sì, che i 
miei precelti Sagace prevenisti. Ecco risplende Chiuso in breve 
cristallo il dolce pegno Di fortunato amor : lungi, o profani; Che 
a voi tant'ollre penetrar non lice. „ 

** 11 Reina annoia: " Radice onde sì fanno scatole da tabacco, 
così delta dalla città di questo nome „. Orihuela è sulla costa orien- 
tale della Spagna, al confine della Valenza colle Murcie. 



152 IL GIORNO (v. 931-943). 

De' superbi corsier, che irrequieti 
Ne' gpand'atrj sospigne, arretra e volge 
La disciplina delPardito auriga. 
Sorgi, e t'appresta a render baldi e lieti 
Del tuo nobile incarco i bruti ancora. 
Ma a possente Signor scender non lice 
Da le stanze superne infin che al gelo 
O al meriggio non abbia il cocchier stanco 
Durato un pezzo, onde Tuoni servo intenda 
Per quanto immensa via Natura il parta 
Dal suo Signore. I miei precetti intanto 
Io seguirò: che varie al tuo mattino 
Portar dee cure il variar dei giorni. * 



* n Reina annota: " I molti cangiamenti e le traslazioni, che s'in- 
contrano in varj testi a penna fino al termine del MatUno, vogliono 
che si dia questo squarcio tutto intero. — Tu dolce intanto pren- 
derai solazzo Ad agitar fra le tranquille dita Dell'oriolo i cion- 
doli vezzosi. Signore, al Ciel non è cosa più cara Di tua salute; 
e troppo a noi mortali È il viver de' tuoi pari uUl tesoro. Uopo 
è talor che da gli egregi affanni T'allevj alquanto, e con pietosa 
mano II teso per gran tempo arco rallente. Tu dunque, allor 
che placida mattina Vestita riderà d'un bel sereno, Esci pedc-< 
stre, e le abbattute membra All'aura salutar snoda e rinfranca. 
Di nobil cuoio a te la gamba calzi Purpureo stivaletto, onde 
giammai Non profanin tuo pie la polve e il limo Che l'uom 
calpesta. A te s'avvolga intorno Veste leggiadra che sul fìanco 
sciolta Sventoli andando, e le formose braccia Stringa in ma- 
niche anguste, a cui vermiglio O cileslro ermesino orni gli estremi. 
Del bel color che l'elitropio tigne O pur d'orientai candido bisso 
Voluminosa benda indi a te fasci La sneUa gola. E il crin.... Ma 
il crin, Signore, Forma non abbia ancor da la man dotta Del- 
l'artefice suo; che troppo fora. Ahi troppo grave error lasciar 
tant'opra De le licenziose aure in balia. Né senz'arte però vada 
negletto Su gli omeri a cader; ma o che Natura A te il no- 
drisca, o che da ignote fronti II più famoso parrucchier lo in- 
voli E lo adatti al tuo capo, in sul tuo capo Ripiegalo l'afTerri 
e lo sospenda Con testugginei denti il pettin curvo. Ampio cap- 
pello allìn, che il disco agguagli Del gran lume Febeo, tutto ti 
copra, E a lo sguardo profan tuo nume asconda. Poi che così 
le belle membra ornate Con artifìcj negligenti avrai. Esci so- 
letto a respirar talora I mattutini fiati; e, lieve canna Bran- 
dendo con la man, quasi baleno Le vie trascorri, e premi ed urta 
il vulgo Che s'oppone al tuo corso. In altra guisa Fora colpa 
Tuscir, però che andrièno Mal dal vulgo distinti i primi eroi. 
Tal giorno ancora, o d'ogni giorno forse Fien qualch'ore serbate 



IL MATTINO (v. 944-956). 153 

Tal di ti aspetta d'eloquenti fogli 
Serie a vergar, che al Rodano, al Lemano, 
AirAmstel, al Tirreno, all'Adria legga 
Il librajo che Momo e Giterea 
Colmar di beni, o il più di lui possente 
Appaltator di forestiere scene. 
Con cui per opra tua facil donzella 
Sua virtù merchi, e non sperato ottenga 
Guiderdone al suo canto. O di grand'alma 
Primo fregio ed onor, Beneficenza, 
Che al merto porgi ed a virtù la mano! 
Tu il ricco e il grande sopra il vulgo innalzi. 
Ed al concilio de gli Dei lo aggiugni. 



al molle ferro Che i peli a te rigermogliaiiti a pena D'in su la 
guancia miete, e par che invidj Ch'altri fuor che sé solo indaghi 
o scopra Unque il tuo sesso. Arroge a questo il giorno Che di 
lavacro universal convienti Terger le vaghe membra. È ver che 
allora D'esser mortai dubiterai; ma innalza Tu allor la mente 
a i grandi aviti onori, Che fino a te per secoli cotanti Misti sce- 
sero al chiaro altero sangue. E il pensier ubbioso a par di nebbia 
Per lo vasto vedrai aere smarrirsi A i raggi de la gloria onde 
t'investi; E di te pago sorgerai qual pria Gran Semidèo che a 
sé solo somiglia. Fama è così che il di quinto le Fate Loro 
salma immollai vedean coprirsi Già d'orribili scaglie, e, in feda 
serpe Volta, strisciar sul suolo, a sé facendo De le inarcale 
spire impeto e forza; Ma il primo sol le rivedea più belle Far 
beati gli amanti, e a un volger d'occhi Mescere a voglia lor la 
terra e il mare. Assai l'auriga bestemmiò finora I tuoi nobili 
indugi; assai la terra Calpestàro i cavalli. Or via, veloce Reca, 
o servo gentil, reca il cappello Ch'ornan fulgidi nodi. E tu frat- 
tanto, Fero genio di Marte a guardar posto De la stirpe de' 
numi il caro fianco. Al mio giovane eroe cigni la spada, Corta 
e lieve non già, ma, qual richiede La stagion bellicosa, al suol 
cadente, E di triplice taglio armata e d'elso Immane. Quanto 
esser può mai sublime. L'annoda pure, onde la impugni all'uopo 
La destra furibonda in un momento. Ne disdegnar con le san- 
guigne dita Di ripulire ed ordinar quel nastro Onde l'elso é 
superbo. Industre studio È di candida mano. Al mio Signore 
Dianzi donollo e gliel appese al brando L'altrui fida consorte a 
lui si cara. Tal del famoso Artù vide la Corte Le infiammate 
d'amor donzelle ardite Ornar di i)iume e di purpuree fasce l 
fatati guerrier; si che poi lieti Correan mortale ad incontrar pe- 
riglio In selve orrende fra i giganti e i mostri. Volgi, o invitto 
campion, volgi tu pure II generoso pie dove la bella E de gli 
eguali tuoi scelto drappeUo Sbadigliando t'aspetta a l'alte mense 



154 IL GIORNO (v. 957-979). 

Tal giorno ancora, o d'ogni giorno forse 
Den qualch'ore serbarsi al molle ferro 
Che il pelo a te rigermogliante a pena 
D'in su la guancia miele, e par che invidj 
Girallri fuor che lui solo esplori o scopra 
Unqua il tuo sesso. Arroge a questi il giorno 
Che di lavacro uni versai convienti 
Bagnar le membra, per tua proj)ria mano 
O per altrui con odorose spugne 
Trascorrendo la cute. È ver che allora 
D'esser mortai ti sembrerà: ma innalza 
Tu allor la mente, e de' grand 'avi tuoi 
Le imprese ti rimembra e gli ozj illustri 
Che inflno a te per secoli cotanti 
Misti scesero al chiaro altero sangue ; 
E l'ubbioso pensier vedrai fuggirsi 
Lunge da te per l'aere rapito 
Su l'ale de la Gloria alto volanti; 
Et indi a poco sorgerai qual prima 
Gran Semidòo che a sé solo somiglia. 
Fama è cosi che il di quinto le Fate 
Loro salma immortai vedean coprirsi 
Già d'orribili scaglie, e, in feda serpe 

Vieni e, godendo, nell'iiscire il lungo Ordin superbo di tue stanze 
ammira. Or già siamo a reslrenie: alza i bei lumi A le pen- 
denti tavole vetuste Che a te de gli avi tuoi serbano ancora Gli 
alti e le forme. Quei clie in duro dante Strigne le membra, e cui 
sì grande ingombra Traforato coUar le grandi spalle, Fu di 
macchine autor; cinse d'invitte Mura i Penati; e da le nere torri 
Signoreggiando il mar , verso le aduste Spiagge la predatrice 
Africa spinse. Vedi quel magro a cui canuto e raro Pende il 
crin da la nuca; e l'altro a cui Su la guancia pienotta e sopra il 
nicmto Serpe triplice pelo? Ambo s'adornano Di toga magi- 
stral cadente a i piedi L'uno a Temi fu sacro: entro a' Licei 
La giovcnlù pellegrinando ei trasse A gli oracoli suoi, indi se- 
deUe Nel senato de' padri, e, le dsperse Leggi raccolte, ne fé' 
parte al mondo; L'altro sacro ad Igeia. Non odi ancora Presso 
a un secol di vita il buon vegliardo Di lui narrar quel che da' 
padri suoi Nonagenarj udì, com'ei spargesse Su la plebe infe- 
lice oro e salute Pari a Febo suo nume? Kcco quel grande A 
cui sì fosco parruccon s'innalza Sopra la fronte spaziosa, e scende 
Di minuti botton serie infinita Lungo la veste. Ridi? Ei novi 
aperse Studj a la patria; ei di perenne aita I miseri dotò; por- 



IL MATTINO (v. 980-1003). 155 

Volta, strisciar sul suolo, a sé facendo 
De le inarcate spire impeto e forza; 
Ma il primo Sol le rivedea più belle 
Far beati gli amanti, e a un volger d'occhi 
Méscere a voglia lor la terra e il mare. 
Fia d'uopo ancor che da le lunghe cure 
T'allevj alquanto, e con pietosa mano 
Il teso per gran tempo arco rallenti. 
Signore, al Giel non è più cara còsa 
Di tua salute; e troppo a noi mortali 
È il viver de' tuoi pari util tesoro. 
Tu adunque allor che placida mattina 
Vestita riderà d'un bel sereno. 
Esci pedestre, e le abbattute membra 
A l'aura salutar snoda e rinfranca. 
Di nobil ciiojo a te la gamba calzi 
Purpureo stivaletto, onde il tuo piede 
Non macchino giammai la polve e 'l limo 
Che Tuom calpesta. A te s'avvolga intorno 
Leggiadra veste che sul dorso sciolta 
Vada ondeggiando, e tue formose braccia 
Leghi in manica angusta a cui vermiglio 
O cilestro velluto orni gli estremi. 
Del bel color che lelitropio tigne 

tici e vie Stese per la cittade, e da gli ombrosi Lor lontani re- 
cessi a lei dedusse Le pure onde salubri, e ne' quadrivj E in 
mezzo a gli ampli fóri alto le fece Salir scherzando a rinfrescar 
la state, Madre di morbi popolari. Oh come Ardi a tal vista di 
bealo orgoglio, Magnanimo garzoni Folle! A cui parlo? Ei già 
più non m'ascolta: odiò que' ceffi II suo guardo gentil; noja lui 
prese Di sì vieti racconti; e già s'affretta Giù per le scale im- 
paziente. Addio, De gli uomini delizia e di tua stirpe E de la 
patria tua gloria e sostegno! Ecco che umili in bipartita schiera 
T'accolgono i tuoi servi. Altri già pronto Via se ne corre ad an- 
nunciare al mondo Che tu vieni a bearlo ; altri a le braccia Ti- 
mido ti sostien mentre il dorato Cocchio tu sali, e tacito e severo 
Sur un canto ti sdrai. Aprili, o vulgo, E cedi il passo al trono 
ove s'asside II mio Signor. Ahi te meschin sei perde Un sol 
per le de' preziosi istanti! Temi il non mai da legge o verga o 
fune Domabile cocchier; temi le rote Che già più volte le tue 
membra in giro Avvolser seco, e del tuo impuro sangue Corser 
macchiate, e il suol di lunga striscia, Spetlacol miserabile! se- 
gnàro. , 



156 IL GIORNO (v. 1004-1028). 

Sottilissima benda indi ti fasci 

La snella gola ; e il crin... Ma il crin, Signore, 

Forma non abbia ancor da la man dotta 

Dell'artefice suo; che troppo fora, 

Ahi! troppo grave error lasciar tant'opra 

De le licenziose aure in balla. 

Non senz'arte però vada negletto 

Su gli omeri a cader; ma, o che Natura 

A te il nodrisca, o che da ignota fronte 

Il più famoso parrucchier lo tolga 

E l'adatti al tuo capo, in sul tuo capo 

Ripiegato l'afferri e lo sospenda 

Con testugginei denti il pettin curvo. * 

Poi che in tal guisa te medesmo ornato 
Con artifìcio negligente avrai, 
Esci pedestre a respirar talvolta 
L'aere mattutino; e ad alta canna 
Appoggiando la man, quasi baleno 
Le vie trascorri, e premi ed urta il volgo 
Che s'oppone al tuo corso. In altra guisa 
Fora colpa l'uscir, però che andriéno 
Mal distinti dal vulgo i primi eroi. 

Ciò ti basti per or. Già l'oriolo 
A girtene ti aflretta. Ohimè che vago 
Arsenal minutissimo di cose 



* (^fr. i versi 485 e seg^^. Il De Magri (// Giorno ecc., pt. 1, pag. Ili) 
così descrive il topè : " La fronte del signore doveva apparire spaz- 
zala e nuda di ogni pelo, al quale effetto, stesavi una tela ingom- 
mala, la si strappava poscia con violenza, quando per il tepore 
naturale della fronte si fosse la gomma condensata ed avesse av- 
viluppate anche le più minute lanugini, forzate a partirsi seco lei 
svelle dall'ima radice Allora sull'estremo confine della fronte sor- 
geva come un parapetto cono, soffice, di capelli rotolali per lo in- 
dietro, e cingeva tutta la periferia del capo, abbassandosi grada- 
lamenle sui lati e su la nuca, dove si convertiva in una coda, quale 
a trecce, quale rotonda o conica, fasciata da un nastro e finita in 
un fiocco maestoso o di seta o di capelli, o in una borsa. Questa 
petlinatura esigeva molta accuratezza, dovendo l'attillatore inten- 
dere con ispeciale avvertimento a non permettere che neppure il 
più minuto e breve crine uscisse ribelle dal rango degli altri, e 
che nessunissima parte di essi rompesse la uniformità del para- 
petto ,. 



IL MATTINO (v. 1029-1062). 157 

Ciondola quindi, e ripercosso insieme 
Molce con soavissimo tintinno l 
Di costi che non pende? havvi per fino 
Piccioli cocchi e piccioli destrieri 
Finti in oro cosi che sembran vivi. 
Ma v'hai tu il meglio? Ah si, chei miei precetti 
Sagace prevenisti: ecco che splende. 
Chiuso in picciol cristallo, il dolce pegno 
Di fortunato amor. Lunge, o profani, 
Che a voi tant'oltre penetrar non lice I 
E voi dell'altro secolo feroci 
Ed ispid'avi, i vostri almi nipoti 
Venite oggi a mirar. Co' sanguinosi 
Pugnali a lato le campestri rócche 
Voi godeste abitar, truci a l'aspetto 
E per gran baffi rigidi la guancia, 
Consultando gli sgherri, e sol giojendo 
Di trattar l'arme che d'orribil palla 
Givan notturne a traforar le porte 
Del non meno di voi rivale armato. * 
Ma i vostri almi nipoti oggi si stanno 
Ad agitar fra le tranquille dita 
Dell'oriolo i ciondoli vezzosi; 
Ed opra é lor se all'innocenza antica 
Torna pur anco e bamboleggia il mondo. 
Or vanne, o mio Signore, e il pranzo allegra 
De la tua Dama: a lei, dolce ministro. 
Dispensa i cibi, e détta al suo palato 
E a la sua fame inviolabil legge. 
Ma tu non obliar che in nulla cosa 
Esser mediocre a gran Signor non lice: 
Abbia il popol confini; a voi Natura 
Donò senza confini e mente e core. 
Dunque a la mensa o tu schifo rifuggi 



* Curiosa ed interessanle la nota del De Magri (1829) a questo 
luogo (p. 127): " Abbiamo veduto di fresco nei Promessi Sposi esat- 
tamente riprodoUi questi ritratti istorici del secolo XVII. Si direljbe 
elle il sig. Manzoni consultasse questi versi delineando 1 caratteri 
di D. Rodrigo e dell'Innominato, ove non si conoscesse in tutta 
l'estensione la sua abilità nel dipìngere „. 



158 IL GIORNO (v. 1063-1083). 

Ogni vivanda, e te medesmo rendi 
Per inedia famoso, o nome acquista 
D'illustre voratore. Intanto addio, 
Degli uomini delizia e di tua stirpe, 
E de la patria tua gloria e sostegno. 
Ecco che umili in bipartita schiera 
T'accolgono i tuoi servi: altri già pronto 
Via se ne corre ad annunciare al mondo 
Che tu vieni a bearlo; altri a le braccia 
Timido ti sostien mentre il dorato 
Cocchio tu sali, e tacito e severo 
Sur un canto ti sdrai. Apriti, o vulgo, 
E cedi il passo al trono ove s'asside 
Il mio Signore: ahi te meschin s'ei perde 
Un sol per te de' preziosi istanti! 
Temi '1 non mai da legge o verga o fune 
Domabile cocchier, temi le rote 
Che già più volte le tue membra in giro 
Avvolser seco, e del tuo impuro sangue 
Corser macchiate, e il suol di lunga striscia, 
Spettacol miserabile! segnàro. * 



* lUferiamo dal Cantù (LUib. Parinì, 1854, p. 354) una grida del 
21 gennaio 1763: " Non senza grave indignazione ha il Serenissimo 
Amministratore inleso ed osservato che, non ostante la chiara ed 
efficace [sic !} disposizione della grida del 18 febbraio 1760, sia ri- 
sorto l'atroce abuso di correre impetuosamente per la città e di 
giorno e più di noUe colle carrozze ed attiragli, rinnovandosi le 
abbominevoli emulazioni e gare di corso, e con esse le tragiche 
scene già detestate e corrette con pubbliche dimostrazioni e con le 
pene più risentite. E volendo S. A. S. assolutamente e determina- 
tamente tolta una sì inumana riprovevole corruttela, fa seriamente 
incaricare il regio capitano di giustizia, il regio suo vicario, il po- 
destà di Milano, lì giudici del gallo e del cavallo e li regj vicarj 
generali, che, raddoppiando le loro veglie e ronde ed instruendo 
opportunamente le loro rispettive famiglie di giustizia all'esatto 
adempimento dell'ordinato e disposto in detta grida, non cessino 
dalle più oculate e vigorose pratiche per far detenere qualunque 
cocchiere, vetturale o condotliere, che sia còlto in attuale coi'so 
smoderato, o indiziato ed imputato d'inosservanza della grida, fa- 
cendo indilatamente subire a' contravventori la comminata pena 
di tre pubblici tratti di corda, procedendo in sèguito per le ulte- 
riori a norma della detta grida; con avvertenza che d'ogni dissi- 
mulazione o connivenza in questa parte ne sarà responsale al go- 



IL MATTINO. 159 

verno insieme e il giadic« e la famiglia di giustizia che non si sarà 
efficacemente prestata alle rispettive parti del suo ufficio in questo 
particolare. E perchè non vaglia pretesto o scusa di scordanza, 
oblivione o tolleranza, sarà il presente decreto nelle regolari forme 
dedotto a pubblica notizia „. Il Cantù soggiunge : " Allora fu ordi- 
nato ai birri di gettar delle stanghe fra i raggi delle ruote delle 
carrozze che corressero troppo. Ed è notato nei fasti aristocratici 
qualmente la prima carrozza cui si usò questo affronto, come lo 
giudicavano non solo i volgari patrizj ma ftn Pietro Verri (v. Scritti 
inediti, p. 21), fu quella della contessa Brebbia nata Zonati „. 



La prima edizione lia questo frontispizio : // Mattino, Poemetto. 
Milano, Agnelli, 1763. Consta di pp. 62 in 16. U iwprimatnr è del 
24 marzo. Il 21 luglio il Parini chiedeva per tre anni la privativa 
dell'edizione, pubblicata anonima. L'anno stesso il poemetto fu 
ristampato in Bergamo e in Venezia ; e nel 1766 il Baronchelli di 
Venezia ne dava già fuori una sesta edizione. 

Il Parini, racconta il Reina (Op., I, xv), " conferì a lungo sull'in- 
venzione dell'opera, e spezialmente sulla tessitura del Mattino, con 
Gian Carlo Passeroni, che molto ne commendò il pensiero, la con- 
dotta ed il verseggiare. Compiuto il Mattino, lo lesse egli a Fran- 
cesco Fogliazzi, indi ad una brigata di dotti amici, che maravi- 
gliandone lo persuasero a pubblicarlo. Era di que' dì Ministro 
Plenipotenziario dell'Austria in Lombardia Carlo conte di Firmian, 

personaggio di esimie doti morali ed intellettuali Fogliazzi 

parlò a Firmian deireccelleiite poesìa elei Mattino, e della risolu- 
zione di stamparla, benché vi si mordesse l'ozio de' Grandi: — 
Ottimamente, rispose il Ministro, ve n'ha bisogno estremo. — Di- 
volgatosi il Mattino nel 1763, l'Italia tutta fece plauso alla novità ed 
eccellenza del medesimo „. Il Fogliazzi era parmigiano, quasi coe- 
taneo del Parini, dilettante di poesia e d'erudizione. Venuto a Mi- 
lano nei dicasteri austriaci, fu accolto fra i Trasformati II Parini 
gli dedicò l'epistola Sopra la guerra. Nel '61 il Fogliazzi era già 
capo ufficio nel Censimento ; divenne poi Consigliere al Senato. 

Le Nuove di diverse corti e paesi, giornale ufficioso del Governo 
auslriaco in Lombardia che si pubblicava a Lugano, nel numero 
del 25 aprile 176.3, scrivevano autorevolmente: " Egli è sommamente 
desiderabile che questo veramente egregio poeta proseguisca gli 
altri poemi per sempre più porre in ridicolo il depravato co- 
stume di questo secolo, che principalmente per comune disavven- 
tura signoreggia in chi e per la nascita e ])er i beni di fortuna 
sarebbe obbligalo a dar buon saggio di sé stesso ed essere un non 
men esemplare crìslìano che un utile patrizio, e procurarne così 
l'emendazione „ (cfr. Salveuagijo, p, XVII). 

La Frusta letteraria, nel numeio del 1^ ottobre 1763 : " Io non 
mi farò scrupolo di dire clie l'incognito autore del Mattino è uno 
di que' pochissimi buoni poeti che onorano la moderna Italia. Con 



160 IL GIORNO. 

un'ironia mollo bravamente continuata dal ptinclpio fino al fine 
di questo poemetto egli satireggia con tutta la necessaria morda- 
cità gli effeminali costumi di que' tanti fra i nostri nobili, che, non 
sapendo in che impiegare la loro meschina vita e come passar via 
il tempo, lo consumano tutto in zerbinerie e in illeciti amoreggia- 
menti. Egli descrive molto bene tutte le loro povere mattutine fac*- 
cende, e le uccella talora con una forza di sarcasmo degna dello 
stesso Giovenale. Temo però che la sua satira non produca quel 
frutto che dovrebbe produrre, perchè è scritta qui e qua con molta 
sublimità di poesia, e que' nobili, che dovrebbero leggerla seria- 
mente per correggersi di que' difetti e di que' vizi che in essa sono 
maestrevolmente additati e cuculiati, non intendono né la sublime 
poesia né l'umile ,. 

Narra il Reina (p. XXIX) : " Solitario nella città „ il Parini " astrae- 
vasi spesso dalle idee comuni ritiralo negli orti, di cui molto di- 
leltavasi. In villa sdrajavasi a leggere o al rezzo di un albero o ne' 
freschi antri romiti o in una barchetta. È osservabile che stese i 
suoi Poemetti sul lago di Como, a Malgrate, da Candido Àgudio 
amicissimo suo, ed a Bellagio, dal Conte della Riviera, ove la bella 
natura di que' luoghi ameni risvegliavagli l'estro e l'invitava a 
poetare „. 

Circa il 1791 fu pubblicata una versione latina del Mattino • dai 
torchi di Francesco Pogliani in Milano, col titolo seguente : ffe/ruscum 
poema cui titulus II Mattino latine reddilum „ (cfr. Lettere di due 
amici, p. 47-55 e 53-60). Autore ne era C. Ant. Morondi delle Scuole 
Pie; il quale, l'anno dopo, diede fuori anche la versione in latino» 
del Mezzogiorno (ctr. Carducci, Storia del Giorno, p. 340). 

È facile immaginare quali pettegolezzi si saranno fatti in Milano 
e fuori quando comparve codesta satira cosi vivace, cosi nuova, 
così elegante. Ce ne resta una curiosa testimonianza in una lettera 
che Lodovicantonio Loschi, un instancabile poligrafo modenese, 
scrìveva da Modena il 24 maggio 1764 all'ammiratissimo suo abate 
Frugoni: " La supplico significarmi se l'ab. Parini trovasi costi, 
ciocché vienmì assicurato; aggiungendosi ch'egli ha dovuto lasciare 
Milano per la persecuzione del marchese [meglio, principe] Bel- 
giojoso, a cui é parso ravvisar sé stesso, la sua vanità ed inutilità 
in molti tratti del Mattino „. (Cfr. E, Bertana, Un documento pari' 
niano, nella Rass. Bibliogr. d. lett. ital, V, 178-9). 

È superfluo avvertire che non c'era nulla di vero né nella fuga 
del poeta né nella persecuzione del presunto giovin signore. Ma la 
voce che in costui fosse proprio slato ritratto Alberico da Barbiano 
principe di Belgioioso ebbe fortuna, come suole avvenire di simili 
malignazioni; ed ho più indietro (p. 120-1) riferito un luogo del Bra- 
inieri, in cui questi volle insinuare che, tra le ragioni che ritennero 
il Parini dal " poner fine al Giorno „, fosse anche " il giusto timore 
d'increscere a taluno, cui la pubblica malignità.... indicava qual 
eroe del Poema ,. PiOi tardi l'IIobbousc, nel Saggio sullo stato della- 



IL MATTINO. 161 

letleratiira italiana nel primo ventennio del secolo XIX che pubblicò 
ad illustrazione del Child-Harold del Byron, propalò quella diceria 
per tutta Europa, asserendo che " non fuvvi un solo Milanese il 
quale non riconoscesse nell'eroe del poeta del Giorno il principe 
di Belgioioso, un individuo della regnante famiglia Estense [nel 
1757 menò in moglie Anna Ricciarda dei marchesi d'Este], e fra- 
tello maggiore del Feldmaresciallo dello stesso nome, che sostenne 
il carattere di ambasciatore austriaco nella corte d'Inghilterra, e 
quello di Governatore nei Paesi Bassi ,. E a molti piacque di cre- 
»derci, cosi per quel naturale bisogno d'immaginar drammatiche 
le vite dei poeti, come anche perchè si seppe che al critico inglese 
molti dati per quel suo saggio erano stati forniti dal Foscolo (cfr. 
Opere edite e postume di U. Foscolo, Firenze, Le Mounier, 1882, v. 
XI, p. iH-iv e 210), il quale fu amico ed ospite del Belgioioso e Io 
vide morire di apoplessia nel suo castello il 27 agosto 1813. (Cfr. 
P. G., U. Foscolo e il principe di Belgioioso, nella Rivista minima, 
Milano, aprile e maggio 1880, p. 288 ss. e 350 ss.). 

Alla famiglia Belgioioso non poteva non dar fastidio il petulante 
diffondersi del pettegolezzo; e per chiuder la bocca ai malevoli, 
nel 1823 il principe Emilio (figliuolo al primogenito del vecchio 
perseguitato, che poi nel 1831 congiurò e raggiunse la spedizione 
mazziniana in Savoia, ed ebbe in moglie la Cristina Trivijlzio, la 
quale nel '48 condusse da Napoli in Lombardia un battaglione di 
volontari) " ordinò che la piccola casa attigua al suo palazzo „ 
all'ingresso di via San Paolo, " venisse, con disegno dell'arciiitetto 
D. Gioachimo Crivelli, dedicata al Parini, coU'apporvi sulla facciata 
il di lui ritratto a rilievo scolpito in marmo, fiancheggiato da due 
Fame in pietra arenaria, che sostengono le mensole del balcone. 
Ciò fece e come ammiratore dell'immortale poeta, ed anche per 
togliere quelle dicerie sparse in Milano, che il principe Alberico 
suo padre [avo], tenendosi offeso personalmente dalla satira del 
Mattino, avesse fatto minacciare il Parini che, se voleva bene alla 
propria vita, sì guardasse dal dar alle stampe il Meriggio, altrimenti 
non vedrebbe la sera! „ (Cfr. L. Dell'Acqua, Sull'abitazione di G. P., 
nei Rendiconti dell'Istituto Lombardo, v. II, fase. 8-10, 9 nov. 1865, 
p. 248). 

Il Cantù mostrò di non credere alla sgarbata tradizione; ma, 
mentre non seppe addurre fatti o validi argomenti che la scredi- 
tassero, colse il destro per insinuar nuovo discredito sul carattere 
del suo amato (alla larga!) poeta. " Il fissare un individuo,, egli 
sentenzia (L'ab. Parini, p. 213), " repugnava non meno alle condi- 
zioni dell'arte che alla natura di quel severo Lombardo; il quale, 
flagellando il peccato non il peccatore, discerneva i vizj della classe 
dalle persone, e continuò tutta la vita ad usare famiglie signorili ,. 
Certo, ma non plaudendo mai al vizio o deridendo la virtù, * il 
core sano e la mente ,! E non è poi vero ch'ei rifuggisse dai ri- 
tratti personali; * come non ne rifuggirono tutti gli artisti veri e 
forti, tutti i greci, il tempcratissimo Orazio, tutto il Trecento con 
a capo Dante, tutto il Cinquecento con a capo l'Ariosto, fino il 
Hoileau „ osserva giustamente il Carducci (Conwersazioni critiche, 

11 



162 IL GIORNO. 

Roma, 1884, p. 235). Che, a proposito poi del giovili signore (Storia 
del Giorno, p. 210), ripiglia: " Nell'alta e vera funzione dell'arte il 
poeta comico o satirico coglie a volo e raccoglie nella memoria, 
sorprende e rende con l'imaginazione, fisionomie, figure, atteg- 
giamenti reali; ma nell'atto di fissarli nella riproduzione della pa- 
rola trae dal più l'uno, o, come altri direbbe, idealizza. Il pubblico 
poi, a suo conto, per intuizione o di malignità o di giustizia, scopre 
e propala somiglianze „. 

E a ciò non contradicono le considerazioni, che fecero invece 
propendere il Borgognoni ad accettar la volgare identificazione • 
" Fanno pensare al Belgioioso „, egli osserva (La vita e l'arte nel 
Giorno, Verona, 1891, pag. 12), " molte espressioni, in molti luoghi 
del poema, che a luì, ricchissimo ed elegantissimo tra i ricchi ed 
eleganti patrizi milanesi di quei giorni, s' attagliano a meraviglia, 
come, per tacer di tante altre, fregio ed onor de l'amoroso regno, 
pupilla del più nobile mondo. E a lui fa pensare l'avvertimento che 
il poeta dà al parrucchiere indigeno e ordinario del giovin signore, 
di prender legge da colui che giunse pur ier di Francia: che par- 
rebbe assai chiara allusione al parrucchiere che ogni mese si fa- 
ceva venire il Belgioioso da Parigi „. Codesta ultima particolarità 
aveva difatto meglio contribuito a far nascere il pettegolezzo. Un 
tal Egidio De Magri, che nel 1829 pubblicò in Milano un Commen- 
tario storico-critico del Giorno, annotava a quei versi (p. 113): " Può 
intendersi di un nobile reduce dal viaggio di Francia, ovvero la 
illusione [sic!j è diretta a mordere un fatto, che d'altronde ne fu 
confermalo da parecchi per non esibirlo siccome certo. Il principe 

di faceva venire una volta al mese un parrucchiere di 

Francia, ne pagava le spese del lungo viaggio, e ne compensava 
largamente il servizio di fìirsi acconciare una o due fiate secondo 
la più fresca moda d'oltremonte „. 

Un altro particolare parve molto rilevante. Nei versi 702 ss. il 
giovin signore è rappresentato come un prosuntnoso per quanto 
sciocco giudice di quadri e di pittura; e il Belgioioso fu presidente 
dell'Accademia di Belle Arti! Il De Magri non s'accorge di nulla; 
ma il Cantù, proprio come se poco prima egli avesse accettata la 
identificazione, appose a quel luogo, nella prima edizione del suo 
testo {L'ab. Parini, Milano, Gnocchi, 1854, p. 335), la magra e mali- 
ziosa nolerella: "11 principe Belgioioso era divenuto presidente 
dell'Accademia delle Belle Arti „, e nella seconda (Milano, Coope- 
rativa Editrice, 1892, p. 47) soggiunse: 'il che non vuol dire che se 
ne intendesse „! Sennonché il De Castro (Poesie di G. P., Milano, 
Carrara, 1890) ha messo in chiaro che non solo, quando fu pubbli- 
calo il Mattino, il principe non era presidente di quella tale Acca- 
demia, ma l'Accademia stessa non fu fondata se non dieci anni più 
tardi, essendo siala inaugurata il 22 gennaio 1773. Si può rispondere 
anche a questo, come difatto rispose il Borgognoni (p. 14), che, 
" se nel '73 fu eletto presidente dell'Accademia, si può star certi 
che, dieci e più anni prima, il suo dilettantismo artistico era ancor 
più clamoroso e invadente. „. Un dilettantismo però non poco pro- 
ficuo, lo attestò il suo segretario, all'arte e agli artisti, nò ad ogni 



IL MATTINO. 163 

modo del genere di quelli, a me pare, che il poeta flagella. È vero 
che il giovili signorCj a tempo perso, sedeva a scranna e giudicava 
risibilmente di Raffaello o di Paolo Veronese, ma l'artista ch'ei 
protegge è " il dilicato miniator di belle „ ; laddove il Belgioioso 
faceva dipingere nelle sale del magnifico palazzo che porta sul 
fronte il suo casato e V Apoteosi di Alberigo il grande e l'episodio di 
Rinaldo nel giardino di Armida, e poi la Gloria, Y Emulazione, la 
Fortezza, la Vittoria, la Pubblica Felicità^ la Pubblica Remunerazione, 
la Immortalità del nome, su soggetti che aveva richiesti appunto al 
Parini. Il quale non si era peritato di consigliare, * per la meda- 
glia del salone „ Minerva che accenna ad Alberigo il tempio del- 
l'Immortalità, presso di cui, al basso, si sarebbero dovuto vedere 
" più soldati in varie attitudini, con uno svolazzante vessillo avente 
il motto Italia ab exteris liberata, e l'Italia che accenna il motto 
colla destra. Sarà essa „, descriveva l'onorando poeta (Op., V, 107-8), 
• una bella giovane, stellata, con una corona in capo a foggia di 
torre, in piedi, coU'asta nella sinistra. Un puttino appoggerà la de- 
stra all'Italia, e terrà nella sinistra una catena spezzata; un altro 
avrà in ambe le mani due catene rotte; un terzo la Cornucopia „. 
Perchè a buon conto il principe Alberico non era, o non era 
soltanto, un perditempo e un effeminato. ■ Tanto è vero „, mi piace 
riassumer col Carducci (St. del Giorno, p. 215), " che nel 1757, prima 
forse che il Parini pensasse al Mattino, il Belgioioso, sposo ancora 
novello, passava in Germania a prender parte alla guerra dei sette 
anni. Aiutante di campo del principe maresciallo di Soubise e poi 
tenente generale, si trovò alla battaglia di Rosbach. Finita la cam- 
pagna, il maresciallo lo spedi con dispacci a Parigi; e piacque 
assai a quella Corte, e forse ne riportò le raffinatezze che lo fecero 
singolare a Milano e il vezzo di far venire ogni mese un parruc- 
chiere da Parigi che lo acconciasse secondo l'ultimo gusto. A ogni 
modo del tenente generale combattitore a Rosbach non si poteva 
dire: 

In van te chiama 
Lo dio dell'armi: che ben folle è quegli 
Che a rischio della vita onor sì merca; 
E tu naturalmente il sangue abborri ». 

Intorno a codesto argomento si posson utilmente consultare anche 
i buoni Studi pariniani di E. Bertana (Spezia, 1893); il quale ri- 
chiamò l'attenzione sul preambolo del poema, dove • a bello studio 
e opportunamente il Parini distinse l'antica nobiltà feudale della 
spada, dalla recente nobiltà del denaro „: o a te scenda ecc.; o in 
te del sangue emendino il difetto ecc. 



IL MEZZOGIORNO 

POEMETTO 



Ardirò ancor tra i desinari illustri 
Sul meriggio innoltrarmi umil Cantore, 
Poiché troppa di te cura mi punge, 
Signor, ch'io spero un di veder maestro 
E dittator di graziosi modi 
All'alma gioventù che Italia onora. 

Tal fra le tazze e i coronati vini, 
Onde all'ospite suo fé' lieta pompa 
La punica Regina, i canti alzava 
Jopa crinito; e la Regina intanto 
Da' begli occhi stranieri iva beendo 
L'oblivion del misero Sichèo. 
E tale, allor che l'orba Itaca in vano 
Ghiedea a Nettun la prole di Laerte, 
Femio s'udia co' versi e con la cetra 
La facil mensa rallegrar de* Proci 
Cui dell'errante Ulisse i pingui agnelli 
E i petrosi licori e la consorte 
Invitavano al pranzo. Amici or piega, 
Giovin Signore, al mio cantar gli orecchi. 
Or che tra nuove Elise, e nuovi Proci, 
E tra fedeli ancor Penelopèe, 
Ti guidano a la mensa i versi miei. 

Già dal meriggio ardente il Sol fuggendo 
Verge all'occaso; e i piccioli mortali 
Dominati dal tempo escon di novo 
A popolar le vie eh' ali* oriente 
Volgon ombra già grande: a te nuli' altro 
Dominator fuor che te stesso è dato. 
Alfin di consigliarsi al fido speglio 



168 IL GIORNO (v. 31-70). 

La tua Dama cessò. Quante uopo è volte 
Gliiedette e rimandò novelli ornati ; 
Quante convien de le agitate ognora 
Damigelle or con vezzi or con garriti 
Rovesciò la fortuna ; a sé medesma 
Quante volte convien piacque e dispiacque; 
E quante volte é d'uopo a sé ragione 
Fece, e a* suoi lodatori. I mille intorno 
Dispersi arnesi alfin raccolse in uno 
La consapevol del suo cor ministra : 
Alfin velata d'un leggier zendado 
È l'ara tutelar di sua beltate; 
E la seggiola sacra un po' rimossa, 
Languidetta l'accoglie. Intorno ad essa 
Pochi giovani eroi van rimembrando 

I cari lacci altrui, mentre da lungi 
Ad altra intorno i cari lacci vostri 
Pochi giovani eroi van rimembrando. 

Il marito gentil queto sorride 
A le lor celie ; o s' ei si cruccia alquanto, 
Del tuo lungo tardar solo si cruccia. 
Nulla però di lui cura te prenda 
Oggi, o Signore; e s'egli a par del vulgo 
Prostrò l'anima imbelle, e non sdegnosse 
Di chiamarsi marito, a par del vulgo 
Senta la fame esercitargli in petto 
Lo stimol fier degli oziosi sughi 
Avidi d'esca ; o, s' a un marito alcuna 
D'anima generosa orma rimane, 
Ad altra mensa il pie rivolga, e d'altra 
Dama al fianco s'assida il cui marito 
Pranzi altrove lontan d' un' altra a lato 
Ch' abbia lungi lo sposo : e cosi nuove 
Anella intrecci a la catena immensa 
Onde, alternando, Amor l'anime annoda. 

Ma sia che vuol, tu baldanzoso innoltra 
Ne le stanze più interne. Ecco precorre 
Per annunciarti al gabinetto estremo 

II noto stropiccio de' piedi tuoi. 

Già lo sposo t'incontra. In un baleno 



IL MEZZOGIORNO (v. 71-110). 169 

Sfugge dairaltrui man Taccorta mano 
De la tua Dama; e il suo bel labbro intanto 
T'apparecchia un sorriso. Ognun s'arretra 
Che conosce i tuoi dritti, e si conforta 
Con le adulte speranze, a te lasciando 
Libero e scarco il più beato seggio. 
Tal colà dove infra gelose mura 
Bisanzio ed Ispaàn guardano il fiore 
De la beltà che il popolato Egèo 
Manda, e TArmeno, e il Tartaro, e il Circasso, 
Per delizia d'un solo, a bear entra 
L'ardente sposa il grave Munsulmano. 
Tra'l maestoso passeggiar gli ondeggiano 
Le late spalle, e sopra l'alta testa 
Le avvolte fasce : dall'arcato ciglio 
Ei volge intorno imperioso il guardo ; 
E vede al su' apparire umil chinarsi, 
E il pie ritrar l'effeminata, occhiuta 
Turba, che sorridendo egli dispregia. 

Ora imponi, o Signor, che tutte a schiera 
Si dispongan tue grazie, e a la tua Dama 
Quanto elegante esser più puoi ti mostra. 

• Tengasi al fianco la sinistra mano 
Sotto il breve giubbon celata ; e l'altra 
Sul finissimo lin posi, e s'asconda 
Vicino al cor : sublime alzisi *1 petto, 
Sorgan gli omeri entrambi, e verso lei 
Piega il duttile collo; ai lati stringi 
Le labbra un poco; vèr lo mezzo acute 
Rendile alquanto, e da la bocca poi 
Compendiata in guisa tal sen esca 
Un non inteso mormorio. La destra 
Ella intanto ti porga, e molle caschi 
Sopra i tiepidi avorj un doppio bacio. 
Siedi tu poscia ; e d'una man trascina 
Più presso a lei la seggioletta. Ognuno 
Tacciasi ; ma tu sol curvato alquanto 
Seco susurra ignoti detti, a cui 
Goncordin vicendevoli sorrisi, 
E sfavillar di cupidette luci 



170 IL GIORNO (V. 111-150). 

Che amor dimostri, o che lo finga almeno. 
Ma rimembra, o Signor, che troppo nuoce 
Negli amorosi cor lunga e ostinata 
Tranquillità. Su l'oceano ancora 
Perigliosa è la calma : oh quante volte 
Dall'immobile prora il buon nocchiere 
Invocò la tempesta I e si crudele 
Soccorso ancor gli fu negato; e giacque 
Affamato, assetato, estenuato, 
Dal velenoso aere stagnante oppresso. 
Tra l'inutile ciurma al suol languendo. 
Però ti giovi de la scorsa notte 
Ricordar le vicende, e con obliqui 
Motti pungerl' alquanto : o se nel volto 
Paga più che non suole accór fu vista 
Il novello straniere, e co' bei labbri 
Semiaperti aspettar, quasi marina 
Conca, la soavissima rugiada 
De' novi accenti; o se cupida troppo 
Gol guardo accompagnò di loggia in loggia 
Il seguace di Marte, idol vegliante 
De'feminili voti, a la cui chioma 
Gol lauro trionfai s' avvolgon mille 
E mille frondi dell' Idalio mirto. 
Golpevole o innocente, allor la bella 

Dama improvviso adombrerà la fronte 
. D'un nuvolette di verace sdegno 
O simulato ; e la nevosa spalla 
Scoterà un poco; e premerà col dente 
L'infimo labbro; e volgeransi alfine 
Gli altri a bear le sue parole estreme. 
Fors' anco rintuzzar di tue querele 
Saprà l'agrezza ; e sovvenir faratti 
Le visite furtive ai tetti, ai cocchi 
Ed a le logge de le mogli illustri 
Di ricchi cittadini : a cui sovente, 
Per calle che il piacer mostra, piegarsi 
La maestà di cavalier non sdegna. 
Felice te, se mesta e disdegnosa 
La conduci a la mensa ; e s' ivi puoi 



IL MEZZOGIORNO {v, 151-190). 171 

Solo piegarla a comportar de' cibi 
La nausea universali Sorridan pure 
A le vostre dolcissime querele 
I convitati, e T un T altro pereota 
Gol gomito maligno : ah nondimeno 
Come fremon lor alme, e quanta invidia 
Ti portan, te veggendo unico scopo 
Di si bell'ire! Al solo sposo è dato 
Nodrir nel cor magnanima quiete. 
Mostrar nel volto ingenuo riso, e tanto 
Docil fidanza ne le innocue luci. 
O tre fiate avventurosi e quattro. 
Voi del nostro buon secolo mariti, 
Quanto diversi da' vostr'avi ! Un tempo 
liscia d'Averno con viperei crini, 
Con torbid' occhi irrequieti, e fredde 
Tenaci branche, un indomabil mostro 
Che ansando et anelando intorno giva 
Ai nuziali letti, e tutto empiea 
Di sospetto e di fremito e di sangue. 
Allor gli antri domestici, le selve. 
L'onde, le rupi alto ulular s' udièno 
Di feminili strida; allor le belle 
Dame con mani incrocicchiate, e luci 
Pavide al ciel, tremando, lagrimando. 
Tra la pompa feral de le lugubri 
Sale vedean dal truce sposo offrirsi 
Le tazze attossicate o i nudi stili. 
Ahi pazza Italia ! Il tuo furor medesmo 
Oltre l'Alpi, oltre '1 mar destò le risa 
Presso gli emoli tuoi, che di gelosa 
Titol ti dièro, e t' é serbato ancora 
Ingiustamente. Non di cieco amore 
Vicendevol desire, alterno impulso. 
Non di costume simiglianza or guida 
Gl'incauti sposi al talamo bramato; 
Ma la Prudenza coi canuti padri 
Siede librando il molt' oro e i divini 
Antiquissimi sangui; e allor che l'uno 
Bene all'altro risponde, ecco Imeneo 



172 IL GIORNO (vr. 191-230). 

Scoler sua face; e unirsi al freddo sposo, 
Di lui non già ma de le nozze amante, 
La freddissima vergine, che in core 
Già volge i riti del Bel Mondo, e lieta 
L'indifferenza maritale affronta. 
Cosi non fien de la crudel Megera 
Più temuti gli sdegni. Oltre Pirene 
Contenda or pur le desiate porte 
Ai gravi amanti, e di feminee risse 
Turbi Oriente: Italia oggi si ride 
Di quello ond' era già derisa ; tanto 
Puote una sola età volger le menti. 
Ma già rimbomba d' una in altra sala 
Il tuo nome, o Signor; di già l'udirò 
L'ime officine, ove al volubil tatto 
Degl' ingenui palati arduo s' appresta 
Solletico che molle i nervi scota, 
E vaiia seco voluttà conduca 
Fino al core dell'alma. In bianche spoglie 
S'affrettano a compir la nobil opra 
Prodi ministri; e lor sue leggi detta 
Una gran mente, del paese uscita 
Ove Colbert e Richelieu fur chiari. 
Forse con tanta maestade in fronte. 
Presso a le navi ond' Ilio arse e cadéo, 
Per gli ospiti famosi il grande Achille 
Disegnava la cena ; e seco intanto 
Le vivande cocean sui lenti fochi 
Patroclo fido e il guidator di carri 
Automedonte. O tu sagace mastro 
Di lusinghe al palato, udrai fra poco 
Sonar le lodi tue dall'alta mensa. 
Chi fìa che ardisca di trovar pur macchia 
Nel tuo lavoro ? Il tuo Signor farassi 
Campion de le tue glorie: e male a quanti 
Cercator di conviti oseran motto 
Pronunciar contro te; che sul cocente 
Meriggio andran peregrinando poi 
Miseri e stanchi, e non avran cui piaccia 
Più popolar con le lor bocche i pranzi. 



IL MEZZOGIORNO (v. 231-270). 173 

Imbandita è la mensa. In pie d'un salto 
Alzati e porgi, almo Signor, la mano 
A la tua Dama ; e lei dolce cadente 
Sopra di te col tuo valor sostieni, 
E al pranzo Taccompagna. I convitati 
Vengan dopo di voi ; quindi '1 marito 
Ultimo segua, O prole alta di numi. 
Non vergognate di donar voi anco 
Pochi momenti al cibo: in voi non fìa 
Vii opra il pasto ; a quei soltanto é vile 
Che il duro irresistibile bisogno 
Stimola e caccia. All'impeto di quello 
Gedan Torso, la tigre, il falco, il nibbio, 
L'orca, il delfino, e quant'altri mortali 
Vivon quaggiù; ma voi con rosee labbra 
La sola Voluttade inviti al pasto, 
La sola Voluttà che le celesti 
Mense imbandisce, e al nettare convita 

I viventi per sé Dei sempiterni. 
Forse vero non è; ma un giorno è fama 

Che fur gli uomini eguali, e ignoti nomi 
Fur Plebe e Nobiltade. Al cibo, al bere, 
All'accoppiarsi d'ambo i sessi, al sonno 
Un istinto medesmo,. un' egual forza 
Sospingeva gli umani, e niun consiglio. 
Ninna scelta d'obbietti o lochi o tempi 
Era lor conceduta. A un rivo stesso, 
A un medesimo frutto, a una stess' ombra 
Convenivano insieme i primi padri 
Del tuo sangue, o Signore, e i primi padri 
De la plebe spregiata. I medesm' antri, 

II medesimo suolo offrieno loro 

11 riposo e l'albergo, e a le lor membra 
I medesmi animai le irsute vesti. 
Sol una cura a tutti era comune : 
Di sfuggire il dolore; e ignota cosa 
Era il desire agli uman petti ancora. 
L'uniforme degli uomini sembianza 
Spiacque a' Celesti ; e a variar la terra. 
Fu spedito il Piacer. Quale già i numi 



174 IL GIORNO (v. 271-310). 

D' Ilio sui campi, tal ramico Genio 

Lieve lieve per Taére labendo 

S' avvicina a la Terra ; e questa ride 

Di riso ancor non conosciuto. Ei move, 

E l'aura estiva del cadente rivo 

E dei clivi odorosi a lui blandisce 

Le vaghe membra, e lenemente sdrucciola 

Sul tondeggiar dei muscoli gentile. 

Gli s'aggiran dintorno i Vezzi e i Giochi, 

E come ambrosia le lusinghe scorrongli 

Da le fraghe del labbro ; e da le luci 

Socchiuse, languidette, umide, fuori 

Di tremulo fulgore escon scintille 

Ond' arde V aere che scendendo ei varca. 

Aìfìn sul dorso tuo sentisti, o Terra, 
Sua prim'orma stamparsi; e tosto un lento 
Fremere soavissimo si sparse 
Di cosa in cosa; e ognor crescendo, tutte 
Di natura le viscere commosse : 
Come nell'arsa state il tuono s'ode 
Che di lontano mormorando viene, 
E col profondo suon di monte in monte 
Sorge, e la valle e la foresta intorno 
Muggon del fragoroso alto rimbombo. 
Finché poi cade la feconda pioggia 
Che gli uomini e le fere e i fiori e l'erbe 
Ravviva, riconforta, allegra e abbella. 

Oh beati tra gli altri, oh cari al cielo 
Viventi, a cui con miglior man Titano 
Formò gli organi illustri, e meglio tese, 
E (li fluido agilissimo inondolli ! 
Voi r ignoto solletico sentiste 
Del celeste motore. In voi ben tosto 
Le voglie fermentar, nacque il desìo. 
Voi primieri scopriste il buono, il meglio; 
E con foga dolcissima correste 
A possederli. AUor quel de' due sessi. 
Che necessario in prima era soltanto. 
D'amabile e di bello il nome ottenne. 
Al giudizio di Paride voi deste 



IL MEZZOGIORNO (v. 311-344). 175 

Il primo esempio : tra feminei volti 
A distinguer s' apprese ; e voi sentiste 
Primamente le grazie. A voi tra mille 
Sapor fur noti i più soavi : allora 
Fu il vin preposto all'onda; e il vin s'elesse 
Figlio debraici più riarsi e posti 
A più fervido sol, ne' più sublimi 
Colli dove più zolfo il suolo impingua. 
Cosi r Uom si divise : e fu il Signore 
Dai volgari distinto, a cui nel seno 
Troppo languir l'ebeti fibre, inette 
A rimbalzar sotto i soavi colpi 
De la nova cagione onde fur tocche; 
E quasi bovi, al suol curvati ancora 
Dinanzi al pungol del bisogno andàro, 
E, tra la servitude e la viltade 
E '1 travaglio e l'inopia a viver nati, 
Ebber nome di Plebe. Or tu. Signore, 
Che feltrato per mille invitte reni 
Sangue racchiudi, poiché in altra etade 
Arte, forza o fortuna i padri tuoi 
Grandi rendette, poiché il tempo alfine 
Lor divisi tesori in te raccolse. 
Del tuo senso gioisci, a le da i numi 
Concessa parte : e 1' umil vulgo intanto 
Dell'industria donato ora ministri 
A te i piaceri tuoi, nato a recarli 
Su la mensa real non a gioirne. 
Ecco la Dama tua s' asside al desco : 
Tu la man le abbandona; e mentre il servo. 
La seggiola avanzando, all'agii fianco 
La sottopon, si che lontana troppo 
Ella non sia nò da vicin col petto 
Prema troppo la mensa, un picciol salto * 



* Nei manoscritti: â–  Ecco splende il gran desco. In mille forme 
K di mille sapor di color mille La variata eredità de gli avi Scherza 
in nobil di vasi ordin disposta. Già la dama s'appressa : e già da 
i servi II morbido per lei seggio s'adatta. Tn, Signor, di tua 
mano all'agii fianco II sottopon, si che lontana troppo Ella non 
sieda o da vicin col petto Ahi! di troppo non prema: indi un 
bel salto...,. I primi di questi versi si ritroveranno più oltre, .383-380. 



176 IL GIORNO (v. 345-384). 

Spicca, e chino raccogli a lei del lembo 
11 diffuso volume. A lato poscia 
Di lei tu siedi : a cavalier gentile 
Il fianco abbandonar de la sua dama 
Non fìa lecito mai, se già non sorge 
Strana cagione a meritar ch'egli usi 
Tanta licenza. Un Nume ebber gli antichi 
Immobil sempre, e ch'alio stesso padre 
Degli Dei non cedette, allor ch'ei venne 
11 Campidoglio ad abitar, sebbene 
E Gì uno e Febo e Venere e Gradivo 
E tutti gli altri Dei da le lor sedi 
Per riverenza del Tonante uscirò. 
Indistinto ad ognaltro il loco fìa 
Presso al nobile desco: e s' alcun arde 
Ambizioso di brillar fra gli altri, 
Brilli altramente. Oh come i varj ingegni 
La libertà del genial convito 
Desta ed infiamma! Ivi il gentil Motteggio, 
Maliziosetto svolazzando intorno, 
Reca su l'ali fuggitive ed agita 
Ora i raccolti da la fama errori 
De le belle lontane, ora d' amante 

di marito i semplici costumi ; 
E gode di mirare il queto sposo 
Rider primiero, e di crucciar con lievi 
Minacce in cor de la sua fida sposa 

1 timidi segreti. Ivi abbracciata 
Co' festivi Racconti intorno gira 
L'elegante Licenza : or nuda appare 
Come le Grazie ; or con leggiadro velo 
Solletica vie meglio, e s' afì'atica 

Di richiamar de le matrone al volto 
Quella rosa gentil, che fu già un tempo 
Onor di belle donne, all'Amor cara 
E cara all'Onestade, ora ne' campi 
Cresce solinga, e tra i selvaggi scherzi 
A le rozze villane il viso adorna. 
Già s'avanza la mensa. In mille guise 
E di mille sapor, di color mille. 



IL MEZZOGIORNO (v. 385-424). 177 

La variata eredità degli avi 
Scherza ne' piatti, e giust' ordine serba. 
Forse a la Dama di sua man le dapi 
Piacerà ministrar, che novo pregio 
Acquisteran da lei. Veloce il ferro, 
Che forbito ti attende al destro lato, 
Nudo fuor esca ; e come quel di Marte, 
Scintillando lampeggi: indi la punta 
Fra due dita ne stringi, e chino a lei 
Tu il presenta, o Signore. Or si vedranno 
De la candida mano all'opra intenta 

I muscoli giocar soavi e molli ; 
E le Grazie, piegandosi dintorno, 
Vestiran nuove forme, or da le dita 
Fuggevoli scorrendo, ora su l'alto 
De' bei nodi insensibili aleggiando, 
Ed or de le pozzette in sen cadendo 

Che dei nodi al confin v' impresse Amore. 
Mille baci di freno impazienti 
Ecco sorgon dal labbro ai convitati ; 
Già s' arrischian, già volano, già un guardo 
Sfugge dagli occhi tuoi che i vanni audaci 
Fulmina et arde, e tue ragion difende. 
Sol de la fida sposa a cui se' caro 

II tranquillo marito immoto siede.: 
E nulla impress'ion l'agita e scuote 
Di brama o di timor; però che Imene 
Da capo a pie fatollo. Imene or porta 
Non più serti di rose avvolti al crine, 
Ma stupido papavero grondante 

Di crassa onda Letéa: Imene e il Sonno 
Oggi han pari le insegne. Oh come spesso 
La Dama dilicata invoca il Sonno 
Che al talamo presieda, e seco invece 
Trova Imenèo; e stupida rimane, 
Quasi al meriggio stanca villanella 
Che tra l'erbe innocenti adagia il fianco 
Queta e sicura, e d'improvviso vede 
Un serpe, e balza in piedi inorridita, 
E le rigide man stende, e ritraggo 

12 



178 IL GIORNO (v. 425-460). 

Il gomito, e l'anelito sospende, 
E immota e muta, e con le labbra aperte. 
Obliquamente il guarda ! Oh come spesso 
Incauto amante a la sua lunga pena 
Cercò sollievo: et invocar credendo 
Imene, ahi folle ! invocò il Sonno ; e questi 
Di fredda oblivìon Talma gli asperse, 
E d' invincibil noja e di torpente 
Indifferenza gli ricinse il core! 

Ma se a la Dama dispensar non piace 
Le vivande, o non giova, allor tu stesso 
Il bel lavoro imprendi. Agli occhi altrui 
Più brillerà cosi l'enorme gemma, 
Dole' esca a gli usurai, che quella osàro 
A le promesse di Signor preporre 
Villanamente; ed osservati fièno 
I manichetti, la più nobil opra 
Che tessesse giammai ànglica Aracne. 
Invidieran tua dilicata mano 
I convitati ; inarcheran le ciglia 
Sul diffìcil lavoro, e d'oggi in poi 
Ti fia ceduto il trinciator coltello 
Che al cadetto guerrier serban le mense. * 

Teco son io. Signor; già intendo e veggo. 
Felice osservatore, i detti e i moti 
De' Semidei che coronando stanno 
E con vario costume ornan la mensa. 
Or, chi è quell'eroe che tanta parte 
Colà ingombra di loco, e mangia e fiuta 
E guata e de le altrui cure ridendo 
Si superba di ventre agita mole? 
Oh di mente acutissima dotate 
Mamme del suo palato ! oh da' mortali 
Invidiabil anima che siede 
Tra la mirabil lor testura, e quindi 
L'ultimo del piacer deliquio sugge! 



* Il Mazzoni annota: "Dicono che l'onore di trinciare a mensa 
le vivande spettasse al cadetto, ossia al giovane che già vestiva la 
divisa militare per poi divenire officiale ,. 



IL MEZZOGIORNO (v. 461-500). 179 

Chi più saggio di lui penetra e intende 
La natura migliore; o chi più industre 
Converte a suo piacer Taria, la terra, 
E '1 ferace di mostri ondoso abissò ? 
Qualor s'accosta al desco' altrui, paventano 
Suo gusto inesoi^abile le smilze 
Ombre de' padri, cha per l'aria lievi 
S' aggirano vegliando ancora intorno 
Ai ceduti tesori; é piangon lasse 
Le mal spese vigilie, i sòbrj pasti, 
Le in preda all'aquilon case, le antique 
Digiune rozze, gli scommessi cocchi 
Forte aissordanti per stridente ferro 
Le piazze e i tetti ; é lamentando vanno 
Grinvan nudati rustici, le fami 
Mal desiate, e de le sacre toghe 
L'armata in vano autorità sul vulgo. 
Chi siede a lui vicin ? Per certo il caso 
Congiunse accorto i due leggiadri estremi, 
Perchè doppio spettacolo campeggi, 
E l'un dell'altro al par più lustri e splenda. 
Falcato Dio degli orti, a cui la Greca 
Làmsaco d' asinelli offrir solca 
Vittima degna, al giovine seguace 
Del sapiente ; di Samo i doni tuoi 
Reca sul desco. Egli ozioso siede 
Dispregiando le carni; e le narici 
Schifo raggrinza, in nauseanti rughe 
Ripiega i labbri, e poco pane intanto 
Rumina lentamente. Altro giammai 
A la squallida fame eroe non seppe 
Durar si fòrte: né lassezza il vinse, 
Né' deliquio giammai, né febbre ardente; 
Tanto importa lo aver scarze le membra, 
Singolare il costume, e nel bel mondo 
Gnor di filosofico talento. 
Qual anima è volgar la sua pleiade 
All' Uom riserbi ; e facile ribrezzo 
Destino in lei del suo simile i danni, 
r bisogni e le piaghe. Il cor di lui 



180 IL GIORNO {v. 501-540). 

Sdegna comune affetto; e i dolci moti 
A più lontano limite sospinge. 
« Péra colui che prima osò la mano 
Armata alzar su l' innocente agnella 
E sul placido bue : né il truculento 
Cor gli piegàro i teneri belati, 
Né i pietosi mugiti, né le molli 
Lingue lambenti tortuosamente 
La man che il loro fato, ahimé, stringea! » 
Tal ei parla, o Signore; e sorge intanto 
Al suo pietoso favellar dagli occhi 
Uè la tua Dama dolce lagrimetta, 
Pari a le stille tremule, brillanti, 
Che a la nova stagion gemendo vanno 
Da i pàlmiti di Bacco entro commossi 
Al tiepido spirar de le prim'aure 
Fecondatrici. Or le sovviene il giorno, 
Ahi fero giorno!, allor che la sua bella 
Vergine cuccia de le Grazie alunna, 
Giovenilmente vezzeggiando, il piede 
Villan del servo con l'eburneo dente 
Segnò di lieve nota : ed egli audace 
Con sacrilego pie lancioUa : e quella 
Tre volte rotolò ; tre volte scosse 
Gli scompigliati peli, e da le molli 
Nari soffiò la polvere rodente. 
Indi i gemiti alzando, aita ! aita ! 
Parea dicesse; e da le aurate volte 
A lei l'impietosita Eco rispose: 
E dagV infimi chiostri i mesti servi 
Asceser tutti ; e da le somme stanze 
Le damigelle pallide tremanti 
Precipiterò. Accorse ognuno; il volto 
Fu spruzzato d'essenze a la tua Dama. 
Ella rinvenne alfin; l'ira, il dolore 
L'agitavano ancor; fulminei sguardi 
Gettò sul servo, e con languida voce 
Chiamò tre volte la sua cuccia : e questa 
Al sen le corse; in suo tenor vendetta 
Chieder sembrolle : e tu vendetta avesti, 



IL MEZZOGIORNO (v. 541-580). 181 

Vergine cuccia de le Grazie alunna. 
L'empio servo tremò; con gli occhi al suolo 
Udì la sua condanna. A lui non valse 
Merito quadrilustre ; a lui non valse 
Zelo d'arcani uficj: in van per lui 
Fu pregato e prom^isso; ei nudo andonne 
Dell'assisa spogliato ond' era up giorno 
Venerabile al vulgo. In van novello 
Signor sperò; che le pietose dame 
Inorridirò, e del misfatto atroce 
Odiar l'autore. Il misero si giacque 
Con la squallida prole e con la nuda 
Consorte a lato su la via spargendo 
Al passeggiere inutile lamento: 
E tu vergine cuccia, idol placato 
Da le vittime umane, isti superba. 
Fia tua cura, o Signore, or che più ferve 
La mensa, di vegliar su i cibi ; e pronto 
Scoprir qual d'essi a la tua dama è caro, 
qual di raro augel, di stranio pesce 
Parte le aggrada. Il tuo coltello Amore 
Anatomico renda. Amor che tutte 
Degli animali noverar le membra 
Puote, e discerner sa qual abbian tutte 
Uso e natura. Più d' ognaltra cosa 
Però ti caglia rammentar mai sempre 
Qual più cibo le noccia o qual più giovi; 
E l'un rapisci a lei, l'altro concedi 
Come d'uopo ti par. Serbala, oh dio. 
Serbala ai cari figli! Essi dal giorno 
Che le alleviàro il dilicato fianco 
Non la rivider più : d' ignobil petto 
Esaurirono i vasi, e la ricolma 
Nitidezza serbàro al sen materno. 
Sgridala, se a te par eh' avida troppo 
Agogni al cibo; e le ricorda i mali, 
Che forse avranno filtra cagione e ch'ella 
Al cibo imputerà nel di venturo. 
Né al cucinier perdona, a cui non calse 
Tanta salute. A te sui servi altrui 



182 IL GIORNO (v. 581-616). . . 

Ragion donossi in quel' felice istante 
Che la noia o l'amor vi strinser ambo . 
In dolce nodo, e dièr ordini e leggi. 
Per te sgravato d'odioso incarco, - â–  

Ti fìa grato colui che dritto vanta ' 
D'impor novo cognome a la tua Dama, 
E pinte trascinar su gli aurei cocchi 
Giunte a quelle di lei le proprie insegne : 
Dritto illustre per lui, e eh' altri seco 
Audace non tentò divider mai. * 
Ma non sempre, o Signor, tue cure fièno 
A la Dama rivolte: anco talora 
Ti fìa lecito aver qualche riposo; 
E de la quercia trionfale all'ombra 
Te de la polve olimpica tergendo, 
Al vario ragionar degli altri eroi 
Porgere orecchio, e il tuo sermone ai loro 
Ozioso mischiar. Già scote un d'essi 
Le architettate del bel crine anella 
Su l'orecchio ondeggianti, e ad ogni scossa, 
De' convitati a le narici manda 
Vezzoso nembo d'arabi profumi. 
Allo spirto di lui l'alma Natura 
Fu prodiga cosi, ,che più non seppe 
Di clie il volto abbellirgli; e all'Arto disse: 
Compisci '1 mio lavoro; e l'Arte suda 
Sollecita d'intorno all'opra illustre. 
Molli tinture, preziose linfe. 
Polvi, pastiglie, dilicati unguenti, 
'Tutto arrischia per lui. Quanto di novo 
E mostruoso più sa tesser spola, 

bulino intagliar Francese ed Anglo, 
A lui primo concede. Oh lui beato 
Che primo può di non più viste forme 
Tabacchiera mostrar! L'etica Invidia 

1 Grandi eguali a lui lacera e mangia ; 



* Nel manoscritto continua: " Vedi come col guardo a te la cenno 
Pago ridendo, e a le tue leggi applaude; Mentre Talta forcina in 
tanto ci volge Di gradite vivande al piatto ancorai. 



IL MEZZOGIORNO (v. 617^656). 18S3 

Ed ei pago di sé, superbamente 
Crudo, fa loro balenar su gli occhi 
L'ultima gloria onde Parigi ornollo. 
Forse altera cosi d'Egitto in faccia, 
Vaga prole di Sémele, apparisti 

I giocondi rubini alto levando 

Del grappolo primiero: e tal tu forse, 
Tessàlico garzon, mostrasti a Jolco 
L'auree lane rapite al fero Drago. 
Vedi, o Signor, quanto magnanim'ira 
Nell'eroe che vicino all'altro siede 
A quel novo spettacolo si desta; " 
Vedi come s'affanna, e sembra il cibo 
Obliar declamando. Al certo, al certo, 

II nemico è a le porte: ohimè i Penati 
Tremano, e in forse è la civil salute! 
Ah no; più grave a lui, più preziosa 
Cura lo infiamma: «Oh depravati ingegni 
Degli artefici nostri! In van si spera 
Dall'inerte lor man lavoro industre. 
Felice invenzìon d'uom nobil degna! 

Chi sa intrecciar, chi sa pulir fermaglio 
A nobile calzar? chi tesser drappo 
Soflribil tanto, che d'ornar presuma 
Le membra di Signor che un lustro a pena 
Di feudo conti? In van s'adopra e stanca 
Chi '1 genio lor bituminoso e crasso 
Osa destar. Di là dall'Alpi è forza 
Ricercar l'eleganza: e chi giammai 
Fuor che il Genio di Francia osato avrebbe 
Su i menomi lavori i Grechi ornati 
Recar felicemente? Andò romito 
Il Bongusto finora spaziando 
Su le auguste cornici, e su gli eccelsi 
Timpani de le moli al Nume sacre 
E agli uomini scettrati; oggi ne scende 
Vago alfin di condurre i gravi fregi 
Infra le man di cavalieri e dame: 
Tosto forse il vcdrem trascinar anco 
Su molli veli e nuziali doni • . . 



18i IL GIORNO (v. 657-696). 

Le Greche travi; e docile trastullo 
Fien de la Moda le colonne e gli archi 
Ove sedeano i secoli canuti ». 
Commercio! alto gridar, gridar Commercio ! 
Airaltro lato de la mensa or odi 
Con fanatica voce; e tra '1 fragore 
D'un peregrino d'eloquenza fiume, 
Di bella novità stampate al conio 
Le forme apprendi, onde assai meglio poi 
Brillantati i pensier picchin la mente. 
Tu pur grida Commercio! e la tua Dama 
Anco un motto no dica. Empiono, è vero, 
11 nostro suol di Cerere i favori, 
Che tra i folti di biade immensi campi 
Move sublime, e fuor ne mostra a pena 
Tra le spighe confuso il crin dorato. 
Bacco e Vertunno i lieti poggi intorno 
Ne coronan di poma, e Pale amica 
Latte ne preme a larga mano, e tónde 
Candidi velli, e per li prati pasce 
Mille al palato uman vittime sacre. 
Cresce fecondo il lin, soave cura 
Del verno rusticale; e d'infinita 
Serie ne cinge le campagne il tanto 
Per la morte di Tisbe arbor famoso. 
Che vale or ciò? Su le natie lor balze 
Rodan le capre; ruminando il bue 
Lungo i prati natii vada; e la plebe, 
Non dissimile a lor, si nutra e vesta 
De le fatiche sue: ma a le grand'alme. 
Di troppo agevol ben schife, Cillenio 
Il comodo presenti a cui le miglia 
Pregio acquistino, e l'oro: e d'ogn'intorno 
Commercio! risonar s'oda. Commercio! 
Tale dai letti de la molle rosa 
Sibari ancor gridar soleva; i lumi 
Disdegnando volgea dai campi aviti, 
Troppo per lei ignobil cura: e mentre 
Cartagin dura a le fatiche, e Tiro, 
Pericolando per l'immenso sale, 



IL MEZZOGIORNO (v. 697-736). 185 

Con Toro altrui le voluttà cambiava, 
Sibari si volgea sulFaltro lato; 
E non premute ancor rose cercando, 
Pur di commercio novellava e d'arti. 

Né senza i miei precetti e senza scorta 
Inerudito andrai, Signor, qualora 
Il perverso destin dal fianco amato 
T'allontani a la mensa. Avvien sovente 
Che un Grande illustre or TAlpi or Toccano 
Varca e scende in Ausonia, orribil ceffo 
Per natura o per arte, a cui Ciprigna 
Róse le nari, e sale impuro e crudo 
Snudò i denti ineguali. Ora il distingue 
Risibil gobba, or furiosi sguardi 
Obliqui o loschi; or rantoloso avvolge 
Tra le tumide fauci ampio volume 
Di voce che gorgoglia ed esce alfine 
Come da inverso fiasco onda che goccia. 
Or d'avi, or di cavalli, ora di Frini 
Instancabile parla, or de' Celesti 
Le folgori deride. Aurei monili 
E gemme e nastri, gloriose pompe, 
L'ingombran tutto; e gran titolo suona 
Dinanzi a lui. Qual più tra noi risplende 
Inclita stirpe ch'onorar non voglia 
D'un ospite si degno i lari suoi? 
Ei però sederà de la tua Dama 
Al fianco ancora: e tu lontan da Giuno 
Tra i Silvani capripedi n'andrai 
Presso al marito; e pranzerai negletto 
Col popol folto degli Dei minori. 

Ma negletto non già dagli occhi andrai 
De la Dama gentil, che a te rivolti 
Incontreranno i tuoi. L'aere a quell'urto 
Arderà di faville, e Amor con l'ali 
L'agiterà. Nel fortunato incontro 
I messagger pacifici dell'alma 
Cambieran lor novelle, e alternamente 
Spinti rifluiranno a voi con dolce 
Delizioso tremito su i cori. 



186 IL GIORNO (v. 737-776). 

Tu le ubbidisci allora, o se t'invita 
Le vivande a gustar che a lei vicine 
L'ordin dispose, o se a te chiede in vece 
Quella che innanzi a te sue voglie punge 
Non col soave odor, ma con le nove 
Leggiadre forme onde abbellir la seppe 
Deirammirato cucinier la mano. 
Con la mente si pascono gli Dei 
Sopra le nubi del brillante Olimpo; 
E le labbra immortali irrita e move 
Non la materia, ma il divin lavoro. 
Né inlento meno ad ubbidir sarai 

I cenni del bel guardo, allor che quella 
Di licor peregrino ai labbri accosta 
Colmo bicchiere, a lo cui orlo intorno 
Serpe dorata striscia, o a cui vermiglia 
Cera la base impronta, e par che dica : 
Lungi, o labbra profane; al labbro solo 
De la Diva che qui soggiorna e regna 

II castissimo calice si serbi; 
Né cavalier con l'alito maschile 
Osi appannarne il nitido cristallo, 
Nò dama convitata unqua presuma 

Di porvi i labbri, e sien pur casti e puri 
E quant' esser si può cari all'amore t 
Nessun' altra è di lei più pura cosa ; 
Chi macchiarla oserà ? Le Ninfe in vano, 
Da le arenose loro urne versando 
Cento limpidi rivi, al candor primo 
Tornar vorrieno il profanato vaso, 
E degno farlo di salir di novo 
A le labbra celesti, a cui non lice 
Inviolate approssimarsi ai vasi 
Che convitati cavalieri e dame 
Convitate macchiar coi labbri loro. 
Tu ai cenni del bel guardo, e de la mano 
Che reggendo il bicchier sospesa ondeggia, 
Ailettiioso attendi. I guardi tuoi 
Sfavillando di gioja accolgan lieti 
Il brindisi segreto ;-o tu ti accingi - 



IL MEZZOGIORNO (v. 777-816). 187 

In siinil modo a tacita risposta. 
Immor tal come voi la nostra Musa 
Brindisi grida airùno e alT altro amante : 
Airaltrui fida sposa a ctii se' caro, 
E a te, Signor, sua dolce cura e nostra. 
Come annoào licor Lièo vi mesce, 
Tale Amore a voi mesca eterna gioja 
Non gustata al marito, e da coloro 
Invidiata che gustata V hanno. 
Veli con Tali sue sagace oblio 
Le alterne infedeltà 6he un cor dall'altro 
Potrieno un giorno separar per sempre, 
E sole agli occhi vostri Amor discopra 
Le alterne infedeltà che in ambo i cori 
Ventilar possan le cedenti fiamme. 
Un sempiterno indissolubil nodo 
Àuguri ai vostri cor volgar cantore ; 
Nostra nobile Musa a voi desia 
Sol fin che piace a voi durevol nodo. 
Duri fin che a voi piace, e non si sciolga 
Senza che Fama sopra Tali immense 
Tolga l'alta novella, e grande n'empia 
Gol reboàto dell'aperta tromba 
L'ampia cittade, e dell'Enotria i monti 
E le piagge sonanti, e, s' esser puote, 
La bianca Teti e Guadiana e Tuie. 
Il mattutino gabinetto, il corso. 
Il teatro, la mensa in vario stile 
Ne ragionin gran tempo: ognun ne chieda 
Il dolente marito; ed ei dalFaito 
La lamentabil favola cominci. 
Tal su le scene, ove agitar solca 
L'ombre tinte di sangue Argo piagnente. 
Squallido messo al palpitante coro 
Narrava, come furiando Edipo 
Al talamo corresse incestuoso; 
Gome le porte rovescionne, e come 
Al subito spettacolo risto 
Quando vicina del nefando letto 
Vide in un corpo solo e sposa e madre 



188 IL GIORNO (v. 817-853). 

Pender strozzata ; e del fatale uncino 
Le mani armossi, e con le proprie mani 
A sé le care luci da la testa 
Con le man proprie misero strapposse.* 

Ecco volge al suo fine il pranzo illustre. 
Già Como e Dionisio al desco intorno 
Rapidissimamente in danza girano 
Con la libera Gioja : ella saltando. 
Or questo or quel dei convitati lieve 
Tocca col dito; e al suo toccar scoppiettano 
Brillanti vivacissime scintille, 
Gh' altre ne destan poi. Sonan le risa ; 
E il clamoroso disputar s' accende. 
La nobil vanità punge le menti ; 
E l'amor di sé sol, baldo scorrendo, 
Porge un scettro a ciascuno, e dice : Regna' 
Questi i concilj di Bellona, e quegli 
Penetra i tempj de la Pace. Un guida 
I condottieri; ai consiglier consiglio 
L' altro dona, e divide e capovolge 
Gon seste ardite il pelago e la terra. ** 
Qual di Pallade V arti e de le Muse 
Giudica e libra; qual ne scopre acuto 
L'alte cagioni, e i gran principj abbatte 
Gui creò la natura, e che tiranni 
Sopra il senso degli uomini regnàro 
Gran tempo in Grecia, e ne la Tosca terra 
Rinacquer poi più poderosi e forti. 

Cotanto adunque di sapere é dato 
A nobil mente? Oh letto, oh specchio, oh mensa. 
Oh corso, oh scena, oh feudi, oh sangue, oh avi, 
Ghe per voi non s' apprende ? Or tu, Signore, 
Gol volo ardito del felice ingegno 
T' ergi sopra d' ognaltro. Il campo é questo 
Ove splender. più dèi: nulla scienza. 
Sia quant' esser si vuole arcana e grande, 
Ti spaventi giammai. Se cosa udisti 



* Cfr. rode La Gratitudine, st. )9, pag. 86. 
*• Cfr. rode La Recita dei versi, pag. 45. 



IL MEZZOGIORNO (v. 854-893). 1S9 

leggesti al mattino onde tu possa 
Gloria sperar; qual cacciator che segue 
Circuendo la fera, e si la guida 

E volge di lontan che a poco a poco 
S' avvicina a le insidie e dentro piomba ; 
Tal tu il sermone altrui volgi sagace 
Finché là cada ove spiegar ti giovi 
Il tuo novo tesor. Se nova forma 
Del parlare apprendesti, allor ti piaccia 
Materia espor che, favellando, ammetta 
La nova gemma ; e poi che il punto hai colto, 
Ratto la scopri, e sfolgorando abbaglia 
Qual altra è mente che superba andasse 
Di squisita eloquenza ai gran convivj. 
In simil guisa il favoloso amante 
Dell'animosa vergin di Dordona 
Ai cavalier che Tassalien superbi 
Usar lasciava ogni lor possa ed arte; 
Poi nel miglior de la terribil pugna 
Svelava il don dell'amoroso Mago: 
E quei sorpresi dall'immensa luce 
Gadeano ciechi e soggiogati a terra. 
Se alcun di Zoroàstro e d'Archimede 
Discepol sederà teco a la mensa, 
A lui ti volgi : seco lui ragiona. 
Suo linguaggio ne apprendi, e quello poi, 
Quas' innato a te fosse, alto ripeti; 
Né paventar quel che l'antica fama 
Narrò de' suoi compagni. Oggi la diva 
Urania il crin compose : e gì' irti alunni, 
Smarriti, vergognosi, balbettanti. 
Trasse da le lor cave, ove pur dianzi 
Gol profondo silenzio e con la notte 
Tenean consiglio ; indi le serve -braccia 
Fornien di leve onnipotenti ond' alto 
Salisser poi piramidi, obelischi. 
Ad eternar de' popoli superbi 

1 gravi casi ; oppur con feri dicchi 
Stavan contro i gran letti, o, di pignone 
Audace armati, spaventosamente 



190 IL GIORNO (v. 894-933). 

Cozzavan con la piena, e giù a traverso 
Spezzate, rovesciate, rovesciavano 
Le tetre corna, decima fatica 
D'Ercole invitto, Ora i selvaggi amici 
Urania incivili : baldi e leggiadri - 
Nel gran mondo li guida, o tra '1 clamore 
De' frequenti convivj oppur tra i vezzi 
De' gabinetti, ove a la docil Dama 
E al saggio Gavalier mostran qual via 
Venere tenga, e in quante forme o quali 
Suo volto lucidissimo si cambi. 
Né del Poeta temerai che beffi 
Con satira indiscreta i detti tuoi, 
Nò che a maligne risa esponer osi 
Tuo talento immortal. Voi l'innalzaste' 
All' alta mensa , e tra la vostra luce 
Beato l'avvolgeste, e, de le Muse 
A -dispetto e d'Apollo, al sacro coro 
L'ascriveste de' Vati. Egli 'l suo Pindo 
Feo de la mensa : e guai a lui, se quinci 
Le Dee sdegnate giù precipitando 
Con le forchette il cacciano. Meschino ! 
Più non potria su le dolenti membra 
Del suo infermo Signor chiedere aita 
Da ia bona Salute; o con alate 
Odi ringraziar, né tesser Inni 
Al barbato figliuol di Febo intonso. 
Più del giorno natale i chiari albori 
Salutar non potrebbe, e l'auree frecce 
Nomi-sempiternanti all'arco imporre; 
Non più gli urti festevoli, o sul naso 
L'elegante scoccar d'illustri dita. 
Fora dato sperare. A lui tu dunque 
Non isdegna, o Signor, volger talvolta 
Tu' amabil voce; a lui declama i versi 
Del dilicato cortigian d'Augusto, 
O di quel che tra Venere e Lieo 
Pinse Trimalcion. La Moda impone 
Ch'Arbitrò o Fiacco a un bello spirto ingombri 
Spesso le tasche. Il vostro amico vate . 



IL MEZZOGIORNO (v 934-954). 191 

T'udrà, maravigliando, il sermon prisco 
Or sciogliere or frenar qual più ti piace; 
E per la sua faretra, e per li cento 
Destrier focosi che in Arcadia pasce, 
Ti giurerà che di Donato al paro 
Il difificil sermone intendi e gusti. 

Cotesto ancor di rammentar fia tempo 
I novi Sofi che la Gallia e T Alpe 
Esecrando persegue; e dir qual arse 
De' volumi infelici e andò macchiato 

â–  D'infame nota; e quale asilo appresti 
Filosofìa al morbido Aristippo 
Del secol nostro; e qual ne appresti al novo 
Diogene dell'auro spregiatore 
E della opinione de' mortali. * 
Lor volumi famosi a te verranno, 
Pale fiamme fuggendo a gran giornate 
Per calle obliquo, e compri a gran tesoro; 

. O da cortesi man prestati, fièno 
Lungo ornamento a lo tuo speglio innanzi. 
Poiché scorsi gli avrai pochi momenti 



* Pel • morbido Aristippo „ è da intendere il Voltaire (efr. Mattino, 
V. 598 ss.); pel * novo Diogene „, G. G. Rousseau. A proposito di co- 
stui, è curioso sentire quel che la Duchessa Serbelloni, appassio- 
nata lettrice di libri francesi (tradusse, e la versione pubblicò ano- 
nima nel 1754 con prefazione di P. Verri, il Teatro del Destouches), 
ne scriveva al primogenito Gian Galeazzo eh' era in collegio. TI 
22 febbraio 1764: " Vorrei sapere se hai conoscenza del famoso Gian 
(iiacomo Rousseau, scrittore stravagantissimo, ma ingegno senza pari, 
il piCi cinico di tutt* i filosofi di questa setta „. E il 21 marzo : " Mi 
dispiace che tu trovi da leggere così pochi libri francesi: ti conti- 
nuerebbero la conoscenza d'una lingua sì necessaria al presente. 
Fin che tu rimarrai in collegio, è impossibile che tu possa aver 
buoni libri : almeno tienti alla storia. . Veggo bene che certi nomi 
non osano penetrare la nebbia d'un collegio. Il Gian Giacomo Rous- 
seau che t'indicai non è quello del quale ti feci leggere le odi e 
che viveva al principio di questo secolo; ma è un cittadino di Gi- 
nevra, filosofo cinico, nemico del genere umano, conosciutissimo 
per molte opere, ove sparse tutto il fiele? del suo cuore, ma sopra 
tutto pel romanzo della Nuova Eloisa e per un altro libro intito- 
lato V Emilio, die è stalo proibito da tutt'i governi, e ove sono di 
molte sciocchezze, ma anche delle buonissime cose „. (Cfr. Carducci 
Storia del Giorno, p. 27). 



19-2 IL GIORNO (v. 955-994). 

Specchiandoti, e a la man garrendo indotta 

Del parruccliier; poiché t'avran la sera 

Conciliato il facil sonno; allora 

A la toilette passeran di quella 

Che comuni ha con te studj e licèo, 

Ove togato in cattedra elegante 

Siede interprete Amor. Ma fìa la mensa 

Il favorevol loco ove al sol esca 

De' brevi studj il glorioso frutto. 

Qui ti segnalerai co' novi Sofì, 

Schernendo il fren che i creduli maggiori 

Atto solo stimar Timpeto folle 

A vincer de' mortali, a stringer forte 

Nodo fra questi, e a sollevar lor speme 

Con penne oltre natura alto volanti. 

Chi por freno oserà d' almo Signore 
A la mente od al cor? Paventi il vulgo 
Oltre natura: il debole Prudente 
Rispetti il vulgo; e quei, cui dona il vulgo 
Titol di saggio, mediti romito 
Il Ver celato, e alfìn cada adorando 
La sacra nebbia che lo avvolge intorno. 
Ma il mio Signor coni' aquila sublime 
Dietro ai Sofì novelli il volo spieghi. 
Perchè più generoso il volo sia, 
Voli senz'ali ancor; né degni '1 tergo 
Affaticar con penne. Applauda intanto 
Tutta la mensa al tuo poggiare ardito. 
Te con lo sguardo e con l'orecchio beva 
La Dama da le tue labbra rapita; 
Con cenno approvator vezzosa il capo 
Pieghi sovente: e il calcolo^ e la massa, 
E V inversa ragion sonino ancora 
Su la bocca amorosa. Or più non odia 
De le scole il sermone Amor maestro; 
Ma l'accademia e i portici passeggia 
De' filosofi al fianco, e con la molle 
Mano accarezza le cadenti barbe. 

Ma guardati, o Signor, guardati, oh dio! 
Dal tossico mortai che fuora esala 



IL MEZZOGIORNO (v. 995-1034), 193 

Dai volumi famosi; e occulto poi ' 

Sa, per le luci penetrato all'alma, 
Gir serpendo nei cori; e con fallace 
Lusinghevole stil corromper tenta 
Il generoso de le stirpi orgoglio 
Che ti scevra dal vulgo. Udrai da quelli 
Che ciascun de' mortali all'altro è pari ; 
Che caro a la Natura e caro al Cielo 
È non meno di te colui che regge 
I tuoi destrieri, e quei ch'ara i tuoi campi; 
E che la tua pietade e il tuo rispetto 
Dovrien fino a costor scender vilmente. 
Folli sogni .d'infermo! Intatti lascia 
Cosi strani consigli; e sol ne apprendi 
Quel che la dolce voluttà rinfranca, 
Quel che scioglie i desiri, e quel che nutre 
La libertà magnanima. Tu questo 
Reca solo a la mensa, e sol da questo 
Cerca plausi ed onor. Cosi dell'api 
L'industrioso popolo ronzando 
Gira di fiore in fior, di prato in prato; 
E i dissimili sughi raccogliendo, 
Tesoreggia nell'arnie; un giorno poi 
Ne van colme le pàtere dorate 
Sopra l'ara de' numi, e d' ogn' intorno 
Ribocca la fragrante alma dolcezza. 
Or versa pur dall'odorato grembo 
I tuoi doni, o Pomona; e l'ampie colma 
Tazze che d'oro e di color diversi 
Fregiò il Sàssone industre: il fine è giunto 
De la mensa divina. E tu dai greggi, 
Rustica Pale, coronata vieni 
Di melissa olezzante e di ginebro; 
E co' lavori tuoi di presso latte 
Vergognando t'accosta a chi ti chiede, 
Ma deporli non osa. In su la mensa 
Potrien deposti le celesti nari 
Gommover troppo, e con volgare olezzo 
Gli stomachi agitar. Torreggin solo 
Su' ripiegati lini in varie forme 

13 



194 IL GIORNO (v. 1035-1074). 

I latti tuoi cui di serbato verno 
Rassodarono i sali, e reser atti 
A dilettar con subito rigore 

Di convitato cavalier le labbra. 
Tu, Signor, che farai poiché fìe posto 
Fine a la mensa, e che, lieve puntando. 
La tua Dama gentil fatto avrà cenno 
Che di sorger è tempo? In piò d'un salto 
Balza prima di tutti; a lei t'accosta, 
La seggiola rimovi, la man porgi; 
Guidala in altra stanza, e più non soffri 
Che lo stagnante de le dapi odore 

II célabro le offenda. Ivi con gli altri 
Gratissimo vapor t'invita ond' empie 
L'aria il caffé che preparato fuma 

In tavola minor cui vela ed orna 
Indica tela. Ridolentc gomma 
Quinci arde intanto; e va lustrando e purga 
L'aere profano, e fuor caccia del cibo 
Le volanti reliquie. Egri mortali. 
Cui la miseria e la fidanza un giorno 
Sul meriggio guidàro a queste porte- 
Tumultuosa, ignuda, atroce folla 
Di tronche membra e di squallide facce, 
E di bare e di grucce, ora da lungi 
Vi confortate; e per le aperte nari 
Del divin pranzo il nettare beete 
Che favorevol aura a voi conduce: 
Ma non osate i limitari illustri 
Assediar, fastidioso offrendo 
Spettacolo di mali a clii ci regna. 
Or la piccola tazza a te conviene 
Apprestare, o Signor, clie i lenti sorsi 
Ministri poi de la tua Dama ai labbri : 
Or memore avvertir s'ella più goda, 
O sobria o liberal, temprar col dolce 
La bollente bevanda, o se più forse 
L' ami cosi, come sorbir la suole 
Barbara sposa, allor che, molle assisa 
Su' broccati di Persia, al suo signore 



IL MEZZOGIORNO (v. 1075-1111). 195 

Con le dita pieghevoli '1 selvoso 
Mento vezzeggia e, la svelata fronte 
Alzando,il guarda ; e quelli sguardi han possa 
Di far che a poco a poco di man cada 
Al suo signore la fumante canna. 
Mentre il labbro e la man v'occupa e scalda 
L'odorosa bevanda, altere cose 
Macchinerà tua infaticabil mente. 
Qual coppia di destrieri oggi de' il carro 
Guidar de la tua Dama : o l'alte moli 
Che su le fredde piagge educa il Cimbro; 
O quei che abbeverò la Drava ; o quelli 
Che a le vigili guardie un di fuggirò 
Da la stirpe Campana. Oggi qual meglio 
Si convenga ornamento ai dorsi alteri: 
Se semplici e negletti, o se pomposi 
Di ricche nappe e variate stringile 
Andran su l'alto collo i crin volando; 
E sotto a cuoi vermigli e ad auree fibbie 
Ondeggeranno li ritondi fianchi. 
Quale oggi cocchio trionfanti al corso 
Vi porterà: se quel cui l'oro copre, 
O quel su le cui tavole pesanti 
Saggio pennello i dilicati fìnse 
Studj dell'ago onde si fregia il capo 
E il bel sen la tua Dama, e pieni vetri 
Di freschissima linfa e di fior varj 
Gli diede a trascinar. Cotanta mole 
Di cose a un tempo sol nell'alta mente 
Rivolgerai; poi col supremo auriga 
Arduo consiglio ne terrai, non senza 
Qualche lieve garrir con la tua Dama. 
Servi le leggi tue 1' auriga : e intanto 
Altre v'occupin cure. — 11 gioco puote 
Ora il tempo ingannare : ed altri ancora 
Forse ingannar potrà. Tu il gioco eleggi 
Che due soltanto a un tavoliere ammetta:* 



• Ino de' testi, dal v. 109G al v. 1111: " Vi jiorlcrà: se quel cui l'oro 
copro Fulf^ido al sole, e de' voslr'alti aspetti Per cristallo set- 



''i^: r. AV 'j[:?fi -A'.-zi'iT^tm !ìs^? v:-:-:! lei 
f • = ^ ', r -z Ci -': •': -i -'• ! Iri i -::l-; i ■:. : ? h i era «? :^n-:!e>s '■ . 
l''/i' ::'.•: li rozz-'.. rn'jri*..:'. ai Xr-^-'.' eguale. 
'*'i'jAh',h i(ìh\ S'::rfir>r: -■• -T-iasi biscia 
^;:*'j \!\':'j/iU'\''}, or all'irij-arii:» il ■:.:ill.-k. 
\ ; fji.ì vri-ìr'j c'-ri ^'li .'■r'r::hi a-?uti 
Kr-;j [/,'•■; ^':n**:. W;iirn-f' ?.«rn- ì;!-»!! cenni. 
O '^•/yfj rj'/.''j"?j *..h':':\-ri L*i;jrriraai. 
o '':'j:j =t-:-. j -«•:•] '■vi. h bi <«ia ninfa 
<\]\v:\':i' UH':-: ri Jii-jj ? Ojni 'l'Am -re 
r^UnUi'jriiiiUri finissimo vincaia 
L?i i/»; lo sia 'l';l rustico marito. 
Clio più licr; sporai-e? Al tempio ei corre 
fj«;l nume accorto ciie le serpi intreccia 
All'aurea ver^a. e il capo e le calcagna 
h'ali fornisce. A lui si prostra umile: 
K in questa ^uisa, lai^rimando, il prega: 
^ O [)ropizio a^li amanti, o buon figliuolo 
I)«; la e^nrlidij Maja, o tu che d'Argo 
Ixdudesti i cent' occhi e a lui rapisti 
I.a ^niardata giovenca, i preghi accetta 
D'un amante inffilice; e a me concedi 
S<; nonglioc^'Jii ingannar, gli orecchi almeno 
I)'un marito imi)r)rtuno ». Ecco si scote 
Il divin simulaci'o, a lui si china, 



iciiiplif'c cdiirrdc Al popolo bearsi; o quel che tutto Caliginoso 
e tristo, e .'i la niariiiorca Tomba simil che de' vostr'avi chiude 
I (■.'kI.'ivitì <'C(-<-Isi, ainiiietto n peiin Cùpido sguardo altrui. Co- 
i.'iiilii mole Di coso a un tempo sol nell'alto ingegno Tu verserai; 
poi col supremo auriga Arduo consiglio ne terrai, non senza 
Oiialclii' lieve garrir con la tua dama. Servi l'auriga ogni tua 
le;,'ge: e in lauto Altra cura subentri. Or mira i prodi Com- 
p.'U'.iii (noi che. ministrato a pena Dolce conforto di vivande a 
i membri, (ìià scelto il campo, e già distinti in banda, Prepa- 
ransi gìuoeando a lieri assalti. (>)sl a queste, o Signore, illu.stre 
inganno Ore lente si faccia. I^ s'altri ancora Vuole Amor che 
s'iii;',anni. altroude pugni La turba convitata; e tu da un lato 
Sol eoo la dama tua (|uel gioco eleggi Che due sol tanto a un 
taviiliere ammelt:i. , 



IL MEZZOGIORNO (v. 1139-1178) 197 

Con la verga pacifica la fronte 
Gli percote tre volte; e il lieto amante 
Sente dettarsi ne la mente un gioco 
Che i mariti assordisce. A lui diresti 
Che l'ali del suo pie concesse ancora 
11 supplicato Dio: cotanto ei vola 
Velocissimamente a la sua donna. 
Là bipartita tavola prepara, 
Ov' ebano ed avorio intarsiati 
Regnan sul piano, e partono alternando 
In dodici magioni ambe le sponde. 
Quindici nere d'ebano girelle 
E d'avorio bianchissimo altrettante 
Stan divise in due parti; e moto e norma 
Da due dadi gitlati attendon, pronte 
Ad occupar le case, e quinci e quindi 
Pugnar contrarie. Oh cara a la Fortuna 
Quella che corre innanzi all'altre, e seco 
Ha la compagna onde il nemico assalto 
Forte sostenga ! Oh gioca tor felice 
Chi pria l'estrema casa occupa; e l'altro 
De le proprie magioni ordin riempie 
Con doppio segno, e quindi poi securo 
Da la falange il suo rivai combatte; 
E in proprio ben rivolge i colpi ostili! 
Al tavolier s'assidono ambidue, 
L'amante cupidissimo e la ninfa; 
Quella occupa una sponda e questi l'altra. 
11 marito col gomito s'appoggia 
All'un de' lati; ambi gli orecchi tende; 
E sotto al tavolier di quando in quando 
Guata con gli occhi. Or l'agitar dei dadi 
Entro ai sonanti bòssoli comincia; 
Ora il picchiar de' bòssoli sul piano; 
Ora il vibrar, lo sparpagliar, l'urtare, 
Il cozzar de' due dadi; or de le mosse 
Pedine il martellar. Torcesi e freme 
Sbalordito il geloso: a fuggir pensa, 
Ma rattienlo il sospetto. Il romor cresce, 
Il rombazzo, il frastono, il rovinio. 



198 IL GIORNO (v. 1179-1194). 

Ei più regger non puole; in piedi balza, 
E con aml)e le man tura gli orecchi. 
Tu vincesti, o Mercurio: il cauto amante 
Poco disse, e la bella intese assai. 
Tal ne la ferrea età quando gli sposi 
Folle superstizion chiamava all'armi 
(jiocato fu. Ma poi che l'aureo fulsc 
Secol di novo, e ciie del prisco errore 
Si spogliaro i mariti, al sol diletto 
La Dama e il Cavalier volsero il gioco 
Che la necessità scoperto avea. 
Fu superfluo il romor: di molle panno 
La tavola vestissi, e de' patenti 
Hòssoli 1 sen: lo soJiiamazzio molesto 
Tal rintuzzossi; e durò al gioco il nome 
Che ancor l'antico strepito dinota. 



Questa seconda [)arle del (ìioriio comparve due anni dopo del 
Manilio, in un volumetto di 64 pagine in IG", col frontispizio: // 
Mezzogiorno. Pociiìcllo. Milano, Galeazzi, 1705. {.'imprimatur è del 
21 luglio. L'anno slesso fu ristampato in Venezia dal (^olonibani; 
e, negli anni successivi, altrove da altri. Nel IS'X) il Bodoni ripub- 
blicò a Parma i due poonn'lti separatamente. Nel 1801 venne fuori 
r edizione del Ueina. 

Ammaestrato dalle cabale dei librai e degli editori, questa volUi 
il Parini provvide per ottenere la privativa: la quale fu concessa 
il 21 luglio 170.'), con un rescritto che, nel rendere onore al poeta, 
riesce onorevolissimo per 1" illuminato (lovorno onde emanava. 
Reggeva allora la Lombardia, per conto dell'Austria, il duca Fran- 
cesco III d'Este. padre della buona Maria Beatrice (v. più su, p. 117) , 
'^ Comendando il Serenissimo Amministratore „, diceva, "l'applica- 
zione e il valore <leir abate (ìiuseppe Parini, che con molto ap- 
plauso di questo Pubblico pnxlusse già il leggiadro e .sensato poe- 
metto intitolato 11 mattino, che ben si meritò l'accettazione e di- 
stinto aggradimento d'ogni ordine di persone, si compiace S. A. S. 
egualmenle di sentire che esso abate sia ora per fare l'edizione 
di un altro somigliante poemetto intitolato 11 mezzogiorno; e non 
dubitando S. A. S. che sia esso per riuscire dello stesso valore del 
primo, ha stimalo di doversi prestare alV istanza che l'autore le ha 



IL MEZZOGIORNO. 199 

fatta per una privativa dell'edizione medesima, di modo che venga 
fatto argine all'inofficiosa avidità de' stami)atori si nazionali che 
esteri „. (Cfr. Carducci, Storia del Giorno, p. 67). 



Quale apparve nel 1765, il Mezzogiorno contava 1376 versi ; che 
nell'edizione del Reina furon ridotti a 1194: i rimanenti, con poche 
modificazioni, furono trasferiti al terzo poemetto, il Vespro. Nel- 
l'ultimo rifacimento, ritrovato nelle carte parinìane, il titolo è mu- 
tato in Meriggio; già da prima però il secondo verso suonava: Sul 
meriggio innoUrarnii ecc. 

A commento della mirabile dipintura del pranzo patrizio, eh" è 
fatta in questo poemetto (v. 626 ss.), e delle discussioni che vi si 
accendono, mi si permetta di riprodurre qui in parte quanto mi 
avvenne di scriverne in due numeri del Corriere della Sera (23 e 
24 settembre 1897). 

Il Canili (L'ab. Parini, 1854, p. 380) avvertiva essere allora più.clie 
mai di moda le teorie economiche del Colbert (si ricordino i versi 
precedenti, 212-13, a proposito della gran mente del Re dei cuochi, 
" del paese uscita ove Colbert e Richclieu fur chiari „), " che vo- 
leva tutte le cure de' governi rivolte a far fiorire le arti e le ma- 
nifatture, anzi che la prima fonte delle ricchezze, l'agricoltura „; 
e soggiungeva: "Parini mostra bene di sentir diversamente, e sa 
vedere la ricchezza delle nostre glebe,. Ma giova determinare chi 
propriamente fra i nobili lombardi, seguaci del Colberfismo, il poeta 
prendesse di mira; e indagare se per avventura le sue opinioni 
economiche ci non le derivasse da altri. 

In quel fanatico campione del commercio e delle industrie è 
stalo facilmente riconosciuto il conte Pietro Verri. Il quale non è 
certo da confondere con un qualunque Sardanapalo lombardo. Era 
anzi un nobile esempio di quel che potesse e dovesse essere un 
patrizio degno e illuminato. Non andava immune però di qualche 
pregiudizio e della boria vanitosa della sua classe; cosi da scrivere 
nel Ca/fò, il giornale eh' egli fondò nel giugno 1764 e che pubblicò 
sino al giugno 1766, biasimando la prima parte del Giorno pari- 
iiiaiio, che " nessuno, facendo il confronto di sé medesimo colla 
pittura di (luel Ganimede „ avrebbe potuto " mai sinceramente 
sentire la superiorità propria sopra di esso, nò rìdere di cuore per 
e )nseguenza „. E soggiungeva: "il solo sentimento, che da pitture 
si ben esprèsse può nascere, è il desiderio di poter fare altret- 
tanto „. Aristocratico di nascita e frequentatore di salotti aristocra- 
tici, ei non tollerava che dei suoi pari sorgesse a sparlare un pre- 
tonzolo brianzuolo. 

Che agli occhi del Conte aveva anche un altro torto: d'essere 
sialo largamente encomiato in quella Frusta letteraria^ dove e il 
giornale il Caffé e il primo Saggio sul Commercio di Milano ave- 
vano riscosso biasimi. (Cfr. più su, p. 64). Cosi il critico e il poeta 
divennero pel Verri la pietra di paragone dell'abbiettezza e del- 
l' invidia. Scrivendo, nel dicembre 1766, al fratello Alessaijdro, di 



200 IL GIORNO. 

non so quale ingratitudine del Beccaria, egli finiva col dire: " il suo 
cuore differisce soltanto per alcuni gradi dai Parini e dai Baretti „. 
E Alessandro scriveva a lui nell' anno appresso : â–  quel tempo, che 
ho impiegato a scrivere contro i pedanti, meglio era impiegarlo 
a scoprir nuove maniere di meritare li urli della mediocrità: io 
scrissi al Parini e suoi compagni, e dimenticai che scriveva al 
pubblico, il quale non è composto di Parini, ed animali come costui 
sono rari assai al mondo, per quanto io ho veduto ,. E non aveva 
tutti i torti! 

Anche nel salotto di casa Serbelloni il conte Verri veniva assiduo 
ospite, e festeggiato e desiderato ; ma non sappiamo quali occhiate 
si scambiassero con l'abatino pedagogo che, in un cantuccio, medi- 
tava il Giorno. Certo è però che i)ur nel Mattino c'è qualche punta 
che sembra diretta contro l'elegante economista; il quale, nota non 
senza malizia il Reina (I, xii), era "in quella stagione vaghissimo 
di primeggiare per certo suo talento mirabile». 

Un argomento di moda era il Lusso; era questo da biasimare o da 
incoraggiare ? L' opinione del Verri è esplicitamente dichiarata 
qua e là nel Caffé. * La ragione ci prova l' utilità e la necessità del 
lusso,, egli vi diceva in certe Considerazioni sul lusso; "l'autorità 
si unisce alla ragione, e la spcrienza e' insegna che le virtù socia- 
bili, l'umanità, la dolcezza, hi perfezione delle arti, lo splendore 
delle nazioni, la coltura degl'ingegni, sono sempre andate crescendo 
col lusso ; quindi i secoli veramente colti sono stati i secoli del 
maggior lusso „. E in un altro artìcolo, sugli Elementi del commercio^ 
soggiungeva : " Quel lusso pel quale vive la maggior parte degli ar- 
tigiani; quel lusso il quale e solo mezzo per cui le ricchezze radu- 
nate in poche mani tornino a spargersi nella nazione; quel lusso 
il quale, lasciando la speranza ai cittadini di arricchirsi, è lo sprone 
più vigoroso dell' industria ; quel lusso finalmente il quale non va 
mai disunito dalla universale coltura e ripulimento della nazione... 

Nulla di nuovo in questa tesi. Già TAlgarotti (1712-1764), in una 
sua Epistola sopra il commercio, aveva insegnato: 

S'egli dai patrii beni e non d'altronde 
Tragge alimento e vita, è il Lusso industre 
Anima che si mesce al corpo immenso 
Dello Stato, e ogni parte agita e scalda; 
È il Lusso il bel legame onde ai bisogni 
Del povero sovvien l'oro del ricco 

E non so se prima o dopo 1" Algarolti, il Voltaire aveva vivace- 
mente contradetto un luogo del La Bruyère inneggiante alla sem- 
plicità degli antichi. • Bisognerebbe , , osservava, " che vivesse come 
un povero colui, il lusso del quale unicamente fa vivere i poveri? 
I^ spesa dev'essere il termometro della fortuna di un privato, e 
il lusso generale è V infallibile contrassegno di un impero potente 
e rispettabile... Il danaro è fatto per circolare, per far nascere tutte 
le arti ; chi lo serba è un cattivo economo ,. ( Mélange de litté' 
rature, ecc.). 



IL MEZZOGIORNO. 201 

Tuttavia la satira del Parini prendeva specialmente di mira chi 
di siffatte dottrine si faceva banditore in Lombardia, anzi nelle 
conversazioni patrizie di Milano, E a proposito del merciaiuolo, 
tornante in patria " liberal di forestieri nomi a merci che non mai 
varcaro i monti „ {Matt, v. 648-9), egli, mostrandosi compreso d'en- 
tusiasmo per r " amabil vincitore „ della * necessitade, antiqua madre 
e donna dell'arti „, esclamava (667-70): "Il Lusso, il Lusso Oggi sol 
puote dal ferace corno Versar su l'arti a lui vassalle applausi E non 
contesi mai premj e dovizie ,. E più avanti, aggiungendo ancora 
dell'aloe al suo vino, nei ritocclii fatti al poema, rivolgeva per punta 
la parola al " fortunato garzone „ a cui la Moda preparò • in fioriti 
canestri , ornamenti e pompe in gran copia (p. 148) : 

La notte intera 
Faticaron per te cent' aghi e cento; 
E di percossi e ripercossi ferri 
Per le tacite case andò il rimbombo. 
Ma non in van, poi che di novo fasto 
Oggi superbo nel bel mondo andrai ! ... 

E ancora un po' più giù, nell'abbigliare il nobile alunno, gli doman- 
dava (p. 151): 

Vuoi tu i lieti rubini ? O più t' aggrada 
Sceglier quest'oggi l'indico adamante, 
Là dove il Lusso incantata costrinse 
La fatica e il sudor di cento buoi 
Che pria vagando per le tue campagne 
Fa:ean sotto a i lor pie' nascere i beni? 

Or come mai il Parini osava metter bocca in questioni econo- 
miche e opporsi al Verri che in quella disciplina veniva acqui- 
stando gran fama? Dietro una recente indicazione di Marco Lan- 
dau, data in una magra noterella a un suo feuilleton su Pietro 
Verri inserito nella Wiener Zeitung del 25 giugno 1897, mi par lecito 
d'affermare che all'autorità dell'economista lombardo il poeta con- 
trapponeva quella dell' economista napoletano che più aveva fatto 
e faceva parlare di sé e di qua e di là dalle Alpi, il Galiani (1728-1787). 

Tutti sanno qual maraviglioso impasto di serietà e scherzo, di 
dottrina e di grazia, di buon senso e di buonumore fosse codesto 
abatino abruzzese, che, inviato nel 1759 come segretario d' amba- 
sciata del Re di Napoli a Parigi, seppe conquistarvi l' ammirazione 
del Voltaire, del Diderot, del Grimm. Quest'ultimo scrisse di lui: 
" Ce petit étre, né au pied du mont Vésuvc, est un vrai phénomènc 
Il joint à un coup d'oeil lumineux et profond une vaste et solide 
crudition; aux vues d'un homme de genie, l'enjouement et les 
agrénients d'un homme qui ne cherche qu'à amuser et à plairc: ccst 
Platon avec la verve et les gestes d'Arlequin „. E il Marmontel sog- 
giungeva che • sur les épaules de cet Arlequin était la téte de 



21)2 Hi GIORNO. 

Machiavel „. Più tardi il Voltaire, nel ringraziare il Diderot d'avergli 
niandato i Dialogues sur le Commerce des grains, che l' abate aveva 
scritti ili Francia e in francese e che il Diderot aveva pubblicati con 
la data di Londra nel 1770, gli diceva : " Dans ce livre, il me scmble 
(jue Platon et Molière se soient réunis pour composer cet ouvrage... 
On n'a jamais raisonné ni niieux ni plus plaisaniment. Oh! le plaì- 
sant livre! Quii ma fait de plaìsirs, que je sais bon gre à l'auteur! „ 

A venlidue anni aveva dalo alla hice in Napoli, anonimi, i cinque 
libri Della Moneta, che segnano un memorabile momento nella 
storia della scienza economica. Il primo periodo di codesto " ele- 
gante trattato ,, che, come affermò il Foscolo, insieme con quello 
del Beccaria " vivranno nobile ed eterno retaggio tra noi „ è già 
per sé solo un elegante paradosso, e s' intende come conciliasse 
subilo all'autore le simpatie dei lettori. " E cosa meravigliosa,, egli 
comincia, " ed assai diffìcile a spiegare donde avvenga, che gli uo- 
mini, i quali alla coltura dell'animo si sono api)licati, ed il nome 
di savi e virinosi han bramalo meritare, quasi tutti hanno comin- 
ciato dal rendersi inutili all'umana società; e fuori di lei in certo 
modo trattisi, a quegli sludi ed a quel genere di vita si sono dati, 
in cui poco a se, niente agli altri, potevano d'utilità arrecare: e per 
(jnesto stesso appunto, quando meritavano biasimo e disprezzo, 
sono stati dal popolo ad una voce lodati ed ammirali „. 

Non può essere lecito dubitare che il Parini conoscesse un siffatto 
libro, nato, sì può dire, famoso. Oltre il resto, il (ìaliani, dal 1751 
al 1753, aveva viaggialo per le principali città d'Italia, dovunque 
preceduto dalla reputazione sempre crescente del suo libro e festeg- 
gialo dalle Corti e dalle accademie. Fgli i)roveniva dalla città dove 
lì )ri vano Antonio Genovesi (1712-1)9), l'Intieri, ilOarcani,il Tommasi; 
dove regnava un principe promotore di riforme qual era Carlo III, 
e governava un ministro capace di attuarle quale il Tanucci; e le 
condizioni poliliche della nativa regione eran tali da suggerire 
all'autore della Mom'ta le palriottiche parole della Conclusione 
dell'opera: "Mi duole però e mi affligge che mentre i regni di Na- 
l)()lì e di Sicilia risorgono, e si sollevano colla presenza del proprio 
sovrano, il restante d" Italia ni:inchi sensibilmente di giorno in 
giorno e declini,. Ohimè I tra poco il malgoverno di Ferdinando 
e di Maria Carolina avrebbero strozzalo, nel Napoletano, quel bene 
auspicalo progresso, e fatto sì che le parli s'invertissero comple- 
tamente tra il grande e autonomo Slato del Mezzogiorno e i piccoli 
Siali del Centro e del Settentrione! 

A proposito dunque del commercio, il Caliaui. quindici anni 
prJMia che il Parini mettesse fuori il suo secondo poemetto, osser- 
vava (1. IV, cap. 1, p. .'U3-r>) che la mancanza del commercio in 
Italia era allora da molli "scioccamente attribuita a nostro difetto . 
\\ parinianamenle soggiungeva: "Noi gridiamo Commercio! Com- 
lììvrcio! invece di dire armi e virtù militare..-. L'ingrandirsi uno 
Stalo colla vendila delle merci sue natie è pregio dell'agricoltura 
non del commercio;.... l'agiicoltura è la madre delle ricchezze... 
Io non dico „, concludeva, " che presso di noi il commercio non 
possa ricevere grandissimi miglioramenti ...; ma convien esser per- 



IL MEZZOGIORNO. 203 

suaso che il commercio senz'aumento d'agricoltura.... è uno spettro 
e un'ombra vana. E sebbene il commercio e l'agricoltura sieno 
concatenate insieme in guisa tale che ciascuno è effetto insieme e 
cagione dell'altro, pure, riguardando più attentamente, si troverà 
esser anteriore sempre l' agricoltura al traffico : perchè il florido 
commercio viene dall'abbondanza dei generi superflui, e questa 
dall'agricoltura; la quale è fatta dalla popolazione, la popola- 
zione dalla libertà, la libertà dal giusto governo „. 

Quanto poi al Lusso, il Galiani accodava al capitolo I del quarto 
libro del suo trattato (pag 287) tutta una Digressione intorno al 
lusso considerato generalmente: la quale non solamente forse non 
rimase estranea agli accenni che a quell'argomento fece il Parini, 
ma neanche alle osservazioni del Voltaire, dell' Algaro Iti, del Verri. 

Ci sono alcuni pregiudizi legati a certe parole, notava l' econo- 
mista napoletano ; una di esse è appunto il Lusso. " Si dice ch'ei sia 
dannoso e brutto, lo vietano i maestri del costume „ — il Voltaire 
specificò il La Bruyère - , " lo deplorano gli storici e più anche gli 
oratori e i poeti, lo deridono i comici, l'odiano le leggi, si riprende 
nelle private conversazioni; e intanto n' è pieno il mondo, tutte 
le nazioni e tutti i secoli, fuorché i barbari e ferini, lo hanno avuto... 
Kgli è il figliuolo della pace, del buon governo, e della perfezione 
delle arti utili alla società; fratello perciò alla terrena felicità, poiché 
il lusso altro esser non può che l'introduzione di que' mestieri 
e lo spaccio di quelle merci, che sono di piacere, non di bisogno 
assoluto alla vita. Non può perciò nascere il lusso, se i»on quando 
le arti necessarie sono a sufficienza di operai provvedute.... Allora 
restano disoccupati molti: e costoro, per non morir di fame, si 
volgono a soddisfare gli uomini con lavori men neccsssari: ed 
ecco il lusso „. È vero, continua, che esso è indizio di decadenza; 
"ma lo è non altrimenti che l'ingiallir delle .spighe è segno del 
vicino disseccamento : indizio di declinazione, ma pur tanto aspet- 
talo e bramato, e per cui tanti sudori eransi sparsi, tante cure prese, 
tanti travagli sofl'erli; indizio che nella bella stagione apparisce, 
e colla letizia universale è sempre congiunto „. Tuttavia non è da 
applaudire al lusso, come fece il Melun, lodandolo quasi origine 
di ogni bene, dacché esso " è etTelto e non cagione del buon go- 
verno : a lui va dietro, ed è spesso il corruttore e l'inimico suo „. 
Neanche è però tanto da maledire, " poiché può ridursi ad esser 
lah' che non sia molto nocivo, facendo consumar dal lusso le in- 
dustrie de' concittadini, non quelle degli stranieri ». Codesto con- 
cetto versificò poi l'Algarotti. 

11 (ialiani procede oltre nelle sue deduzioni da vero giacobino 
in anticipazione : non senza un perché in Francia, tra gli allesti- 
menti morali della grande rivoluzione, egli si trovava meglio che 
a casa sua ! " Se pel lusso le famiglie nobili s' impoveriscono e 
s' estinguono, le popolari si moltiplicano e si sollevano. Una sola 
dilferenza V é, che le antiche famiglie, essendo sorte in tempi fe- 
roci, non hanno altra origine che fra l'armi, né altre ricchezze di 
quelle che la rapacità, le guerre e le discordie dettero loro. Le 
nuove, coir industria, in seno alla pace, ne' secoli di lusso, si sono 



204 IL GIORNO. 

ingrandite. Delle quali maniere di crescere quale sia la migliore 
è facile a definire „. E continua : " Mi meraviglio bene che molli 
maestri del costume, non avvertendo che si lasciano dall'errore 
comune trasportare, gridino si forte contro al lusso, prendendo 
tanta cura della conservazione di quelle famiglie, che spesso ad 
altro non servono che come motiumenti illustri della infelicità de' 
secoli passati». Les aristocrates à la Lanterne! L'abate Parini, che 
altri vorrebbe far passare per rivoluzionario e peggio, in confronto 
dell'abate diplomatico, fa la figura, che meglio gli conviene e più 
rassomiglia al vero, d' un conservatore ! 

Ma il poeta e l'economista concordano quando questi conclude 
notando: "Ciò che ho detto s' intende tutto del lusso generalmente 
riguardato, poiché ve ne sono molti particolarmente cattivi. Tale 
è quello che ritiene molle persone oziose ed inutili, quello che 
scema a' poveri l' elemosine, quello che ha con sé congiunta la 
impuntualità de' debitori. Difetti tutti meritamente ripresi e cor- 
retti ,. In quest'ultima frase pardi vedere l'anticipata approva- 
zione, da parte dello statista abruzzese, della piu'ificatrlcc opera 
del gran poeta brianzuolo. 



IL VESPRO 

POEMETTO 



Ma de gli augelli e de le fere il giorno 
E de' pesci squammosi e de le piante 
E dell* umana plebe al suo fin corre. 
Già sotto al guardo de la immensa luce 
Sfugge r un mondo: e a berne i vivi raggi 
Cuba s'affretta e il Messico e Taltrice 
Di molte perle California estrema : 
E da' maggiori colli e dall'eccelse 
Rocche il sol manda gli ultimi saluti 
Air Italia fuggente; e par che brami 
Rivederti, o Signor, prima che l'Alpe 
O l'Appennino o il mar curvo ti celi 
A gli occhi suoi. Altro fìnor non vide 
Che di falcato mietitore i fianchi 
Su le campagne tue piegati e lassi, 
E su le armate mura or braccia or spalle 
Carche di ferro, e su le aeree capre 
De gli edificj tuoi man scabre e arsicce, 
E villan polverosi innanzi a i carri 
Gravi del tuo ricolto, e su i canali 
E su i fertili laghi irsuti petti 
Di remigante che le alterne merci 
A' tuoi comodi guida ed al tuo lusso : 
Tutti ignobili aspetti. Or colui veggia 
Che da tutti servito a nullo serve. * 

* Questo l)rano faceva parte del Mezzogiorno, neiredizione del 
17G5, e vi si leggeva cosi : 

" Già de le fere e degli augelli il giorno, E de' pesci notanti, 
V. de' fior varj. Degli ali)eri, e del vulgo al suo fin corre. Di 
sotto al guardo delT immenso Febo Sfugge T un Mondo; e a berne 



e 



208 IL GIORNO (v. 26-54) 

Pronto è il cocchio felice. Odo le rote, 
Odo i lieti corsier che airalma sposa 
E a te suo fido cavalier nodrisce 
Il placido marito. Indi la pompa 
Affrettasi de' servi: e quindi attende 
Con insigni berretti e argentee mazze 
Candida gioventù, che al corso agogna 
1 moti espor de le vivaci membra; 
E nell'audace cor forse presume 
A te rapir de la tua bella i voti. 

Che tardi ornai? Non vedi tu cornicila 
Già con morbide piume a i crin leggeri 
La bionda che svani polve rendette; 
E con morbide piume in su la guancia 
Fé' più vermiglie rifiorir che mai 
Le dall'aura predate amiche rose ? 
Or tu nato di lei ministro e duce 
L'assisti all'opra : e di novelli odori 
La tabacchiera e i bei cristalli aurati 
Con la perita mano a lei rintegra; 
Tu il ventaglio le scegli adatto al giorno; 
E tenta poi fra le giocose dita 
Come agevole scorra. Oh qual con lieti 
Né ben celati a te guardi e sorrisi 
Plaude la Dama al tuo sagace tatto 1 

Ecco ella sorge, e del partir dà cenno: 
Ma non senza sospetti e senza baci 
A le vergini ancelle il cane affida. 
Al par de' giochi, al par de' cari figli 



i vivi raggi Cuba s' arfreUa, e il Messico, e l' allrice Di mo Ite 
perle California estrema. Già da' maggiori colli e dall'eccelse 
Torri il Sol manda gli ultimi saluti AU' Italia fuggente: e par 
che brami Rivederti, o Signore, anzi che l'Alpe O l'Appennino, 
o il mar curvo, ti celi Agli occhi suoi. Altro finor non vide Che 
di falcato mietitore i fianchi Su le campagne tue piegati e lassi, 
E su le armate mura or fronti or spalle Cardie di ferro, e su 
le aeree capre Degli edificj tuoi man scabre e arsicce, E vlUan 
polverosi innanzi ai carri Gravi del tuo ricolto, e su i canali E 
su i fertili laghi irsute braccia Di remigante che le alterne merci 
Al tuo comodo guida ed al tuo lusso: Tutt' ignobili oggetti. Or 
colui vegga Che da tutti servito a nullo serve „. 



Ih VESPRO (v. 55-94). 209 

Grave sua cura: e il misero dolente, 

Mal tra le braccia contenuto e i petti, 

Balza e guaisce in suon che al rude vulgo 

Ribrezzo porta di stridente lima, 

E con rara celeste melodia 

Scende a gli orecchi de la dama e al core. 

Mentre cosi fra i generosi affetti 
E le intese blandizie e i sensi arguti 
E del cane e di sé la bella oblia 
Pochi momenti; tu di lei più saggio 
Usa del tempo: e a caro speglio innante 
I bei membri ondeggiando alquanto libra 
Su le gracili gambe; e con la destra 
Molle verso il tuo sen piegata e mossa 
Scopri la gemma che i bei lini annoda, 
E in un di quelle ond* hai si grave il dito 
L'invidiato folgorar cimenta: 
Poi le labbra componi: ad arte i guardi 
Tempra qual più ti giova; e a te sorridi. 
Al fin tu da te sciolto, ella dal cane. 
Ambo al fin v'appressate. Ella da i lumi 
Spande sopra di te quanto a lei lascia 
D'eccitata pietà Tamata belva; 
E tu sopra di lei da gli occhi versi 
Quanto in te di piacer destò il tuo volto. 
Tal seguite ad amarvi; e insieme avvinti, 
Tu a lei sostegno, ella di te conforto. 
Itene omai de' cari nodi vostri 
Grato dispetto a provocar nel mondo. 

Qual primiera sarà che da gli amati 
Voi sul Vespro nascente alti palagi 
Fuor conduca, o Signor, voglia leggiadra ? 
Pia hi santa Amistà : non più feroce 
Qual ne' prischi eccitar tempi godea 
L' un per l'altro a morir gli agresti eroi; 
Ma placata e innocente al par di questi, 
Onde la nostra età sorge si chiara. 
Di Giove alti incrementi. — Oh dopo i tardi 
De lo specchio consigli e dopo i giochi, 
Dopo le mense, amabil Dea, tu insegni 

14 



210 IL GIORNO (v. 95-134). 

Gome il giovin marchese al collo balzi 
Del giovin conte; e come a lui di baci 
Le gote imprima; e come il braccio annode 
L* uno al braccio dell'altro; e come insieme 
Passeggino, elevando il molle mento 
E volgendolo in guisa di colomba; 
E pàlpinsi e sorridansi e rispòndansi 
Con un vezzoso tu. Tu fra le dame 
Sul mobil arco de le argute lingue 

I già pronti a scoccar dardi trattieni 
S'altra giugne improvviso a cui rivolti 
Pendean di già: tu fai che a lei presente 
Non osin dispiacer le fide amiche; 

Tu le carche faretre a miglior tempo 

Di serbar le consigli. Or meco scendi; 

E i generosi ufìcj e i cari sensi 

Meco detta al mio eroe; tal che famoso 

Per entro al suon de le future etadi 

E a Pilade s'eguagli e a quel che trasse 

II buon Teseo da le Tenarie foci. 

Se da i regni che TAlpe o il mar divide 
Dair Italico lido in patria or giunse 
Il caro amico, e da i perigli estremi 
Sorge d'arcano mal che in dubbio tenne 
Lunga stagione i fisici eloquenti. 
Magnanimo Garzone, andrai tu forse 
Trepido ancora per l'amato capo 
A porger voti sospirando? Forse 
Con alma dubbia e palpitante i detti 
E i guardi e il viso esplorerai de' molti 
Che il giudizio di voi, menti si chiare, 
Fra i primi assunse d'Esculapio alunni? 
O di leni origlieri all'omer lasso 
Porrai sostegno, e vital sugo a i labbri 
Offrirai di tua mano? O pur con lieve 
Bisso il madido fronte a lui tergendo, 
E le aurette agitando, il tardo sonno 
Inviterai a fomentar con l'ali 
La nascente salute? Ah, no! tu lascia. 
Lascia che il vulgo di si tenui cure 



IL VESPRO (v. 135-174). 211 

Le brevi anime ingombri ; e d' un sol atto 
Rendi Tamico tuo felice a pieno. 

Sai che fra gli ozj del mattino illustri, 
Del gabinetto al tripode sedendo, 
Grandma rbitro del bello oggi creasti 
Gli eccellenti nell'arte. Onor cotanto 
Basti a darti ragion su le lor menti 
E su Topre di loro. Util ciascuno 
A qualch' uso ti fia. Da te mandato, 
Con acuto epigramma il tuo poeta 
La mentita virtù trafigger puote 
D'una bella ostinata; e l'elegante 
Tuo dipintor può con lavoro egregio 
Tutti dell'amicizia onde ti vanti 
Compendiar gli uficj in breve carta: 
O se tu vuoi che semplice vi splenda 
Di nuda maestade il tuo gran nome; 
O se in antica lapide imitata 
Inciso il brami; o se in trofeo sublime 
Accumulate a te mirarvi piace 
Le domestiche insegne, indi un l'ione 
Rampicar furibondo, e quindi Tale 
Spiegar l'augel che i fulmini ministra; 
Qua timpani e vessilli e lance e spade, 
E là scettri e collane e manti e velli 
Cascanti argutamente. Ora ti vaglia 
Questa carta, o Signor, serbata all'uopo; 
Or fia tempo d'usarne. Esca, e con essa 
Del caro amico tuo voli a le porte 
Alcun de' nuncj tuoi; quivi deponga 
La tessera beata; e fugga; e torni 
Ratto sull'orme tue, pietoso Eroe, 
Che già pago di te ratto a traverso 
E de' trivj ei*lel popolo dilegui. 

Già il dolce amico tuo nel cor commosso, 
E non senza versar qualche di pianto 
Tenera stilla, il tuo bel nome or legge 
Seco dicendo: Oh ignoto al duro vulgo 
Sollievo almo de' mali! Oh sol concesso 
Facil commercio a noi alme sublimi 



212 IL GIORNO (v. 175-214\ 

E d'affetti e di cure! Or venga il giorno 
Che si grate alternar nobili veci 
A me sia dato! Tale sbadigliando 
Si lascia da la man lenta cadere 
L'amata carta; e te, la carta e il nome 
Soavemente in grembo al sonno oblia. 

Tu Tra tanto cola rapido il corso 
Declinando intraprendi, ove la Dama 
Co' labbri desiosi e il premer lungo 
Del ginocchio sollecito ti spigne 
Ad altre opre cortesi. Ella non meno. 
Air imperio possente, a i cari moti 
Dell'amistà risponde. A lei non meno 
Palpita nel bel petto un cor gentile. 

Che fa l'amica sua? Misera! Jeri, 
Qual fusse la cagion, fremer fu vista 
Tutta improvviso, ed agitar repente 
Le vaghe membra. Indomito rigore 
Occupolle le cosce; e strana forza 
Le sospinse le braccia. Illividirò 
1 labbri onde l'Amor l'ali rinfresca; 
Enfiò la neve de la bella gola; 
E celato candor da i lini sparsi 
Effuso rivelossi a gli occhi altrui. 
Gli Amori si schermiron con la benda ; 
E indietro ri fuggi ronsi le Grazie. 
In vano il cavaliere, in van lo sposo 
Tentò frenarla, in van le damigelle, 
Che su lo sposo e il cavaliere e lei 
Scorrean col guardo, e poi ristrette insieme 
Malignamente sorrideansi in volto. 
Ella truce guatando curvò in arco 
Duro e feroce le gentili schiene; 
Scalpitò col bel piede; e ripercosse 
La mille volte ribaciata mano 
Del tavolier ne le pugnenti sponde. 
Livida, pesta, scapigliata e scinta, 
Al fin stancò tutte le forze; e cadde 
Insopportabil pondo sopra il letto. 

Nò fra r intime stanze o fra le cliiuse 



IL VESPRO (v. 215-254). 213 

Gemine porte il prezioso evento 
Tacque ignoto molt'ore. Ivi la Fama 
Con uno il colse de' cent' occhi suoi ; 
E il bel pegno rapito usci portando 
Fra le adulte matrone, a cui .segreto 
Dispetto fanno i pargoletti Amori 
Che da la maestà de gli otto lustri 
Fuggon volando a più scherzosi nidi. 

Una é fra lor che gli altrui nodi or cela. 
Comoda e strigne; or d'ispida virtude 
Arma suoi detti; e furibonda in volto 
E infiammata ne gli occhi alto declama, 
Interpreta, ingrandisce i sagri arcani 
De gli amorosi gabinetti ; e a un tempo 
Odiata e desiata, eccita il riso 
Or co' proprj misterj, or con gli altrui. 
La vide, la notò, sorrise alquanto 
La volatile Dea; disse: Tu sola 
Sai vincere il clamor de la mia tromba ! 
Disse, e in lei si mutò. Prese il ventaglio, 
Prese le tabacchiere, il cocchio ascese; 
E là venne trottando ove de' Grandi 
È il consesso più folto. In un momento 
Lo sbadigliar s'arresta ; in un momento 
Tutti gli occhi e gli orecchi e tutti i labbri 
Si raccolgono in lei: ed ella in' fine, 
E ansando e percotendosi, con ambe 
Le mani, le ginocchia, il fatto espone 
E del fatto le origini riposte. 
Riscr le dame allor, pronte domane 
A fortuna simil, se mai le vaghe 
Lor fantasie commoverà negato 
Da i mariti compenso a un gioco avverso, 
() in faccia a lor per deità maggiore 
Negligenza d'amante, o al can diletto 
Nata sùbita tosse: e rise ancora 
La tua Dama con elle; e in cor dispose 
Di teco visitar l'egra compagna. 

Ite al pietoso uficio, itene or dunque : 
Ma lunf^o consigliar duri tra voi 



214 IL GIORNO (v. 255-291). 

Pria che a la meta il vostro cocchio arrive. 
Se visitar, non già veder, Tamica 
Forse a voi piace, tacita a le porte 
La volubile rota il corso arresti; 
E il giovanetto messagger salendo 
Per le scale sublimi, a lei v'annunzj 
Si che voi non volenti ella non voglia. 
Ma se vaghezza poi ambo vi prende 
Di ap'iar chi sia seco, e di turbarle 
L'anima un poco, e ricercarle in volto 
De' suoi casi la serie^ il cocchio allora 
Entri: e improvviso ne rimbombi e frema 
L' atrio superbo. Egual piacere innonda 
Sempre il cor de le belle, o che opportune 
O giungano importune a le lor pari. 
Già le fervide amiche ad incontrarse 
Volano impazienti; un petto all'altro 
Già premonsi abbracciando; alto le gote 
D'alterni baci risonar già fanno; 
Già strette per le man co' dotti fianchi 
Ad un tempo amendue cadono a piombo 
Sopra il sofà. Qui 1' una un sottil motto 
Vibra al cor dell'amica ; e a i casi allude 
Che la Fama narrò: quella repente 
Con un altro l'assale. Una nel viso 
Di bell'ire s'infiamma; e l'altra i vaghi 
Labbri un poco si morde: e cresce in tanto 
E quinci ognor più violento e quindi 
11 trepido agitar de i duo ventagli. 
Cosi, se mai al secol di Turpino 
Di ferrate guerriere un paro illustre 
Si scontravan per via, ciascuna ambiva 
L' altra provar quel che valesse in arme ; 
E dopo le accoglienze oneste e belle, 
Abbassa van lor lance e co' cavalli 
Urtavansi feroci; indi infocate 
Di magnanima stizza, i gran tronconi 
Giltavan via de lo spezzato cerro, 
E correan con le destre a gli elsi enormi. 
Ma di lontan per l'alta selva fiera 



IL VESPRO (v. 295-324). 215 

Un messéigger con clamoroso suono 
Venir s'udiva galoppando; e Tuna 
Richiamare a je Carlo, o al campo Taltra 
Del giovane Ag^amante. — Osa tu pure, 
Osa, invitto Garzone, il ciuffo e i ricci 
Si ben fìnti stamane %ir urto esporre 
De' ventagli sdegnati ; f^ a nuove imprese 
La tua bella invitando, i casi estremi 
De la pericolosa ira sospendi. 
Oh solenne a la patria, oli all^orbe intero 
Giorno fausto e beato, al fin sorgesti 
Di non più visto in ciel roseo splendore 
A sparger l'orizzonte! Ecco, la sposa 
Di ramni eccelsi * T inclit'alvo al fìae 
Sgravò di maschia desiata prole 
La prima volta. Da le lucid'aure 
Fu il nobile vagito accolto a pena, 
Che cento messi a precipizio uscirò. 
Con le gambe pesanti e lo spron duro 
Stimolando i cavalli, e il gran convesso 
Dell'etere sonoro alto ferendo 
Di scutiche e di corni: e qual si sparse 
Per le cittadi popolose e diede 
A i famosi congiunti il lieto annunzio; 
E qual, per monti a stento rampicando. 
Trovò le rocche e le cadenti mura 
De' prischi feudi ove la polve e l'ombra 
Abita e il gufo, e i rugginosi ferri 
Sopra le rote mal sedenti al giorno 
Di novo espose e fé* scoppiarne il tuono, 

* U Mazzoni : " Questa è la lezione vera, già dal Tonti ristabilita 
nel testo, e confermatami dal Salveraglio di sul manoscritto origi- 
nario: errata lezione è rami, che faceva pensare all'albero genea- 
logico e a una maliziosa allusione alle corna del cervo. 1 Ramni o 
Ramnensi furono il nucleo originario de' Romani raccoltisi intorno 
a Romolo; e l'allusione maliziosa va invece ora a cadere sulle 
origini delle fortune feudali: che, come Roma da' banditi, cosi 
esse il più delle volte nacquero da predoni e avventurieri. Ramni 
eccelsi vai qui dunque ' nobili d'antica nobiltà feudale , ; e anche 
l'epiteto è tolto da Orazio che ha ' celsi Ramnes, Epistola ai ri- 
soni, V. 342 „. 



216 IL GIORNO {V. 325-349). 

E i gioghi do' vassalli e le vallèe 

Ampie e le marche del gran caso empieo. 

Né le muse devote, onde gran plauso 

Venne Taltr'anno a gì' imenèi felici, 

Già si tacquero al parto. Anzi, qual suole 

Là su la notte dell'ardente agosto 

Turba di grilli, e più lontano ancora 

Innumerabil popolo di rane, 

Sparger d'alto frastuono i prati e i laghi, 

Mentre cadon su lor fendendo il buio 

Lucide strisce, e le paludi accende 

Fiamma improvvisa che lambisce e vola: 

Tal sorsero i cantori a schiera a schiera ; 

E tal piovve su lor foco febèo. 

Che di motti ventosi alta compagine 

Fé' dividere in righe, o in simil suono 

Uscir pomposamente. Altri scoperse 

In que' vagiti Alcide, altri d' Italia 

Il soccorso promise, altri a Bisanzio 

Minacciò Io sterminio. A tal clamore 

Non ardi la mia musa unir sue voci: 

Ma del parto divino al molle orecchio 

Appressò non veduta; e molto in poco 

Strinse dicendo: Tu sarai simile 

Al tuo ^ran ijrenitore ! 



" Qui è una lacuna, " la quale ,. congettura il Carducci [Storia 
del Giorno, p. 261 ss.), " doveva esser riemi)ita dal séguito dcU'e- 
pisodio e poi da ciò che rimanesse a fare della nobile coppia 
prima di procedere al corso,. 11 (Carducci stesso ha trascritto dalle 
carte pariniane, conservate in casa Hellotti, alcune note ed ap- 
j)unli che forse si riferiscono a quanto il i)oeta si proponeva di 
fare per questo episodio. Dicono ad esempio : 

" Vespro... Collegi, uscita da essi, birhino, carrozzino „ (la birba 
era un carrozzino scoperto a due posti e a quattro ruote). " Uscirà 
dal collegio, apprenderà i giuochi. „ — " Tu sarai in collegio, u- 
scirai, ti daranno un birhino. „ — " Ercole uccise Lino battendogli 
della cetra sul capo. „ — " I figli in collegio lasciano giovani. , — 
"Nuovi araldici mettono i tigli in collegio, e se ne lagnano. Alla 
partoriente parlar de' nuovi araldici. , — " Una volta i fanciulli si 
divertivano e i padri attendevano agli studi : ora il contrario. , E 
poi citazioni latine dall' Eneide (IX, G^IO) e da Persio (1, CI). " Nel 
Vespro della partoriente dame e cavalieri prolettori de' birbanti. , — 



IL VESPRO (v. 350-377). 217 



Già di cocchi frequente il corso splende, * 
E di mille che là volano rote 
Rimbombano le vie. Fiero per nova 
Scoperta biga, il giovane leggiadro, 
Che cesse al carpentier gli aviti campi. 
Là si scorge tra i primi. Air un de' lati 
Sdrajasi tutto, e de le stese gambe 
La snellezza dispiega. A lui nel seno 
La conoscenza del suo merto abbonda; 
E con gentil sorriso arde e balena 
Su la vetta del labbro; o da le ciglia, 
Disdegnando, de' cocchi signoreggia 
La turba inferior: soave in tanto 
Egli alza il mento, e il gomito protende, 
E mollemente la man ripiegando, 
I merletti finissimi su l'alto 
Petto si ricompon con le due dita. 
Quinci vien l'altro che pur oggi al cocchio 
Da i casali pervenne, e già s'ascrive 
Al concilio de' numi. Egli oggi impara 
A conoscere il vulgo, e già da quello 
Mille miglia lontan sente rapirsi 
Per lo spazio de' cieli. A lui davanti 
Ossequiosi cadono i cristalli 
De' generosi cocchi oltrepassando: 
E il lusingano ancor per che sostegno 
Sia de la pompa loro. Altri ne viene 



" Primogeniti, cadetti, princìpii di musica, arcliitettura. „ = " Con- 
lìdeii/.e tra padre e figlio. „ E tutto di sèguito : ■ Accademia. Ca- 
valiere elle straccia dopo l'Accademia il libro di Conclusioni ma- 
lemaliclie inorridito di quelle cifre. Dama o cavaliere invitali, ra- 
dunali e dato il segno del ti'asferirsi, non si movono, dicendo che 
Iianno tempo di seccarsi. Alla recita, parlano, gridano. 11 recitante 
si dispella del non essere ascoltato. Stanno più attenti alla mu- 
sica. Cercan di fuggire. Termina non rimanendovi più di cinque 
o sci persone. Quando recita il figlio dell'invitante, i padri o gli 
amici tacciono, salvo a ciarlare quando recita il figlio altrui. „ 

' Quasi tutti i versi che seguono erano già nel Mezzogiorno, ac- 
codati ai vv. 1-25, coi (inali ora comincia il Vespro, che alla lor 
volta venivan subito dopo il v. 1194, ora l'ultimo del Mezzogiorno. 



218 IL GIORNO (v. 378-417). 

Che di compro pur or titol si vanta ; 
E pur s'affaccia e par gli orecchi porge 
E pur sembragli udir da tutti i labbri 
Sonar le glorie sue. Mal abbia il lungo 
De le rote stridore e il calpestio 
De' ferrati cavalli e Taura e il vento, 
Che il bel tenor de le bramate voci 
Scender non lascia a dilettargli il core! 

Di momento in momento il fragor cresce, 
E la folla con esso. Ecco le vaghe 
A cui gli amanti per lo di solenne 
Mendicarono i cocchi. Ecco le gravi 
Matrone che gran tempo arser di zelo 
Contro al bel mondo, e delF ignoto corso 
La scellerata polvere dannàro; 
Ma poi che la vivace amabil prole 
Crebbe e invitar sembrò con gli occhi Imene, 
Cessero al fine : e le tornite braccia, 
E del sorgente petto i rugiadosi 
Frutti prudentemente al guardo aprirò 
De i nipoti di Giano. Affrettan quindi 
Le belle cittadine, ora è più lustri 
Note a la Fama, poi che a i tetti loro 
Dedussero gli Dei; e sepper meglio 
E in più tragico stil da la teletta 
A i loro amici declamar T istoria 
De' rotti amori; ed agitar repente 
Con celebrata convulsion la mensa, 
Il teatro e la danza. Il lor ventaglio 
Irrequieto sempre or quinci or quindi 
Con variata eloquenza esce e saluta. 
Convolgonsi le belle: or su T un fianco 
Or su r altro si posano, tentennano, 
Volteggiano, si rizzan, sul cuscino 
Ricadono pesanti, e la lor voce 
Acuta scorre d' uno in altro cocchio. 

Ma ecco al fin che le divine spose 
De gV Italici eroi vengono anch'esse. 
Io le conosco a i messagger volanti 
Che le annuncian da lungi ed urlan fieri 



IL VESPRO (v. 418-457). 219 

E rompono la folla; io le conosco 
Da la turba de' servi al vomer tolti 
Per che oziosi poi di retro pendano 
Al carro trionfai con alte braccia. 
Male a Giuno ed a Pallade Minerva 
E a Cinzia e a Giterea mischiarvi osate, 
Voi, pettorute Najadi e Napèe, 
Vane di picciol fonte o d* umil selva 
Ghe a gli Egipani vostri in guardia diede 
Giove dall'alto ! Vostr' incerti sguardi, 
Vostra frequente inane maraviglia, 
E l'aria alpestre ancor de' vostri moti, 
Vi tradiscono, ahi lasse!, e rendon vana 
La multiplice in fronte a i palafreni 
Pendente nappa eh' usurpar tentaste, 
E la divisa onde copriste il mozzo 
E il cucinier che la seguace corte 
Accrebber stanchi, e i miseri lasci^\ro 
Ganuti padri di famiglia soli 
Ne la muta magion serbati a chiave. 
Troppo da voi diverse, esse ne vanno 
Ritte ne gli alti cocchi alteramente; 
E a la turba volgare che si prostra 
Non badan punto; a voi talor si volge 
Lor guardo negligente e par che dica: 
Tu ignota mi sei ; o nel mirarvi 
Gol compagno susurrano ridendo. 
Le giovinette madri de gli eroi 
Tutto empierono il Gorso, e tutte han seco 
Un giovinetto eroe o un giovin padre 
D' altri futuri eroi, che a la teletta, 
A la mensa, al teatro, al corso, al gioco 
Segnaleransi un giorno; e fìen cantati, 
S'io scorgo l'avvenir, da tromba eguale 
A quella che a me diede Apollo, e disse: 
Ganta gli Achilli tuoi, canta gli Augusti 
Del secol tuo ! Sol tu manchi, o Pupilla 
Del più nobile mondo: ora ne vieni, 
E del rallegrator dell' universo 
Rallegra or tu la moribonda luce. 



220 IL GIORNO (v. 458-486). 

Già * tarda a la tua Darha; e già con essa 
Precipitosamente al Corso arrivi. 
Il memore cocchier serbi quel loco 
Che voi dianzi sceglieste, e voi non osi 
Tra le ignobili rote al vulgo esporre 
Se star fermi a voi piace ; ed oltre scorra 
Se di scorrer v'aggrada**, e a i guardi altrui 
Spiegar gioje novelle e nuove paci 
Che la pubblica fama ignori ancora. 
Né conteso a te fia per brevi istanti 
Uscir del cocchio: e sfolgorando intorno, 
Qual da repente spalancata nube, 
Tutti scoprir di tua bellezza i rai, 
Nel tergo, ne le gambe e nel sembiante 
Simile a un Dio ; poi che a te, non meno 
Che all'altro Semideo, Venere diede 
E zazzera leggiadra e porporino 
Splendor di gioventù, quando stamane 
A lo speglio sedesti. Ecco son pronti 
Al tuo scendere i servi. Un salto ancora 
Spicca, e rassetta gì* increspati panni 
E le trine sul petto: un po' t'inchina; 
A i lucidi calzari un guardo volgi; 
Èrgiti, e marcia dimenando il fianco. 
() il Corso misurar potrai soletto 
Se passeggiar tu brami; o tu potrai 
Dell'altrui dame avvicinarti al cocchio, 
E inerpicarli, ed introdurvi il capo 
E le spalle e le braccia e mezzo ancora 



• Nel Mezzogiorno continuava : " Già d' untuosa polvere novella 
Di propria man la tabacchiera empisti A la tua dama e di no- 
velli oiiori 11 cristallo dorato; ed al suo crine La bionda che 
svanìo polve tornasti Con piuma dilìcata; e adatto al giorno 
I^e scegliesti il ventaglio: al pronto cocchio Di tua man la gui- 
dasti, e già con essa Precipitosamente al corso arrivi. „ Cfr. però 
Vespro, V. 36-4C. 

** Nella jìrima ediz. del Mezzogiorno si leggeva: " Tra le ignobili 
rote esporre al vulgo Se star fermi vi piace, ed olire scorra. 
Se di scorrer v'aggrada. Uscir del cocchio Ti fia lecito ancor. 
T'accolf^au pronti Allo scendere i servi. Ancora un salto Spicca; 
e rassetta i rincrespati panni... , 



IL VESPRO (v. 487-511). 221 

Dentro versarle. Ivi salir tant'alto 
Fa' le tue risa che da lunge le oda 
La tua Dama e si turbi ed interrompa 
Il celiar de gli eroi che accorser tosto 
Tra il dubbio giorno a custodirla in tanto 
Che solinga rimase. O sommi Numi, 
Sospendete la Notte, e i fatti egregi 
Del mio giovin Signor splender lasciate 
Al chiaro giorno! — Ma la Notte segue 
Sue leggi inviolabili e declina 
Con tacit'ombra sopra Temispero; 
E il rugiadoso pie lenta movendo, 
Rimescola i color varj infiniti, 
E via gli sgombra con l'immenso lembo 
Di cosa in cosa: e suora de la Morte, 
Un aspetto indistinto, un solo volto 
Al suolo, a i vegetanti, a gli animali 
A i Grandi ed a la plebe equa permette; 
E i nudi insieme e li dipinti visi 
De le belle confonde, e i cenci, e Toro : 
Né veder mi concede all'aere cieco 
Qual de' cocchi si parta o qual rimanga 
Solo all'ombre segrete:. e a me di mano 
Tolto il pennello, il mio Signore avvolge 
Per entro al tenebroso umido velo. 



LA NOTTE 

POEMETTO 



Né tu contenderai, benigna Notte, 
Che il mio Giovane illustre io cerchi e guidi 
Con gli estremi precetti entro al tuo regno. 

Già di tenebre involta e di perigli, 
Sola, squallida, mesta, alto sedevi 
Su la timida terra. Il debil raggio 
De le stelle remote e de' pianeti. 
Che nel silenzio camminando vanno, 
Rompea gli orrori tuoi sol quanto é d'uopo 
A sentirli vie più. Terribil ombra 
Giganteggiando si vedea salire 
Su per le case e su per Talte torri 
Di teschi antiqui seminate aL piede: 
E ùpupe e gufi e mostri avversi al sole 
Svolazzavan per essa, e con ferali 
Stridi portavan miserandi augurj: 
E lievi dal terreno e smorte fiamme 
Di su di giù vagavano per Taere * 
Orribilmente tacito ed opaco ; 
E al sospettoso adultero che lento. 
Gol cappel su le ciglia, e tutto avvolto 
Nel mantel, se ne già con Tarmi ascose, 
Colpieno il core e lo stringean d'affanno. 
E fama è ancor che pallide fantasime 
Lungo le mura de i deserti tetti 
Spargean lungo acutissimo lamento. 



* Gli autografi leggono : " E dal terreno lievi e smorte flainnie 
Sorgeano in tanto, e quelle smorte fiamme Di su di giù vaga- 
vano per l'aere „ ecc. 

15 



226 IL GIORNO (v. 27-6(>). 

Cui di lontan per entro al vasto buio 
I cani rispondevano ululando. 

Tal fusti, o Notte, allor che gì' inclinavi 
Onde pur sempre il mio Garzon si vanta 
Eran duri ed alpestri; e con l'occaso 
Gadean dopo lor cene al sonno in preda ; 
Fin che TAurora sbadigliante ancora 
Li richiamasse a vigilar su 1' opre 
De i per novo cammin guidati rivi 
E su i campi nascenti, onde poi grandi^ 
Furo i nepoti e le cittadi e i regni. 

Ma ecco Amore, ecco la madre Venere, 
Ecco del gioco, ecco del fasto i Genj, 
Ghe trionfanti per la notte scorrono. 
Per la notte che sacra é al mio Signore. 
Tutto davanti a lor, tutto s'irradia 
Di nova luce. Le ni miche tenebre 
Fuggono riversale; e l'ali spandono 
Sopra i covili, ove le fere e gli uomini 
Da la fatica condannati dormono. 
Stupefatta la Notte intorno vedesi 
Riverberar più che dinanzi al sole 
Auree cornici e di cristalli e spegli 
Pareti adorne e vestimenti varj 
E bianche braccia e pupillette mobili 
E tabacchiere preziose e fulgide 
Fibbie ed anella e mille cose e mille. 
Gosi r eterno caos, allor che Amore 
Sopra posovvi, e il fomentò con l'ale. 
Senti il gcnerator moto crearse, 
Senti schiuder la luce; e sé medesmo 
Vide meravigliando e tanti aprirse 
Tesori di natura entro al suo grembo. 

O de miei studj generoso Alunno, 
Tu seconda me dunque or ch'io t'invito 
Glorie novelle ad acquistar là dove 

la veglia frequente o l'ampia scena 

1 Grandi eguali tuoi, degna de gli avi 
E de i titoli loro e di lor sorte 

E (le i pubblici voti ultima cura, 



LA NOTTE (v. 67-106). 227 

Dopo le tavolette e dopo i prandj 
E dopo i corsi clamorosi occupa. 

Ma dove, ahi dove senza me t'aggiri, 
Lasso ! da poi che in compagnia del sole 
T'involasti pur dianzi a gli occhi miei? 
Qual palagio ti accoglie ; o qual ti copre 
Da i nocenti vapor ch'Esperò mena 
Tetto arcano e solingo; o di qual via 
L' ombre ignoto trascorri, ove la plebe 
Affrettando tenton s' urta e confonde ? 

Ahimè! Tòlgalo il Giel, forse il tuo cocchio 
Ove il varco é più angusto il cocchio altrui 
Incontrò violento : e qual de i duo 
Retroceder convenga, e qual star forte, 
Disputano gli aurighi alto gridando. 
Sdegna, egregio Garzon, sdegna d'alzare 
Fra il rauco suon di Stèntori plebei 
Tu'amabil voce, e taciturno aspetta 
Sia che a Tun piaccia riversar dal carro 
Lo suo rivale, o riversato anch'esso 
Perigliar tra le rote, e te per l'alto 
De Io infranto cristal mandar carpone. 
Ma r avverso cocchier d' un picciol urto 
Pago sen fugge o d'un resister breve : 
Al fin libero andrai. Tu non per tanto 
Doman chiedi vendetta; alto sonare 
Fa il sacrilego fatto; osa, pretendi, 
E i tribunali minimi e i supremi 
Sconvolgi, agita, assorda: il mondo s'empia 
Del grave caso; e per un anno almeno 
Parli di te, de' tuoi corsier, del cocchio 
E del cocchiere. Di si fatte cose 
Voi, progenie d'eroi, famosi andate 
Ne le bocche de gli uomini gran tempo. 

Forse indiscreto parlator trattiene 
Te con la Dama tua nel vuoto Corso. 
Forse a nova con lei gara d' ingegno 
Tu mal cauto venisti : e già la Bella 
Teco del lungo repugnar s'adira ; 
Già la man che tu baci arretra e tenta 



228 IL GIORNO (V. 107-146). 

Liberar da la tua ; e già minaccia 
Ricovrarsi al suo tetto, e quivi sola 
Involarse ad ognuno in fin che il sonno 
Venga pietoso a tranquillar suoi sdegni. 

In van chiedi mercè; di mente in vano 
A lei te stesso sconsigliata incolpi: 
Ella niega placarse: il cocchio freme 
Dell'alterno clamore : il cocchio in tanto 
Giace immobil fra l'ombre : e voi, sue care 
Gemme, il bel mondo impaziente aspetta. 
Ode il cocchiere al fin d'ambe le voci 
Un comando indistinto, e bestemmiando 
Sferza i corsieri, e via precipitando 
Ambo vi porta, e mal sa dove ancora. 

Folle ! di che temei ? Sperdano i venti 
Ogni augurio infelice ! Ora il mio Eroe 
Fra r amico tacer del vuoto Corso 
Lieto si sta la fresca óra godendo 
Che dal monte lontan spira e consola. 
Siede al fianco di lui lieta non meno 
L'altrui cara consorte. Amor nasconde 
La incauta face; e il fiero dardo alzando 
Allontana i maligni. O Nume invitto. 
Non sospettar di me ; eh' io già non vegno 
Invido esplorator, ma fido amico 
De la coppia beata a cui tu vegli. 
E tu, Signor, tronca gl'indugi. Assai 
Fur gioconde quest' ombre allor che prima 
Nacque il vago desio che te congiunse 
All'altrui cara sposa or son due lune. 
Ecco il tedio a la fin serpe tra i vostri 
Cosi lunghi ritiri : e tempo è omai 
Che in più degno di te pubblico agone 
Splendano i genj tuoi. Mira la Notte 
Che col carro stellato alta sen vola 
Per l'eterea campagna"; e a te col dito 
Mostra Teseo nel ciel, mostra Polluce, 
Mostra Bacco ed Alcide e gli altri egregi 
Che per mille d' onore ardenti prove 
Colà fra gli astri a sfolgorar salirò. 



LA NOTTE (v. 147-177). 229 

Svegliati a i grandi esempj: e meco affretta. 

Loco é, ben sai, ne la città famoso 
Che splendida matrona apre al notturno 
Concilio de' tuoi pari, a cui la vita 
Fora senza di ciò mal grata e vile. * 
Ivi le belle e di feconda prole 
Inclite madri ad obliar, sen vanno 
Fra la sorte del gioco i tristi eventi 
De la sorte d'amore onde fu il giorno 
Agitato e sconvolto. Ivi le grandi 
Avole auguste e i gcnitor leggiadri 
De' già celebri Eroi il senso e Y onta 
Volgon de gli anni a rintuzzar fra Tire 
Magnanime del gioco. Ivi la turba 
De la feroce gioventù divina 
Scende a pugnar con le mutabiP arme ** 
Di vaghi giubboncei, d'alti vezzosi, 
Di bei modi del dir stamane appresi ; 
Mentre la Vanità fra il dubbio marte 
Nobil furor ne' forti petti inspira ; 
E con vario destin dando e togliendo 
Le combattute palme, alto abbandona 
I leggeri vessilli a l'aure in preda. 

Ecco che già di cento faci e cento 
Gran palazzo rifulge. Multiforme 
Popol di servi baldanzosamente 
Sale, scende, s'aggira. Urto e fragore 
Di rote, di flagelli e di cavalli. 
Che vengono, che vanno, e stridi e fischi 
Di gente, che domandan, che rispondono, 
Assordan l'aria a l'alte mura intT)rno. 

* 11 De Magri (// giorno, pt. IV, 1829, p. 43): " Alcune delle più 
spleiulide case di Milano si contendevano il vanto di aprire i cir- 
coli più brillanti. La fastosa matrona di cui accenna Parini era 
la contessa S. S., onorata in quei giorni dalla più eletta frequenza 
degli illustri. „ 

'* 11 Mazzoni: " 11 Reina legge mirabiranue, ma già il Tonti av- 
verti, e il Siilveraglio mi conferma, che gli autografi hanno niiila- 
biiuriììe; onde la correzione è ormai doverosa. Naturalmente nin- 
labili vale che si mutano e rimutano, ome vuol3 la midi, di 
giorno in giorno. „ 



28Q IL GIORNO (V. 178-217). 

Tutto è strepito e luce. O tu che porti 
La Dama e il Gavalier dolci mie cure, 
Primo di carri guidator, qua volgi ; 
E fra il denso di rote arduo cammino 
Con olimpica man splendi ; e d' un corso 
Subentrando i grand' atrj, a dietro lascia 
Qual pria le porte ad occupar tendea. 
Quasi a propria virtù, plauda al gran fatto 
Il generoso Eroe, plauda la Bella, 
Che con l'agii pensier scorre gli aurighi 
De le dive rivali, e novi al petto 
Sente nascer per te teneri orgogli. 

Ma il bel carro s' arresta ; e a te la Dama, 
A te prima di lei sceso d'un salto, 
Affidata, o Signor, lieve balzando 
Col sonante calcagno il suol percote. 
Largo dinanzi a voi fiammeggi e gronde. 
Sopra l'ara de' numi ad arder nato. 
Il tesoro dell' api : e a Lei da tergo 
Pronta di servi mano a terra proni 
Lo smisurato lembo alto sospenda : 
Somma felicità che Lei separa 
Da le ricche viventi a cui per anco. 
Misere ! su la via l' estrema veste 
Per la polvere sibila strisciando. 

Ahi ! se novo sdegnuzzo i vostri petti 
Dianzi forse agitò, tu chino e grave 
A Lei porgi la destra, e seco innoltra 
Quale Ibero amador quando, raccolta 
Da r un lato la cappa, contegnoso 
Scorge l'amanza a diportarse al vallo, 
Dove il tauro abbassando i corni irati 
Balza gli uomini in alto, o gemer s'ode 
Crepitante Giudeo per entro al foco. 
Ma no, che V amorosa onda pacata 
Oggi siede per voi: e quanto è d'uopo 
A vagarvi il piacer, solo la increspa 
Una lieve aleggiando aura soave. 
Snello adunque e vivace offri a la Bella 
Mollemente piegato il destro braccio: 



LA NOTTE (v. 218-254). 231 

Ella la manca v'inserisca: premi 

Tu col gomito un poco : un poco anch'ella 

Ti risponda premendo, e a la tua lena 

Dolce peso a portar tutta si doni, 

Mentre lieti celiando a brevi salti 

Su per Tagili scale ambo affrettate. 

Oh come al tuo venir gli archi e le volte 
De' gran titoli tuoi forte rimbombano! 
Come a quel suon volubili le porte 
Cedono spalancate, ed a quel suono 
Degna superbia in cor ti bolle, e face 
L'anima eccelsa rigonfiar più vasta! 
Entra in tal forma; e del tuo grande ingombra 
Gli spazj fortunati. Ecco di stanze 
Ordin lungo a voi s'apre. Altra di sèrvi 
Infimo gregge alberga, ove tra i lampi 
Di molteplice lume or vivo or spento 
E fra sempre incostanti ombre schiamazza 
11 sermon patrio e la facezia e il riso 
Dell'energica plebe. Altra di vaghi 
Zazzerati donzelli è certa sede, 
Ove accento stranier misto al natio 
Molle susurra : e s' apparecchia in tanto 
Copia di carte e multiforme avorio, 
Arme l'uno a la pugna, indice l' altro 
D'alti cimenti e di vittorie illustri. 

Al fin pili interna, e di gran luce e d'oro 
E di ricchi tappeti aula superba 
Sta servata per voi, prole de' numi. 
Io di razza mortale ignoto vate 
Come ardirò di penetrar fra i cori 
De' semidei, ne lo cui sangue in vano 
Gocciola impura cercheria con vetro 
Indaga tor colui che vide a nuoto 
Per l'onda genitale il picciol uomo ? * 
Qui tra i servi m'arresto, e qui da loro 
Nuove del mio Signor virtudi ascose 

* Cfr. del Parini il magiiifico saneUo sulla generazione umana, che 
Icrniina : " Cosi nasce il villano, il Papa e il Re „. Opere, III, 58. 



232 ' IL GIORNO (v. 255-294). 

Tacito apprenderò. Ma tu sorridi, 
Invisibil Gamena, e me rapisci 
Invisibil con te fra li negati 
Ad ognaltro profano aditi sacri. 

Già il mobile de' seggi ordine augusto 
Sovra i tiepidi strati in cerchio volge : 
E fra quelli eminente i fianchi estende 
li grave Ganapè. Sola da un lato 
La matrona del loco ivi s'appoggia ; 
E con la man che lungo il grembo cade 
Lentamente il ventaglio apre e socchiude. 
Or di giugner è tempo. Ecco le snelle 
E le gravi per molto adipe dame 
Ghe a passi velocissimi s'affrettano 
Nel gran consesso. 11 cavalieri egregi 
Lor camminano a lato; ed elle, intorno 
A la sedia maggior vortice fatto 
Di sé medesme, con sommessa voce 
Brevi note bisbigliano, e dileguansi 
Dissimulando fra le sedie umili. 

Un tempo il Ganapè nido giocondo 
Fu di riso e di scherzi, allor che l'ombre 
Abitar gli fu grato ed i tranquilli 
Del palagio recessi. Amor primiero 
Trovò r opra ingegnosa. Io voglio, ei disse, 
Dono a le amiche mie far d* un bel seggio 
Ghe tre ad un tempo nel suo grembo accoglia. 
Gosi, qualor de gì' importuni altronde 
Volga la turba, sederan gli amanti 
L' uno a lato dell'altro, ed io con loro. 
Disse, fé* plauso con le palme, e l' ali 
Apri volando impaziente all' opra. 
Ecco il bel fabbro lungo pian dispone 
Di tavole contesto e molli cigne. 
A reggerlo vi dà vaghe colonne 
Ghe del silvestre Pane i pie leggeri 
Imitano scendendo; al dorso poi 
V alza pàtulo appoggio, e il volge a i lati 
Gome far soglion flessuosi acanti 
ricche corna d'Arcade montone. 



LA NOTTE (v. 295-334). 233 

Indi, predando a le vaganti aurette 
L'ali e le piume, le condensa e chiude 
In tumido cuscin che tutta ingombri 
La macchina elegante; e al fin Tadorna 
Di molli sete e di vernici e d'oro. 

Quanto il dono d'Amor piacque a le belle ! 

• Quanti pensier lor balenerò in mente! 
Tutte il chiesero a gara: ognuna il volle 
Ne le stanze più interne : applause ognuna 
A la innata energia del vago arnese 
Mal repugnante e mal cedente insieme 
Sotto a i mobili fianchi. Ivi sedendo 
Si ritrasser le amiche; e da lo sguardo 
De' maligni lontane, a i fidi orecchi 
Si mormoraro i dilicati arcani. 
Ivi la coppia de gli amanti a lato 
Dell'arbitra sagace o i nodi strinse 
O calmò l'ira e nuove leggi apprese. 
Ivi sovente Tamador faceto 
Raro volume all'altrui cara sposa 
Lesse spiegando, e con sorrisi arguti 
Lepida imago fé' notar tra i fogli. 
Il fortunato seggio invidia mosse 
De le sedie minori al popol vario ; 
E fama è che talor invidia mosse 
Anco a i talami stessi. Ah perchè mai 
Vinto da insana ambizione uscio 
Fra l'immenso tumulto e fra il clamore 
De le veglie solenni? — Havvi due Genj 
Fastidiosi e tristi a cui dier vita 
L'Ozio e la Vanità; che, noti al nome 
Di Puntiglio e di Noja, erran cercando 
Gli alti palagi e le vigilie illustri 
De la stirpe de' Numi. Un fra le mani 
Porta verga fatale onde sospende 
Ne* miseri percossi ogni lor voglia ; 
E di macchine al par che l'arte inventi 
Modera V alme a suo talento e guida. 
L'altro piove da gli occhi atro vapore ; 
E da la bocca sbadigliante esala 



'XU IL GIORNO (v. 335-374). 

Alito lungo che sembiante a i pigri 
Soffj dell'austro si dilata e volve, 
E d' inane torpor lo menti occupa. 
Questa del Canapè coppia infelice 
Allor prese V imperio, e i risi e i giochi 
Ed Amor ne sospinse; e trono il fece 
Ove le madri de le madri eccelse 
De' primi eroi esercitan lor tosse; 
Ove r inclite mogli a cui beata 
Rendon la vita titoli distinti 
Sbadigliano distinte. Ah fuggi! ah fuggi, 
Signor, dal tetro influsso, e là fra i seggi 
De le più miti dee quindi remoto 
Con l'alma gioventù scherza e t'allegra. 

Quanta folla d'eroi! Tu che modello 
D'ogni nobil virtù, d' ogn' atto egregio. 
Esser dèi fra' tuoi pari, i pari tuoi 
A conoscere apprendi ; e in te raccogli 
Quanto di bello e glorioso e grande 
Sparse in cento di loro arte o natura. 
Altri di lor ne la carriera illustre 
Stampa i primi vcstigj ; altri gran parte 
Di via già corse; altri a la meta è giunto. 
In vano il vulgo temerario a gli uni 
Di fanciulli dà nome; e quelli adulti, 
Qui^sti omai vegli di chiamare ardisce : 
Tutti son pari. Ognun folleggia e scherza ; 
Ognun giudica o libra ; ognun del pari 
L'altro abbraccia e vezz(»ggia: in ciò sol tanto 
Non simili tra bìr. che ognun sua cura 
Ha fra l'altre diletta onde più brilli. 

Questi or esce di là dove ne'trivj 
Si ministran bevande, ozio e novelle. 
Ei v' andò mattutin, partinne al pranzo, 
Vi tornò lino a notte: e già sei lustri 
Volgoli da poi che il bel tenor di vita 
Giovanetto intrapresi;. Ah chi di lui 
Può sedendo trovar più grati sonni 
() più lunghi sbadigli, o più fiate 
D'atro rapè solleticar le nari. 



LA NOTTE (v. 375-414). 235 

O a voce popolare orecchio e fede 
Prestar più ingordo e declamar più forte? 
Quegli é l'almo garzon che con maestri 
Da la scutica sua moti di braccio 
Desta sibili egregi ; e V ore illustra 
I/aere agitando de le sale immense 
Onde i prischi trofei pendono e gli avi. 
L'altro è l'eroe che da la guancia enfiata 
E dal torto oricalco a i trivj annunzia 
Suo talento immortai , qualor dall'alto 
De' famosi palagi emula il suono 
Di messagger che frettoloso arrive. 
Quanto è vago a mirarlo allor che in veste 
Cinto spedita, e con le gambe assorte 
In ampio cuojo, cavalcando a i campi 
Rapisce il cocchio ove la dama è assisa 
E il marito e l'ancella e il figlio e il cane! 
Vuoi su lucido carro in di 'solenne 
Gir trionfando al corso ? Ecco queir uno 
Che al lavor ne presieda. E legni e pelli 
E ferri e sete e carpentieri e fabbri 
A lui son noti : e per l'Ausonia tutta 
È noto ei pure. 11 Calabro di feudi 
E d' ordini superbo, i duchi e i prenci 
Che pascon Mongibello, e fin gli stessi 
Gran nipoti Romani a lui sovente 
Ne commetton la cura : ed ei sen vola 
D' una in altra officina in fin che sorga 
Auspice lui la fortunata mole; 
Poi di tele ricinta e contro all' onte 
De la pioggia e del sol ben forte armata, 
Mille e più passi l'accompagna ei stesso 
Fuor de le mura, e con soave sguardo 
La segue ancor sin che la via declini. 
Or non conosci del figliuol di Maja 
Il più celebre alunno, al cui consiglio 
Nel gran dubbio de' casi ognaltro cede. 
Sia che dadi versati o pezzi eretti 
O giacenti pedine o brevi o grandi 
Carte mescan la pugna ? Ei sul mattino 



230 IL GIORNO (v. 415-454). 

Le stupide emicranie o V aspre tossi 
Molce giocando a le canute dame; 
Ei, già tolte le mense, i nati or ora 
Giochi a le belle declinanti insegna. 
Ei, la notte, raccoglie a sé dintorno 
Schiera d'eroi che nobil estro infiamma 
D'apprender l'arte onde l'altrui fortuna 
Vincasi e domi, e del soave amico 
Nobil parte de' campi all'altro ceda. 
Vedi giugner colui che di cavalli 
Invitto domator divide il giorno 
Fra i cavalli e la dama ? Ov de la dama 
La man tiepida preme; or de* cavalli 
Liscia i dorsi pilosi, o pur col dito 
Tenta a terra prostrato i ferri e l'ugna. 
Ahimè misera lei quando s'indice 
Fiera altrove frequente ! Ei l'abbandona 
E per monti inaccessi e valli orrende 
Trova i lochi remoti, e cambia o merca. 
Ma lei beata poi quand' ei sen torna 
Sparso di limo e novo fasto adduce 
Di frementi corsieri ; e gli avi loro 
E i costumi e le patrie a lei soletta 
Molte lune ripete! (ir mira un altro 
Di cui più diligente o più costante 
Non fu mai damigella o a tesser nodi 
O d' aurei drappi a separar lo stame. 
A lui turgide ancora ambo le tasche 
Son d' ascose materie. Eran già queste 
Prezioso tappeto in cui distinti 
D'oro e lucide lane i casi apparvero 
D' Ilio infelice : e il cavalier, sedendo 
Nel gabinetto de la dama, ormai 
Con ostinata man tutte divise 
In fili minutissimi le genti 
D'Argo e di Frigia. Un fianco solo resta 
De la Greca rapita ; e poi l' eroe 
Pur giunto al fin di sua deceime impresa 
Andrà superbo al par d'ambo gli Alridi. 
Ve'clii sa ben come si deggia a punto 



LA NOTTE (v. 455-4^). 237 

Fausto di nozze o pur d'estremi fati 

Miserabile annuncio in carta esporre. 

Lui scapigliati e torbidi la mente 

Per la gran doglia a consultar sen vanno 

I novi eredi : né già mai fur viste 

Tante vicino a la Gumèa caverna 

Foglie volar d' oracoli notate, 

Quanti avvisi ei raccolse i quali un giorno 

Per gran pubblico ben serbati fièno. 

Ma chi r opre diverse o i varj ingegni 
Tutti esprimer porla, poi che le stanze 
Folte già son di cavalieri e dame ? 
Tu per quelle t' avvolgi, ardito e baldo 
Vanne, torna, t' assidi, ergiti, cedi. 
Premi, chiedi perdono, odi domanda. 
Sfuggi, accenna, schiamazza, entra e ti mesci 
Ai divini drappelli; e a un punto empiendo 
Ogni cosa di te mira et apprendi. 

Là i vezzosi d'Amor novi seguaci 
Lor nascenti fortune ad alta voce 
Gonfidansi air orecchio, e ridon forte 
E saltellando batton palme a palme ; 
Sia che a leggiadre imprese Amor li guidi 
Fra le oscure mortali, o che gli assorba 
De le dive lor pari entro a la luce. 
Qui gli antiqui d'Amor noti campioni, 
Con voci esili e dalF ansante petto 
Fuor tratte a stento, rammentando vanno 
Le già corse in amar fiere vicende. 
Indi gl'imberbi eroi, cui diede il padre 
La prima coppia di destrier pur jeri. 
Con animo viril celiano al fianco 
Di provetta beltà che a i risi loro 
Alza scoppj di risa, e il nudo spande 
Che di veli mal chiuso i guardi cerca 
Che il cercarono un tempo. Indi gli adulti 
A la cui fronte il primo ciuffo appose 
Fallace parrucchier scherzan vicini 
A la sposa novella ; e di bei motti 
Tendonle insidia ove di lei s'intrichi 



288 IL GIORNO (v. 495-534). 

L'alma inesperta e il timido pudore. 
Folli ! che a i detti loro ella va incontro 
Valorosa cosi come una madre 
Di dieci eroi. V'ha in altra parte assiso 
Chi di lieti racconti o pur di fole 
Non ascoltate mai raro promette 
A le dame trastullo, o ride e narra 
E ride ancor, ben che a le dame in tanto 
Sul beir arco de' labbri aleggi e penda 
Non voluto sbadiglio: e v'ha chi altronde 
Con fortunato studio in novi sensi 
Le parole converte; e in siinil suoni 
Pronto a colpir divinamente scherza. 
Alto al genio di lui plaude il ventaglio 
De le pingui matrone a cui la voce 
Di vernacolo accento anco risponde ; 
Ma le giovani madri al latte avvezze 
Di più gravi dottrine il sottil naso 
Aggrinzan fastidite ; e pur col guardo 
Scmbran chieder pietade a i belli spirti 
Che lor siedono a lato e a cui gran copia 
D'erudita effemeride distilla 
Volatile scienza entro a la mente. 
Altri altrove pugnando audace innalza 
Sopra d' ognaltro il palafren eh' ei sale, 
(.) il poeta il cantor che lieti ei rende 
De le sue mense. Altri dà vanto all' elso 
Lucido e bello de la spada ond'egll 
Solo, e per casi non più visti, al fine 
Fu dal più dotto Anglico artier fornito. 
Altri grave nel volto ad altri espone 
Qual per l'appunto a gran convito apparve 
Ordin di cibi : ed altri stupefatto, 
Con profondo pensier, con alte dita 
Conta di quanti tavolieri a punto 
Grande insolita veglia andò superba. 
Un fra l'indice e il medio inflessi alquanto 
Molle ridendo al suo vicin la gota 
Preme furtivo : e 1' un da tergo all' altro 
Il pendente cappel dal braccio invola ; 



LA NOTTE (v. 535-549). 239 

E del felice colpo a sé dà plauso. * 
Ma d'ogni. lato i pronti servi in tanto 
E luci e tavolieri e seggi e carte, 
Suppellettile augusta, entran portando. 
Un sordo stropicciar di mossi scanni. 
Un cigolio di tavole spiegate 
Odo vagar fra le sonanti risa 
Di giovani* festivi e fra le acute 
Voci di dame cicalanti a un tempo : 
Qual dintorno a selvaggio antico moro 
Suir imbrunir del di garrulo stormo 
Di frascheggianti passere novelle. 
Sola in tanto rumor tacita siede 
La matrona del loco : e chino il fronte 
E increspate le ciglia, i sommi labbri 

* A questo~punto doveva probabilmente innestarsi il frammento 
che il Carducci pubblicò nella sua Storia fjiel Giorno, pag. 27.3-4. 
Descrive l'entrala nella conversazione d'una sposa novella: "A lei 
vegnente Sorgon plaudendo i cavalier gentili. A lei vegnente 
r inclite matrone Con severo contegno in su le gote Stampan 
di mano in man due baci a punto, E con pari contegno in su 
le gole Poi ricevon da lei due baci a punto. Tal, se volgendo 
i due begli occhi grandi Ne le sale del ciel Giuno sen viene Dal 
talamo immortai ove rendette Padre d' un altro nume il gran 
Tonante, I maschi eterni e le divine femine Di letizia e di fe- 
sta a lei dan segno. A lei di Cirra il vago dio che torna Pur 
or dal giro suo, dove correndo Sparse di raggi d'oro ampia ric- 
chezza. Chinasi e versa dal bocchin socchiuso Eleganze stra- 
niere : a lei Gradivo, Stretti i gomiti al fianco e il petto alzato 
E la canna pendente in fra le dita, Mollemente sorride: anco 
Cillenio Col piumato cappel sotto a T ascella E d'alati fermagli 
il piede ornato Rompe la folla, e di lontan comincia A spander 
di parole alto profluvio Applaudendo a la diva. Idalia intanto. 
Chiara nel ciel pQr variati amori E per argute di parlar licenze, 
Corre improvviso ad abbracciarla, e s'alza, E un non so che 
susuirale a 1' orecchio. Quella semplice ancor tigne il bel volto 
D' un vermiglio importuno, e questa cade Supina in sul sedile 
alti mandando Scoppi di risa, e rigonfiando ansante Ciò che 
del molle seno anco le resta. Che di veli mal chiuso i guardi 
cerca Che il cercarono un tempo. A tale aspetto Tu, casUssima 
dea de' boschi amica, Torci il candido collo, i labbri aggrinzi, 
E fastidita a contemplar ti volgi Del biondo Ganimede il volto 
e i moti, Mentr'ei girando per lo ciel dispensa 11 nettare ge- 
lato o pur l'ambrosia De i divini palati almo conforto. „ Qualche 
verso i)erò (487-90) era già nel testo. 



240 IL GIORNO (v. 550-580). 

Appoggia in sul ventaglio, arduo pensiere 
Macchinando tra sé. Medita certo 
Come al candor, come al pudor si deggia 
La cara figlia preservar che torna 
Doman da i chiostri ove il sermon d'Italia 
Pur giunse ad obliar, meglio erudita 
De le Galliche grazie. Oh qual dimane 
Ne i genitor, ne' convitati a mensa 
Ben cicalando ecciterai stupore. 
Bolla fra i lari tuoi vergin straniera ! 
Errai. Nel suo pensier volge di cose 
L' alta madre d' eroi mole più grande ; 
E nel dubbio crudel col guardo invoca 
De le amiche V aita ; e a sé con mano 
Il fido cavalier chiede a consiglio. 
Qual mai del gioco a i tavolier diversi 
Ordin porrà che de le dive accolte 
Nulla obliata si dispetti, e nieghi 
Più qui tornare ad aver scorno ed onte ? 
Come con pronto antiveder del gioco 
Il dissi mil tenore a i genj eccelsi 
Assegnerà conforme, ond' altri poi 
Non isbadigli lungamente, e pianga 
Le mal gittate ore notturne, e lei 
De lo infelice oro perduto incolpi ? 
Qual paro e quale al tavolier medesmo 
E di campioni e di guerriere audaci 
Fia che tra loro a tenzonar congiunga ; 
Si che già mai per miserabil caso 
La vetusta patrizia, essa e lo sposo 
Ambo di regi favolosa stirpe, * 

* Alinola il De Magri (p. 52) che •* V ironia è diretta a mordere 
un libro il quale, proponendosi di investigare le origini delle no- 
stre famiglie patrizie, con ridicola sottigliezza d'argomenti, tutte le 
trova nella storia degli anticlii Romani e Greci „. Il libro sarebbe 
di un tal Giovan Pietro de' Cresccnzi, romano, nobile piacentino. 
Fu pul)blicatoaMiIano, "nella Heg. Due. Corte,, 111648, con questo 
pomposo titolo: Anfiteatro Romano, nel quale, con le memorie de' 
(haniìi, si rappilogano in parte l'origine et le grandezze de' primi 
Potentati d'Europa: et descrivendosi i principi et V instituto di tutti 
gli Ordini antichi o nuovi della Cavalleria di Collana, si rappresenta 
la nobiltà delle famiglie antiche e nuove della regia città di Milano ecc. 



LA NOTTE (v. 581-620), 241 

Con lei non scenda al paragon che al grado 
Per breve serie di scrivani or ora 
Fu de' nobili assunta, e il cui marito 
Gli atti e gli accenti ancor serba del monte ? 
Ma che non può sagace ingegno e molta 
D*anni e di casi esperienza ? Or ecco 
Ella compose i fidi amanti, e lungi 
De la stanza nell'angol più remoto 
Il marito costrinse, a di si lieti 
Sognante ancor d' esser geloso. Altrove 
Le occulte altrui, ma non fuggite all'occhio 
Dotto di lei ben che nascenti a pena, 
Dolci cure d'amor, fra i meno intenti 

i meno acuti a penetrar nell'alte 
Dell' animo làtèbre, in grembo al gioco 
Pose a crescer felici : e già in duo cori 
Grazia e mercé de la beli' opra ottiene. 
Qui gì' illustri e le illustri ; e là gli estremi 
Ben seppe unir de'novamente compri 
Feudi, e de' prischi gloriosi nomi 

Cui mancò la fortuna. Anco le piacque 
Accozzar le rivali, onde spiarne 

1 mal chiusi dispetti. Anco per celia 
Più secoli adunò, grato aspettando 
E per gli altri e per sé riso dall' ire 
Settagenarie che nel gioco accense 
Fien, con molta raucedine e con molto 
Tentennar di parrucche e cuffie alate. 

Già per l' aula beata a cento intorno 
Dispersi tavolier seggon le dive, 
Seggon gli eroi, che dell' Esperia sono 
Gloria somma o speranza. Ove di quattro 
Un drappel si raccoglie, e dove un altro 
Di tre soltanto. Ivi di molti e grandi 
Fogli dipinti il tavolier si sparge, 
Qui di pochi e di brevi. Altri combatte ; 
Altri sta sopra a contemplar gli eventi 
De la inslabil fortuna e i tratti egregi 
Del sapere o dell'arte. In fronte a tutti 



Grave regna il consiglio: e li circonda 



16 



242 IL GIORNO (v. 621-660). 

Maestoso silenzio. Erran sul campo 
Agevoli ventagli, onde le dame 
Gercan ristoro all'agitato spirto 
Dopo i miseri casi. Erran sul campo 
Lucide tabacchiere: indi sovente 
Un'util rimembranza, un pronto avviso 
Con le dita si attigne; e spesso volge 

I destini del gioco e de la veglia 
Un atomo di polve. Ecco sen ugne 

La panciuta matrona intorno al labbro 
Le calugini adulte: ecco sen ugne 
Le nari dilicate e un po' di guancia 
La sposa giovinetta. In vano il guardo 
D' esperto cavalier che già su lei 
Medita nel suo cor future imprese 
Le domina dall'alto i pregi ascosi: 
E in van d'un altro timidetto ancora 

II pertinace pie l'estrema punta 

Del bel pie le sospigne. Ella non sente 
O non vede o non cura. Entro a que' fogli 
Gh' ella con man si lieve ordina o turba 
De le pompe muliebri a lei concesse 
Or s'agita la sorte. Ivi è raccolto 
Il suo cor, la sua mente. Amor sorride; 
E luogo e tempo a vendicarsi aspetta. 
Ghi la vasta quiete osa da un lato 
Romper con voci successive, or aspre, 
Or molli, or alte, ora profonde, sempre 
Gon tenore ostinato al par di secchi 
Ghe scendano e ritornino piagnenti 
Dal cupo alveo dell'onda; o al par di rote 
Ghe sotto al carro pesante, per lunga 
Odansi strada scricchiolar lontano ? 
L'ampia tavola è questa a cui s'aduna 
Quanto mai per aspetto e per maturo 
Senno il nobil concilio ha di più grave 
O fra le dive socere o fra i nonni 
O fra i celibi già da molti lustri 
Memorati nel mondo. In sul tappeto 
Sorge grand' urna che poi scossa in volta 



LA NOTTE (v. 661-688). 243 

La dovizia de' numeri comparte 
Fra i giocator cui numerata è innanzi 
D* immagini diverse alma vagliezza. * 
Qual finge il vecchio che con man la negra 
Sopra le grandi porporine brache 
Veste raccoglie, e rubicondo il naso 
Di grave stizza alto minaccia e grida 
L'aguzza barba dimenando. Quale 
Finge colui che con la gobba enorme 
E il naso enorme e la forchetta enorme 
Le cadenti lasagne avido ingoja. 
Quale il multicolor Zanni leggiadro 
Che col pugno posato al fesso legno 
Sovra la punta dell' un pie s'innoltra 
E la succinta natica rotando 
Altrui volge faceto il nero ceffo. 
Né d'animali ancor copia vi manca, 

al par d'umana creatura l'orso 
Ritto in due piedi o il micio o la ridente 
Simia o il caro asinelio onde a sé grato 
E giocatrici e giocator fan speglio. 

Signor, che fai ? Cosi dell' opre altrui 
Inoperoso spettator non vedi 
Già la sacra del gioco ara disposta 
A te pur anco? E nel!' aurato bronzo. 
Che d'Attiche colonne il grande imita, 

1 lumi sfavillanti a cui nel mezzo 
Lusingando gli eroi sorge di carte 



* • La Cavagnola, giuoco ugitato in Lombardia „, annota il Reina ; 
e il De Magri soggiunge: • Essendosi a' di nostri perduto ruso e la 
memoria di questo giuoco, non sarà ingrato un più esteso cenno 
del medesimo, tratto da un moderno dizionario francese. — Jcu 
de Iiasard, qui nous a été apporté de Génes vers le milieu du dix- 
huìtième siede. Les Gcnois l'appellent Cavajola, mot qui signìfìe 
nappe ou scrvielte. Il se joue avec de petits tableaux à cinq cases, 
qui contiennent des figuresetdes numéros. Gomme il n'y a point 
de lianquier et que cliacun Ure les boules à son tour, il est égal 
pour tous les joueurs. Il ctait en usage du temps de Voltaire, qui 
cn parie dans ces vers d' une épitre à la princesse de....: On croiraìt 
que le Jeii console, Mais V ennui vieni à pas comptés A la table 
d'un Caitagnole S' asseoir entra deux Majestés „. 



244 IL GIORNO (v. 689-728). 

Elegante congerie intatta ancora ? ? 

Ecco s' asside la tua Dama e freme 
Omai di tua lentezza : eccone un' altra, 
Ecco reterno cavalier con lei 
Che ritto in pie del tavolino al labbro 
Più non chiede che te; e te co i guardi, 
Te con le palme desiando- affretta. 
Questi, or volgon tre lustri, a te simile . 
Gorre di gloria il generoso stadio 
De la sua dama al fianco. A lei Finterò 
Giorno il vide vicino, a lei la notte 
Innoltrata d'assai. Varia tra loro 
Fu la sorte d' amor, mille le guerre, 
Mille le paci, mille i furibondi 
Scapigliati congedi e mille i dolce 
Palpitanti ritorni, al caro sposo 
Noti non sol, ma nel teatro e al corso 
Lunga e trita novella. Al fine Amore 
Doco tanti travagli a lor nel grembo 
Molle sonno chiedea, quand'ecco il Tempo 
Tra la coppia felice osa indiscreto 
Passar volando; e de la dama un poco, 
Dove il ciglio ha confin, riga la guancia 
Gon la cima dell' ale, all' altro svelle 
Parte del ciuffo che nel liquid' aere 
Si conteser di poi 1' aure superbe. 
Al fischiar del gran volo, a i dolci lai 
De gli amanti sferzati, Amor si scosse. 
Il nemico senti, l'armi raccolse, 
A fuggir cominciò. Pietà di noi, 
Pietà! gridan gli amanti: or se tu parti, 
Gome sentir la cara vita, come 
Più lunghi desiarne i giorni e V ore ? 
Nò già in van si gridò. La gracil mano 
Verso r omero armato Amor levando, 
Rise un riso vezzoso; indi un bel mazzo 
De le carte che Felsina colora 
Tolse da la faretra, e Questo, ei disse, 
A voi resti in mia vece. Oh meraviglia! 
Ecco que' fogli, con diurna mano 



LA NOTTE (v. 729-768). 245 

E notturna trattati, anco d' amore 
Sensi spirano e moti. Ah se un invito 
Ben comprese giocando e ben rispose 
Il cavalier, qual de la dama il fìede 
Tenera occhiata che nel cor discende; 
E quale a lei voluttuoso in bocca 
Da una fresca rughetta esce il sogghigno! 
Ma se i vaghi pensieri ella disvia 
Solo un momento, e il giocatore avverso 
Util ne tragge, ah! il cavaliere allora 
Freme geloso, si contorce lutto. 
Fa irrequieto scricchiolar la sedia; 
E male e violento aduna, e male 
Mesce i discordi de le carte semi ; 
Onde poi V altra giocatrice a manca 
Ne invola il meglio : e la stizzosa dama 
I due labbri aguzzando il pugne e sferza 
Con atroce implacabile ironia 
Gara a le belle multilustri. Or ecco 
Sorger fieri dispetti, acerbe voglie, 
Lungo aggrottar di ciglia, e per più giorni 
A la veglia, al teatro, al corso, in cocchio, 
Trasferito silenzio. Al fin chiamato 
Un per gran senno e per veduti casi 
Nèstore tra gli eroi famoso e chiaro. 
Rompe il tenor de le ostinate menti 
Con mirabil di mento arduo consiglio. 
Cosi, ad onta del tempo, or lieta or mesta 
L'alma coppia d'amarsi anco si fìnge. 
Cosi gusta la vita. Egual ventura 
T'é serbata, o Signor, se ardirà mai. 
Gli' io non credo però, V alato veglio 
Smovere alcun de' preziosi avorj 
Onor de' risi tuoi, si che le labbra 
Si ripieghino a dentro e il gentil mento 
Oltre i confìn de la bellezza ecceda. 
Ma d'ambrosia e di nettare gelato 
Anco a i vostri palati almo conforto. 
Terrestri Dcitadi, ecco scn viene ; 
E cento Ganimedi, in vaga pompa 



246 IL GIORNO (v. 769-808). 

E di vesti e di crin, lucide tazze 
Ne recan taciturni ; e con leggiadro 
E rispettoso inchin tutte spiegando 
Dell* omero virile e de' bei fianchi 
Le rare forme, lusingar son osi 
De le Cinzie terrene i guardi obliqui. 

Mira, o Signor, che a la tua Dama un d'essi 
Lene s' accosta e, con sommessa voce 
E mozzicando le parole alquanto 
Onde pur sempre al suo Signor somigli, 
A lei di gel voluttuoso annuncia 
Copia diversa. Ivi è raccolta in )ieve 
La fragola gentil che di lontano 
Pur col soave odor tradi sé stessa ; 
V'ò il salubre limon ; v'é il molle latte; 
V'é con largo tesor culto fra noi 
Pomo stranier che coronato usurpa 
Loco a i pomi natii ; v' è le due brune 
(Morose bevande che pur dianzi 
Di scoppiato vulcan simili al corso 
Fumanti, ardenti, torbide, spumose, 
Inondavan le tazze, ed or congeste 
Sono in rigidi coni a fìeder pronte 
Di contraria dolcezza i sensi altrui. 

Sorgi tu dunque e a la tua Dama intendi 
A porger di tua man, scelto fra molti. 
Il sapor più gradito. I suoi desiri 
Ella scopre a te solo ; e mal gradito 
O mal lodato al men giugne il diletto 
Quando al senso di lei per te non giunge. 
Ma pria togli di tasca intatto ancora 
Candidissimo lin, che sul bel grembo 
Di lei scenda spiegato, onde di gelo 
Inavvertita stilla i cari veli 
E le frange pompose in van minacci 
Di macchia disperata. Umili cose 
E di picciol valore al cieco vulgo 
Queste forse parran che a te dimostro 
Con si nobili versi, e s[)argo ed orno 
De' vaghi fiori de lo stil ch'io colsi 



LA NOTTE (v. 809-816). 247 

Ne' recessi di Pindo e che già mai 
Da poetica man tocchi non furo. 
Ma di si crasso error di tanta notte 
Già tu non hai V eccelsa mente ingombra, 
Signor, che vedi di quest'opra ordirsi 
De' tuoi pari la vita, e sorger quindi 
La gloria e lo splendor di tanti eroi 
Che poi prosteso il cieco vulgo adora. 



* A colmare la lacuna, il Carducci {Storia del Giorno, p. 276-280), 
pubblica le seguenti note rinvenute tra gli autografi pariniani : 

" 11 teatro è vin alveare, i palchi le celle, i giovani le api che 
fanno il miele. — Al teatro gli altri vanno per sollevarsi dalle fa- 
tiche, tu solo ci y^ì per coronare coU'estrema le fatiche del giorno. 

— Porti il sacco, Iq levi, lo adatti; segga in faccia alla dama, pu- 
lisca il cannocchiale^ esibisca diavoletti, porti ambasciate. — Go- 
dere in un punto coi> la vista gli spettacoli, coir udito la musica, 
coH'olfato gli odori, co^ gusto gli sporgimenU, col tatto del ginoc- 
chio la donna. — Gli atteri applaudi non quando il meritano ma 
quando vien capriccio. Il \ulgo adopera la ragione e quel senso 
che per ciò è detto comunaj ma le voglie repentine sieno sole la 
tua norma. — Donne di teat»^ : Amore guarda le dame, e sorride. 

— Celibi. — Marito. — Bando 9 nastro da notte ricamato a carat- 
teri amorosi dalla bella. — Cav^ier savio, dama savia. — Caratteri 
di donne da visitare in teatro. — - Maschere. Chauves-souris. Tor- 
nando svegliarsi all' improvviso e applaudire a chi stona. — Ca- 
valieri che mantengono donne. -^ Cavalieri che danno ciarle 
e protezione alle donne di teatro non potendo dar altro. — 
Dame guardano ai ballerini, cavalieri aUe ballerine. — In palco 
non ceder la mano, tornando ripigliarla. — Nella platea discendi 
talora, accomunati co' musici, buffoni mutoli. — Degna talora gli 
uomini di talento, ma come lione. — Parlar forte dalla platea al 
palco.— Nel partir dal palco cerchi dello staffiere per la mantiglia, 
la metta alla dama, ne acconci le code nel cappuccio. — Meravi- 
glia de' posteri pensando che tu abbi fatto ogni giorno tante cose 
per tanti anni. — Morte dell'eroe, funerali, apoteosi. — Inferno. 
Mostri vari, ombre pallide, tutti eguali. Giudici sedendo distribui- 
sco n le pene : tolgono agli uni il frutto de' lor peccati, danno ad 
altri un premio che tornerà in loro danno, ec. „ E anche questi 
versi: ' Poi che tant'opre e gloriose hai solo Fatte in un giorno, 
almo signore, or vieni Meco e discendi ne la valle inferna. Nò 
il lusingante con la cetra Orfeo Né l'armato di clava Ercole in- 
vitto Sarien si chiaro a scintillar saliti Là per la volta de l'e- 
tereo polo, Se non tentato già per l'ombre eterne Lasciato 
avesser l'ultimo perigUo; Né di te degno e de relerna Clio Sarla 



248 IL GIORNO. 

il tuo vale, se de gli altri al paro Poi non guidasse il suo can- 
tato eroe Felice temerario in faccia a Pluto. Vergine furibonda 
e scapigliata De le cui voci profetanti tutta Ululava l'cuboica 
riviera Ne' prischi tempi e che guidasti a Dite — 11 timoroso de 
gli dei troiano, Tu predinne le sorti e tu ne assisti, Mentre 
d'un semideo guidando i passi Scendo uom mortale e jienetrar 
son oso 1 ridotti de l'ombre e il regno avaro. Ma oh Dio già 
mi trasformo. Ecco ceco un velo Ampio, nero, lugubre a me 
d'intorno Si diffonde, mi copre. In grembo ad esso Si rannic- 
chian le braccia, e veggio a pena Zoppicarmi del pie la punta 
estrema Sotto spoglie novelle. Orrida giubba Di negro velo 
anch'essa a me dal capo Scende sul dorso e si dilata, e cela E 
mento e gola e petto. Ahimè il sembiante Sorge privo di labbra, 
esangue, freddo, E di squallore sepolcral coperto ,. 



Tra le carte pariniane, dice il Cantù (L'ab. Parini, 1854, p. 266-7), 
" si trovarono il Vespro compito, con due foglietti che ne conte- 
neano le varianti, e sette esemplari della Notte non finita ». 

A proposito dei vv. 210-11 della Nolte, sarà bene riferire qui in 
nota un frammento parìniano, in cui è descritto un Auto da fé 
{OjK, I, 227-30). Son versi storicamente notevoli. Nel 1768 Maria Te- 
resa soppresse nel Ducato di Milano l'Inquisizione dell'eretica 
pravità; e dai primi due versi parrebbe che al poeta venisse dal- 
Tallo r ingiunzione di descrivere gli orrori del Sani' Uffizio nella 
Spagna. 

Fingimi, o Musa, or che prescritto è il fuoco 
Per subbietto al tuo canto, in versi sciolti 
Atti a svegliar nel sen del mio Baretti 
Leggiadra bile contro a quel che il primo 
Osò scuotere il giogo de la rima 
Che della querul'Eco il suono imita; 
Fingimi, dico, in qual guisa l'Ibero, 
Amator di spettacoli funesti, 
Soglia a sé far delizioso obbietto 
De la morte de gli empj i quai fur o«i 
Sollevarsi ostinati incontro a i dogmi 
De la Religton de^ nostri padri. 
Ecco di già l'orribile teatro 
Spalancato ingojar per cento vie 
La ognor di stravaganze avida plebe. 
Ecco sorger da un lato anfiteatro 
Lagrimevole e tristo ove non d'orsi 
O tauri tigri o barbare leene 
Fera strage sarà ; ma dove attendo 



LA NOTTE. 249 

L' ultima pena i miseri dannati. 

Ecco dall'altro il venerato trono 

Del giudice supremo a cui fu dato 

Por fren de gli empj all'esecrande lingue 

Colla spada e col fuoco. In tanto move 

Con lento passo e con squallide facce 

La terribile pompa in ordin lungo. 

S'avanzan primi i figli di colui 

A cui il ciel die' la spada e disse: uccidi 

Gli empj fratelli tuoi cui il ver s'asconde; 

Indi gli altri ministri i quai di, tanto 

Gran potestade fur chiamati a parte. 

Ma già vengon co' pie nudi seguendo 

L' imagine di quel che per salvarne 

Mori sul legno i duri peccatori. 

Ei lor volge le spalle onde sia chiaro 

Che lor non resta a più sperar salute. 

Tutti intorno li copre oscura vesta 

Cui vergan bianche liste; e sopra il petto 

E su gli omeri scende altra di tetro 

Mal augurato bigio colorita. 

Fiamme infernali, draghi e dimon crudi, 

Che con orrendi ceflft attizzan fuoco 

Sotto all'imagin del tristo dannato, 

Quivi sono dipinti. Al basso appare 

L' infame nome e l'esecrabil colpa 

Che a tanta pena il cattivel conduce: 

se bestemmiando alzò la voce 

In contro al Nume ; o se per danno altrui 

Osò evocar dall' Èrebo infelice 

Con sacrilego carme spirti ed ombre; 

O col poter di bestemmiati sughi 

De le sfrenate lammie a i sozzi alberghi 

Notturno venne. Spaventose mitre 

Loro sorgon sul capo, ove i demóni 

Entro a sulfuree fiamme e serpi e botte 

Tesson atra ghirlanda. Oh quant'uom puote 

Umiliar l'altr'uomo! In cotal guisa. 

Recando ne la man funeree faci 

Tutte a giallo dipinte, ì peccatori 

S'avviano a lor giudizio, indi a la pena. 

Ma non eviteran color l'infamia 

Che prevenner, morendo, il giorno atroce; 

Però che l'ossa lor sturbate ancora 

Da la quiete de le fredde tombe 

Vanno a le fiamme, accolte in forzier neri 

Sui quali alto s'erige il simulacro 

Ch'ebbero dianzi allor che spirto e forma 

Aveano d'uomo. Ecco già gli ampj roghi 

Accender veggio; e de le fiamme all'aere 



250 IL GIORNO. 

I minacciosi coni ir sibilando. 

Già le vittime accoglie il tetro fuoco 

Vendìcator de la religione 

Insultata da gli empj. Il elei rimbomba 

In voci di pietade e di furore. 

Già compiuta è la scena: ecco ne porta 

Le ceneri meschine il vento e il fiume. 

O Iberia, Iberia, hai tu forse più ch'altri 

Di sacrileghi e d'empj il suol fecondo 

Che si spesso ritorni al fero gioco? 

11 Canapè (cfr. vv. 261 ss.) fu anche celel>rato dal Parini in uno 
degli Scherzi sulle Vèntole {Op,, III, 13): 

Sopra il molle canapè 
Nel meriggio più infocato 
Un mi tiene avanti a sé; 
Altri due gli stanno a lato. 
Io con moto dolce e grato 
Do ristoro a tutti e tre 
Sopra il molle canapè. 

E il Ventaglio, che compie una cosi importante parte nella con- 
versazione patrìzia e durante il gioco, fu pur esso variamente il- 
lustrato dal poeta nei suoi Scherzi (v. dietro, p. 97) : 

Noi ventagli e voi amanti 
Tra di noi ci somigliamo. 
Or mutati, ora scordati, 
Or dimessi, ora cercati, 
Capovolti, raggirati. 
Ora siamo di moda ed or noi siamo, 
Come piace a le belle a cui serviamo. 

Il tuo bene, il tuo bel foco 
Fa all'amore in altro loco: 
E tu, Nice, che farai 
Per passar questo momento? 
Fatti vento! 

De le belle il ca])0 a nuoto 
Va in un turbin di cai)ricci. 
Io movendomi do moto 
À quel turbin di capricci: 
E cosi con l'opra mia 
Impedisco che corrotti 
Non diventino pazzia. 

Mi par bene di riferire (lui per dichiarare alcuni degli ultimi 
versi della Sotte, e non essi soltanto, le considerazioni che ebbe a 
farvi su, per caso, lo Zumbini {Poeti italiani e poeti stranieri, nel 
Giorn. SapoL d. domenica, 5 febbraio 1882). 

" Il Foscolo aveva giù notato come l' ironia del poema pariniano 



LA NOTTE. 251 

ci facesse rammentare talvolta di quella del The rape of the Lock 
del Pope „ — egli dice (cfr. Foscolo, Opere, Le Monnier, XI, 218-9). 
Si potrebbe soggiungere che già al Baretti, nella Frusta del 1° ot- 
tobre 1763, il Mattino aveva richiamato in mente quel poemetto 
inglese : " Dacci il quadro fìnito „, aveva concluso, " e contrappor- 
remo senza paura i tre canti del tuo poema al Lutrin di Boileau 
e al Rape of the Lock di Pope „. E altresì che già al Braniieri era 
venuto in mente, secondo narra nella sua lettera del 7 settembre 
1799 {Lettere di due amici, p. 6), " che a determinare il Parini a pre- 
scegliere l'ironia qual arnie, che nascondendo a primo tratto la 
intenzion di ferire non offende che lentamente e fa non pertanto 
profonda e durevole impressione, avesse dovuto contribuire mol- 
tissimo il Riccio rapito di Pope. Parevami „ , ripigliava, ' che di là 
più che d'altronde derivata avesse almeno il nostro poeta quell'arte 
difficilissima di aggrandire i piccioli, di nobilitare i bassi oggetti, 
di cogliere destramente i minimi dettagli produttori della massima 
evidenza, di rilevare maravigliosamente le minutezze e di dare 
al frivolo ed al ridicolo un'aria ben sostenuta d'importanza „. 

" E qualche altro scrittore „, continua lo Zumbini, " ha poi ac- 
cennato alla imitazione più o meno probabile che possa averne 
fatto il Parini. Il Cantù ... non accoglie questa opinione, parendogli 
che l'arte di magnificare un piccolo evento e nobilitare le minute 
particolarità il Parini poteva averla imparata da ben altri, comin- 
ciando dalla Batracomiomachia e venendo ai nostri berneschi. La- 
sciando stare quanto c'è di falso in questa e in altre sentenze che 
r illustre storico ha sopra questo medesimo proposito, diciamo 
solo che vi sarebbe un mezzo semplicissimo di risolvere tali qui- 
stioni : la paziente lettura dei poemi, di cui vogliasi affermare o 
negare la relazione. Or bene, chi legga tutto il Rape of the Lock 
non può non conchiudere che il Parini se ne sia valso largamente, 
imitandone, con abilità somma, moltissimi luoghi e insieme certe 
forme estetiche e maniere particolarissime al poeta inglese ... Il 
Mattino è tutto ricalcato sul primo canto del poema inglese, e spe- 
cialmente suir ultima parte di esso canto. 11 giovine signore è, nel 
poema italiano, un personaggio che corrisponde perfettamente 
alla Belinda del poema inglese. E qui voglio per incidenza notare 
come senza questi o simili studi, il critico corre rischio non pure 
di estimare inadeguatamente il valore estetico dei fatti, non po- 
tendone determinare esattamente l' invenzione, ma eziandio d' in- 
gannarsi intorno al valore storico o morale dei medesimi. Cosi, per 
dame un esempio, accade al Cantù, là dove trova non abbastanza 
signorile, e poco conforme ai costumi contemporanei, l'alto del 
giovine signore, descritto dal Parini in questi versi: Ma pria togli 
di tasca ecc. {v. dietro, p. 246, vv. 799-804). Ebbene, questa è una delle 
imitazioni del poema inglese. Capisco come, anche dopo saputo 
ciò, l'atto possa parere poco signorile ; ma il critico, che ne avesse 
indicato la fonte, avrebbe reso ragione dell'errore del poeta: er- 
rore volontario e commesso con la speranza di conseguire un fe- 
lice effetto poetico „. 

11 passo, cui lo Zumbini si riferisce, è nel III canto. A quelli che 



252 IL GIORNO. 

ricorderanno la parie avuta dalla traduttrice nella vita del leopardi 
riuscirà gradito eh' io lo dia nella versione della contessa Teresa 
Malvezzi Carniani (Messina, 1836). Si è intorno alla tavola dove si 
prepara il caffé. 

Un rtmpio vaso tosto lo riceve, 
In nettàrea bevanda lo converte, 
E a curvo rostro cento tazze e ceuto 
Ricolma. I cavalier con dolci inviti 
Alle donne gentili in giro il porgono, 
K vie scherzando tra soavi sorsi 
Accrescono i diletti. I Silfi accorti. 
Ed alla cura di Belinda intesi, 
Van lievemente rigirando intorno : 
Ed or su M ricco suo novel broccato 
L' uno distende le dipinte penne, 
Schermo apprestando alle cadenti stille; 
L'alìro i zeffiri move al roseo labbro, 
Che mentre liba dal calor soverchio 
Non abbia offesa. Oh veramente grato, 
Oh soave licor degno de' Numi ! 

" Non apparisce die il Parini sapesse d'inglese; ma ciò non im- 
porta», osserva il Carducci {Storia del Giorno^ p. 123 ss.), al quale 
però non piace, • e non so io perchè „ , che si parli di somiglianze 
tra il poema pariniano e il Riccio rapito. ' A mezzo il secolo de- 
ciniottavo la letteratura inglese era diffusa in Italia più forse che 
oggi, e non pure per le traduzioni francesi, ma per conoscenza 
propria della lingua e in traduzioni italiane.... Il Pope poi a quei 
nostri avi piacque su tutti e fu gustatissimo. Tutte quasi le poesie 
sue originali trovarono traduttori, e piìi d' uno, in Italia.... Il Rìccio 
rapilo, primo dei nostri lo tradusse in endecasillabi sciolti l'abate 
Antonio Conti patrizio veneto, a' conforti e con l'assistenza di lord 
Bolingbroke, al tempo della seconda sua dimora in Londra e in 
Parigi dal 1718 al 1726; e la traduzione, buona, pur omettendo al- 
cuni particolari che parevano troppo inglesi, fu pubblicata nel 1756. 
Anche l'avca tradotto fin dal 17:J9, e anche in versi sciolti, un 
abate Andrea Bonducci fiorentino, letterato e stampatore :... la tra- 
duzione, andante se non elegante, ebbe , prima della composizione 
del Mattino, tre edizioni (Firenze 1739, Firenze e Venezia 1750, Na- 
poli 1760). Sì che il Parini, non pure potè conoscere il Riccio nelle 
traduzioni francesi in prosa e una in versi del Marmonlel (1746), 
ma probabilmente lo conobbe e lesse nelle due versioni italiane» 
forse, e senza forse, migliori delle francesi „. Il Pope compose e 
pubblicò il suo poema il 1711-1712, e poi, rifatto, il 1714. 

Pei raffronti tra i due poemetti, è anclie da vedere lo scritto 
dello Z.VNKLLA, Alessandro Pope e Antonio Conti, pubblicato prima 
nella Suova Antologia del P luglio 1882, e poi nel Paralleli lei" 
terari, Verona, 1883; e, chi voglia, pur la sgarbata contradizionc del 
signor G. Agnelli, Precursori e imitatori del Giorno, Bologna, 1888, 
p. 25 ss. 



LA NOTTE. 253 

Racconta il Reina {Op., I, xxxvi) che " l'arte recondita „ del Pa- 
ri ni, " ignota al volgo de' poeti e vestita dì apparente facilità, se- 
dusse parecchi all' imitazione de' poemetti, per vaghezza di fama. 
Ma l'autore della Sera, quelli dell' Uso, della Moda e delle Conver- 
sazioni, mal distinguendo tra il naturale e l'affettato, il grande ed 
il turgido, il vero ed il falso, imitarono i modi suoi laddove l'ec- 
cellenza dell'arte è vicina al pericolo ; e, privi di belle e giudiziose 
invenzioni e di bello stile, provarono co' mediocri loro componi- 
menti che gli scrittori originali sono rari e quasi inimitabili „. Della 
Sera, che comparve a Venezia nel 1766 accodata con non biasimevole 
audacia ai due poemetti pariniani (cfr. Lettere di due amici, p. 60 
ss.), era autore un Mulinelli non so se veronese o bresciano (v. dietro, 
p. 119). Dell' Uso, pubblicato a Bergamo e a Brescia nel 1778 e nel 
1780, autore era il conte Durante Duranti. Narra l' Ugoni che, do- 
mandato il Parini che ne pensasse, rispondesse : " So pur troppo 
d'aver fatto de' cattivi scolari! „ La Moda e le Conversazioni son 
due poemetti che il parmense Clemente Bondi, uno degli ex-ge- 
suiti benaccetti alla Corte arciducale di Milano (v. dietro, p. 120), 
compose e pubblicò nel 1778. (V. quanto ne dice il Bramieri nelle 
Lettere di due amici, p. 62 ss.). 

A codesti imitatori e a codeste imitazioni son pure da. aggiun- 
gere : il canonico Gaetano Guttierez del Hoyo, che nel 1767 mandò 
fuori anonimo II Cavalier del dente, e l'anno dopo, s'è suo, Il 
Cavalier del naso ; I Nei, " poemetto di noto autore milanese „ Ve- 
nezia, Graziosi, 1768; Il Mattino d'Elisa, Venezia, Bassanese, 1768 
(dov' è notevole il consiglio del poeta alla sua eroina di non " pa- 
ventar che intanto il cavaliere Di Belinda rinnovi il caso acerbo 
Col rapirti alcun riccio alto sorgente „); Il Tupè, Bassano, Remon- 
dini, 1772, stanze graziose e leggiadre di Iacopo Viltorelli ; Il Com- 
wercio, Il Gusto, La Toletta, V Emilia del bresciano Giuseppe Col- 
pani, Milano 1766 e 1767, Lucca 1780 ; // Gioco, " stampato nelle Pro- 
vincie venete poco prima o poco dopo il 1765 „ ; Lo Studente alla 
moda, " d'autor napolitano, certamente composto e probabilmente 
stampato innanzi al 1787 „. 

Cfr. Agnelli, Precursori e imitatori del Giorno, p. 47 ss.; Gnoli, 
Studi letterari, Bologna, 1883, p. 310 ss. ; Carducci, Storia del Giorno, 
p. 202 ss. 



pobsie; varik 



AL CONSIGLIERE BARONE DE" MARTINI' 



Signor, poi che degnasti a i versi miei 
Dar si benigna lode, a ciie li rendi 
Tosto che letti ? E chiara sede nieghi 
Al lor breve volume in fra i molt'altri 
Che buon giudice aduni o che felice 
Autor descrivi ? Al vulgo in pelli adorne 
Piace i libri ammirar; ma tu non curi 
Specie o colori, ape sagace intenta 
Solo i dolci a sorbir celati sughi. 
Forse de le dottrine alte e severe 
Clio a te forman tesoro indegni credi 
Questi miei scherzi? No. Tuo senno integro 
Non vieta espor Futile e il ver scherzando. 
Spesso gli uomini scuote un acre riso: 
Ed io con ciò tentai frenar gli errori 
De' fortunati e de gP illustri, fonte 
Onde nel popol poi discorre il vizio. 
Nò paventai seguir con lunga beffa 
E la superbia prepotente e il lusso 
Stolto ed ingiusto e il mal costume e l'ozio 



* Annota il Mazzoni: " Carlo Antonio De' Martini, mandato da 
Giuseppe II a riordinare il Fóro lombardo, ebbe in dono il Mattino 
e il Mezzogiorno dal Parini ; ma, dopo lettili, glieli rimandò aven- 
dosi a male che non fossero ben rilegati ; con questi versi il Pa- 
rini glieli rimanda da capo „. Furono scritti circa il 1784. 

17 



258 POESIE VARIE. 

E la turpe mollezza e la nemica 
D'ogni atto egregio vanità del core: 
Cosi, già compie il quarto lustro, io volsi 
L'itale Muse a render saggi e buoni 
I cittadini miei: cosi la mente 
Io d'Augusto prevenni : a cui, se in mezzo 
All'alte cure de' miei carmi il suono 
Salito fosse, a la salute, a gli anni 
Onde son grave, avrei miglior sostegno, 
E al terinin condurrei la impresa tela. 
Dunque, o Signore, a la tua man concedi 
Che rieda il mio volume, ond'altri veggia 
Che, se tu dotto vi lodasti alcuno 
Pregio dell'arte, la materia e il fine 
Tu consultor del trono anco ne approvi. 



260 POESIE VARIE. 

I/usanza vostra: di sprezzar vi giova 
L'età presente, ed esaltar Tetade 
Che voi vide sbarbati. E qual vi resta 
In questi di cadenti altro conforto 
Fuor che la dolce vanità con molte 
Vane querele lusingar tossendo ? 
In vano, in van di richiamar tentate 
L'antica calza in su le brache avvolta, 
E le scarpe quadrate e i tempi oscuri. 
Quando con formidabile staffile 
Regnarono i pedanti, a cui dinanzi 
Con boccaccia e con strani torcimenti 
Stridevano i fanciulli 



PER NOZZE* 



È pur dolce in su i begli anni 

De la calda età novella 

Lo sposar vaga donzella 

Che d'amor già ne feri. 
In quel giorno i primi affanni 

Ci ritornano al pensiere, 

E maggior nasce il piacere 

Da la pena che fuggi. 
Quando il sole in mar declina 

Palpitare il cor si sente: 

Gran tumulto è ne la mente: 

Gran desio ne gli occhi appar. 
Quando sorge la mattina 

A destar Taura amorosa, 

Il bel volto de la sposa 

Si comincia a vagheggiar. 
Bel vederla in su le piume 

Riposarsi al nostro fianco, 

L'un de' bracci nudo e bianco 

Distendendo in sul guancial; 
E il bel crine oltra il costume 

Scorrer libero e negletto, 

E velarle il giovin petto 

Che va e viene all'onda egual' 

* Fu scritta suUa line del 1777, pel volume che si preparava in Ve- 
rona a celebrar le nozze del marchese Carlo Malaspina con la 
contessina Teresa Montanari. 11 Parini ne fu richiesto dal Pas- 
se roni. 



262 POESIE VARIE. 

Bel veder de le due p;ote 
Sul vivissimo colore 
Splender limpido madore 
Onde il sonno le spruzzò; 

Come rose ancora ignote 
Sovra cui minuta cada 
La freschissima rugiada 
Che Taurora distillò. 

Bel vederla alFimprovviso 
1 bei lumi aprire al giorno; 
E cercar lo sposo intorno, 
Di trovarlo incerta ancor: 

E poi schiudere il sorriso 
E le molli parolette 
Fra le grazie ingenue e schiette 
De la brama e del pudor. 

O Garzone, amabil figlio 
Di famosi e grandi eroi, 
Sul fiorir de gli anni tuoi 
Questa sorte a te verrà. 

Tu domane, aprendo il ciglio. 
Mirerai fra i lieti lari 
Un tesor che non ha pari 
E di grazia e di beltà. 

Ma ohimè come fugace 
Se ne va letà più fresca, 
E con lei quel che ne adesca 
Fior si tenero e gentil! 

Come presto a quel che piace 
L'uso toglie il pregio e il vanto; 
E dileguasi l'incanto 
De la voglia giovanili 

Te beato in fra gli amanti, 
Che vedrai fra i lieti lari 
Un tesor che non ha pari 
Di bellezza e di virtù! 

La virtù guida costanti 
A la tomba i casti amori, 
Poi che il tempo invola i fiori 
De la cara gioventù. 



BRINDISI 



Volano i giorni rapidi 

Del caro viver mio; 

E giunta in sul pendio 

Precipita l'età. 
Le belle ohimè che al fingere 

Han lingua cosi presta 

Sol mi ripeton questa 

Ingrata verità. 
Con quelle occhiate mutole 

Con quel contegno avaro 

Mi dicono assai chiaro: 

Noi non siam più per te ! 
E fuggono e folleggiano 

Tra gioventù vivace; 

E rendonvi loquace 

L'occhio la mano e il pie. 

* Fu scritto al principio del 1778, quando già il poeta era sui 
cinquanta. II Parini svolge con nuova leggiadria un vecchio motivo 
anacreontico. Si ricordi la XI* delle odicine attribuite al poeta 
greco, cosi caro al nostro. (Gfr. Novati, nel Giorn. Stor. d. lett. ital., 
I, p. 125). La dò nella versione contemporanea del RoUi: 

Sentomi dir le donne : 

Sei vecchio, Anacreonte ! 

Prendi lo specchio, osserva 

Dileguati i capelli 

E tutto calvo il fronte. 
Di quel che spetta a quelli, 

Non mi curo, non so 

Se ancor vi sieno o no; 

So ben che a un attempato 

Divertirsi conviene 

Più che l'estremo fato 

Presso di lui sen viene. 



264 POESIE VARIE. 

Glie far? degg'io di lagrime 
Bagnar per questo il ciglio ? 
Ah, no: miglior consiglio 
È di godere ancor. 

Se già di mirti teneri 
Colsi mia parte in Gnido, 
Lasciamo che a quel lido 
Vada con altri Amor. 

Volgan le spalle candide, 
Volgano a me le belle : 
Ogni piacer con elle 
Non se ne parte al fin. 
A Bacco, all'Amicizia 
Sacro i venturi giorni. 
Cadano i mirti; e s'orni 
D'ellera il misto crin. 

Che fai su questa cetera, 
Corda che amor sonasti? 
Male al tenor contrasti 
Del novo mio piacer. 

Or di cantar dilettami 
Tra' miei giocondi amici, 
Augurj a lor felici 
Versando dal bicchier. 

Fugge la inslabil Venere 
Con la stagion de' fiori: 
Ma tu, Lieo, ristori 
Quando il dicembre usci. 
Amor con l'età fervida 
Convien che si dilegue; 
Ma l'amistà ne segue 
Fino a l'estremo di. 

Le belle, ch*or s'involano 
Schife da noi lontano, 
Verranci allor pian piano 
Lor brindisi ad offrir. 

E noi, compagni amabili, 
Che far con esse allora? 
Seco un bicchiere ancora 
Bevere, e poi morir. 



IL PARAFOCO 



Stava un giorno Giterea 
Di Vulcano a la fucina: 
Né difender si sapea 
Da la fiamma a lei vicina; 
Nò salvar le fresche rose 
De le gote sue vezzose. 

Opponeva or destra or manca 
Al gran foco ivi raccolto; 
Ma la man picciola e bianca 
Vano scudo era al bel volto; 
Che feriva e volto e mano 
La gran vampa di Vulcano. 

De la Dea vide i tormenti; 
A pietadc Amor si mosse: 
E dell'ali rinascenti 
Una subito strapposse, 
Poi con atto dolce e caro, 
Ecco, disse, il tuo riparo. 

Serenò Venere il ciglio; 
E il celeste almo sorriso 
Rivolgendo al caro figlio, 
Abbassossi, e il baciò in viso; 
Poi fé' schermo al gran calore 
Con quell'ala dell'Amore. 

Ma la Dea sagace apprese, 
Riparando al foco ardente. 



266 POESIE VARIE. 

Di quel vago e novo arnese 
Ad usar più dolcemente: 
Onde rise il Nume armato 
Che le stava all'altro lato. 

Ella i guardi a lui volgeva, 
Airorecchio gli parlava, 
E il bel volto nascondeva 
Dal marito che guardava; 
E cosi sfogava il core 
Sotto all'ala deiramore. 

Spesso ancor si ricopria 
La metà de le pupille; 
E più forte Tassalia 
Condensando le faville, 
Che ferian con più rigore 
Sotto all'ala dell'Amore. 

Or dal sommo de' bei labri 
Accennava i molli baci; 
Ora uscien de' bei cinabri 
Sospiretti o ghigni audaci; 
Or nasceva un bel rossore 
Sotto all'ala dell'Amore. 

Tale, intanto che Vulcano 
Fabbricava arme agli Dei, 
Giterea cosi pian piano 
Accresceva i suoi trofei 
Sopra il Nume vincitore 
Sotto all'ala dell'Amore. 

Belle mie, voi m'intendete: 
Dell'Amor l'ala son io. 
Come Venere, potete 
E spiegar più d'un desio 
E temprar l'occulto ardore 
Sotto all'ala dell'Amore. 



DA ANACREONTE* 



Rondinella garruletta, 

Se non taci, un giorno affé 

Io vo' far sopra di te 

Un'asprissima vendetta. 
Vo' pigliarti stretta stretta, 

E legarti per un pie'; 

Poi far quel che Téreo fé' 

Con cotesta tua linguetta. 
L'alba in ciel non anco appare 

Che con querula favella 

Tu ne vieni a risvegliare. 
Or che dorme la mia bella, 

Guarda ben, non la destare, 

Garruletta rondinella. 

E la XII delle Odi. Il Rolli Taveva già tradotta languidamente, 
cosi : 

Or che mai, per mia vendetta, 
A te vuoi ch'io faccia, a te, 
Rondinella garruletta ? 
Quelle tue si rapid'ali 
Vuoi che, prese, io tarpi ? o addentro 
Tagli via quella tua lingua. 
Come quel Teréo ti fé'? 
Con le troppo mattutine 
Voci stridule, a qual fine 
Da quel sogno si gradito 
Hai Batillo mio rapito ? 



FINE. 



i3sriDiaE 



Pag. 

Lettera a Bonaventura Zumbini v 

Te di stirpe gentile, frammento dì ode x 

Cenni riografici xiii 

Io son nato in Parnaso...., sonetto xiv 

Chi noi già per V undecima, frammento di ode . . . xv 

Predàro i Filistei l'Arca di Dio, sonetto xxii 

Odi 1 

Avvertenza 2 

La vita rustica 3 

Lasalubrità dell'aria 6 

L a i m p o s t II r a 11 

L'educazione 15 

L'innesto delvaiuolo • 21 

Ilbisogno 29 

L a m u s i e a 33 

Frammento del sermone II teatro . . 37 

Lalaurea 39 

L arecita deiversi 45 

Un prete brutto vecchio.. ., sonetto 47 

Ecco del mondo e meraviglia...., sonetto . . . 48 

Ilpericolo 49 

Grato scarpel su questo marmo...., sonetto .... 53 

Quell'io che già con lungo...., sonetto 35 

Lacaduta . .54 

Late ni pesta 60 

Carca di merci preziose. ... sonetto 65 

In morte di Antonio Sacchini . . . 66 

Quando costei su la volubil scena, sonetto ... 69 

Allor che il caro albergo...., sonetto 70 



270 INDICE. 

Pag. 

Lamagistraturn 71 

Ildono 78 

Tanta già di coturni...., sonetto 80 

Le fresche ombre tranquille...^ sonetto 81 

Lagratitudine. . . . 82 

Il messaggio 93 

Rapi de' versi miei...., sonetto 97 

O /)e//a Venere per cui s' accende, sonetto .... 97 

Sul vestire alla ghigliottina, A Silvia. . 99 

Madamm g' ìiala quaj noeuva de Lionfy sonetto . . 103 

Silvia immortai ben che da i lidi miei, sonetto . . 106 

Alla musa 108 

Il Giorno 113 

Avvertenza 115 

Il Mattino, poemetto 123 

Allamoda 124 

Nota 159 

Il Mezzogiorno, poemetto 165 

Nota 198 

Il Vespro, poemetto 2(fi 

La Notte, poemetto 223 

Nota 248 

L'Auto-da-fe, frammento 248 

Sopra il molle canapè, epigramma 250 

Noi ventagli e voi amanti, epigramma .... 250 

Il tuo bene il tuo bel foco, epigramma .... 250 

De le belle il capo a nuoto, epigramma .... 250 

Poesie varie 255 

Al consigliere Barone de' Martini . . 257 

AGianCarlo Passerotti 259 

Pernozze 261 

Brindisi 263 

Il Parafoco 265 

DaAnacreonte 267